Viaggio in Sardegna

di Ovidio Della Croce

GALLERIA (foto di Ovidio Della Croce e Susanna Vierucci)

Mare aperto

Dunque ci risiamo nel perimetro interno della piccola casa quasi abbandonata all’inizio delle falesie, tra sterpi, agli selvatici, pitosforo coperto dal salino, ginepri, gigli, margherite, lucertole e scogli. Anche con qualche biacco, perché i poeti ce li vogliono i biacchi, sono rettili di poco più di un metro, simpatici a chi stanno simpatici i biacchi. Ma non ne ho visto nemmeno uno.  Un topo innamorato o due sì, però, e non è poco.

Però, però c’è un’artista sulla spiaggia che nuota e dipinge scene, nuota e dipinge e ride, e fa delle buone zuppe, si chiama Ruth Pulgram e, oltre a tutto questo, fa la scenografa tra Lione e Berlino. Ruth ha attirato le simpatie del gruppo dei “pisani a Putzu Idu” con i disegni in bianco e nero che ha esposto nella veranda di casa e soprattutto perché elle joue dans la mer: nuota con un battellino gonfiabile legato alla vita in cui ripone tutto il necessario per stare in mare per molte ore, fermarsi in una caletta per riposare, disegnare e poi ripartire.

Però, però, però seppur modesta, ah è davvero molto modesta, la piccola casa sugli scogli ha una finestra. Sopra la finestra c’è scritto: “Mare aperto”. Il proprietario della casa è il signor Giacomo Pinna, noi amichevolmente lo chiamiamo Giacomino. Il signor Giacomino ha una bella faccia sarda, è un tipo pratico, di poche parole, spesso affoga lo sguardo in un bicchiere di vernaccia preparata da lui per cercare la faccia di sua moglie morta troppo presto. Il signor Giacomino ha avuto in eredità questa piccola casa aperta al mare da uno svizzero paraplegico, il signor Giuseppe, perché l’ha assistito fino alla morte. Il signor Giuseppe era un tipo strano, faceva il bagno con due legni sotto le ascelle per restare a galla, era accudito da una bella infermiera svizzera, girava per il paesello con un’auto particolare e passava ore e ore a guardare il mare puntando un cannocchiale alla finestra.

Da quella stessa finestra che sopra reca scritto: “Mare aperto”. E dal rettangolo della finestra l’immensità del mare avvicinata dalle lenti appariva più nitida. Il cannocchiale stava al centro della stanza col soffitto incannicciato, proprio nel punto da dove ora scrivo e, da questa geometria rettangolare, osservo il mare. La porta di questa stanza si inceppa, forse ingrossata dall’umidità marina. Il signor Giacomino è venuto con la sua cassetta degli attrezzi per cercare di risolvere il problema: l’ha piallata un po’ alla base e almeno ora si chiude meglio. Quando se n’è andato ci ha regalato una bottiglia di vernaccia: “Bevetela alla mia faccia”, ha detto.

Se si apre la porta della piccola casa sugli scogli si va nella terrazza con i gigli bianchi, le margherite gialle, un po’ di macchia mediterranea che arriva fino ai muri della casa, e tutto intorno è verde e azzurro. Il perimetro della terrazza è delimitato da un muricciolo di pietre cavate dalla falesia e da un cancellino di legno mezzo rotto. Se si apre il cancellino si può imboccare un viottolo che porta alle falesie o andare alle spiagge del paesello, ma le prime due, ai tempi del signor Giuseppe, erano più grandi e con qualche caletta. Il il mare in cinquant’anni si è preso un po’ di spiaggia e qualche caletta, però ha resistito alle mareggiate s’Architeddu. Da questo archetto siamo passati a nuoto e abbiamo proseguito, un crawl lento, verso Putzu Idu.

Sul mare brillano le luci del faro di Capo Mannu e del paesello che si affaccia sul mare. Le onde si frangono salate sugli scogli e sulla spiaggia ed è bello tuffarsi leggeri, a tutte le ore, nel mito di questo mare. Quando ci sediamo a un tavolino del caffè all’aperto sul mare sui tavoli le bevande sono fresche.

Sulla spiaggia ci piace leggere, parlare e giocare a fare un po’ gli scemi, c’è pure qualcuno che fa i cruciverba in queste giornate splendide. A volte si fanno passeggiate negli immediati dintorni, spesso ci perdiamo nel silenzio e ci fermiamo a guardare il mare. Nel gruppo c’è pure qualcuno che si diverte a scrivere racconti, confessioni, poesie in tedesco o in sardo oppure semplici nonsense dedicati a questo mare per un piccolo concorso letterario senza premi, una specie di gioco di compagnia e rinforzare il nostro vincolo di gruppo attaccato a questo posto di mare. C’è pure qualcuno che scrive haiku e poesiole. Ne ricordo una sciocchina che diceva così:

Il vento soffia

nel caldo luglio

su questa spiaggia di miele.

Un’altra estate,

come sempre, vola.

Sulla terrazza della piccola casa sulla scogliera spalancata sul tramonto, il nostro sguardo si perde sul filo dell’orizzonte. Con la brezza della sera beviamo un sorso di vernaccia fresca alla faccia del signor Giacomino. Senza la cornice della finestra e fuori dal perimetro della nostra piccola casa sulle falesie, ci può capitare di rivedere tutto quello che abbiamo vissuto e sognato fluire, come un’onda che si frange, in mare aperto.


L’Asinara in bicicletta

Viaggetto 2: Asinara (Luglio 2013)

Ora che sono rientrato al porto turistico di Marina di Stintino, dove stamattina abbiamo parcheggiato la macchina con un biglietto giornaliero da cinque euro, l’Asinara mi manca.

La mattina alle dieci raggiungiamo il molo dove è ormeggiata la motonave “Il Gabbiano”, pago trentasei euro per due biglietti e il marinaio con la maglia azzurra e i calzoncini al ginocchio blu ci da un braccialetto di gomma verde con un numero di telefono, perché abbiamo scelto di visitare gagliardamente l’isola da soli in bicicletta. Ebbene no, il trenino gommato con la visita in gruppo non è quello che cerchiamo in questo “ultimo paradiso”, come dice a grandi caratteri il dépliant che leggo anche senza occhiali da vista, li ho lasciati all’agriturismo, mi sembravano superflui.

Navighiamo tra mare e cielo verso l’isola dell’Asinara, con i suoi cinquemila ettari di superficie, con una ventina di chilometri di lunghezza, sei di larghezza e cento di coste, ora parco nazionale e area marina protetta. Disabitata dal 1855, ora è possibile arrivarci con un accesso regolato.

A Fornelli, dove sbarchiamo, al Centro visite c’è un bar, un ufficio del parco e il noleggio delle mountain bike dei fratelli Madeddu. Sappiamo che venti chilometri in bici non sono molti, ma è caldo e i dislivelli possono essere pesanti se il sole spunta da dietro le nuvole. “Buongiorno”, dico, “Vorrei una bici leggera, ho una certa età”. Uno dei fratelli Madeddu mi fa: “Ci sono pure le bici elettriche”. Ma vedo una mountain bike nera nuova fiammante, leggera e con un buon cambio. “No grazie, prendo questa” e pago quindici euro a bici.

Insomma, pedala pedala prendiamo l’unica strada che traversa l’isola da cima a fondo, stretta, cementata con l’intenzione di arrivare a Cala Reale. Dopo la prima salita incontriamo il carcere di massima sicurezza che è chiuso e non fa quell’impressione che suscitava negli anni Settanta quando lo sentivamo nominare al telegiornale; poco più in là c’è la colonia penale agricola che accoglieva un tempo detenuti che lavoravano la terra e a volte potevano uscire a fare il bagno.

Pedala pedala il nostro viaggetto non ha solo una destinazione, ma è soprattutto questa pedalata sui saliscendi dell’Asinara: saliamo fino a trecento metri sul livello del mare e poi scivoliamo veloci in discesa per avere la spinta necessaria per affrontare la salita successiva. Su quell’unica strada stretta solchiamo le colline dell’isola con alte falesie a picco sul mare sulla costa occidentale, altrimenti pianeggiata in coste brulle che scendono in poche e solitarie spiaggette di sabbia dorata, odorate da lentischi, cisto, e lecci coperti di sale sulla costa orientale. Sono disallenato e rimango indietro. Vedo Susanna scendere di bicicletta e spingerla in salita, sembra una tartaruga marina in cerca di ossigeno sotto il sole feroce di mezzogiorno. Strani animali marini le tartarughe, hanno i polmoni come noi, ma con una boccata vanno in apnea e si immergono per molto tempo.

Pedala pedala, cammina cammina in salita, perché le salite le abbiamo fatte quasi tutte a piedi e scivola scivola in discesa, decidiamo di fare una breve sosta all’ombra seduti su un muretto per bere, mangiare due albicocche e un pugno di ciliege, perché non siamo come gli asinelli che incontriamo per strada che sopravvivono con niente.

La seconda sosta l’abbiamo fatta proprio lì, in fondo a una discesa, in una spiaggetta vicino a un ponte, esattamente come in certi dépliant dove c’è scritto “un angolo di paradiso”, abbiamo appoggiato le biciclette, ci siamo spogliati, abbiamo lasciato i vestiti sudati ad asciugare sulla roccia e siamo entrati in mare piano piano con la sensazione di immergerci totalmente in una parte fresca e silenziosa della natura.

È tutto come deve essere. Abbiamo nuotato facendo attenzione a non disturbare i saraghi che popolano queste acque e, con la testa sott’acqua, ho pensato alla vita e al silenzio che raramente si affaccia nella vita, ma che la percorre come fa una corrente che scorre nel profondo di questo mare. Nuotando nel mare liscio come l’olio ho pensato a questo povero Mediterrano.

E via di nuovo mèzzi mézzi verso Cala Reale. Ci ripariamo a un fresco dietro il Palazzo per una terza sosta con uno spuntino, ma il peso della storia di questa parte della Sardegna, richiamato da una piccola cappella davanti alla spiaggia dell’Ossario, è più soffocante del sole a picco. Decine di migliaia di giovani soldati sardi, italiani, austriaci e tedeschi furono deportati all’Asinara, qui morirono soprattutto di colera e molti corpi furono buttati in mare.

Ma a questo punto preferiamo visitare il minuscolo CRAMA, Centro di recupero animali marini Asinara, con visita guidata da due gentili e motivate ragazze che, nella saletta divulgativa, illustrano la fauna marina dell’isola, parlano delle tartarughe marine minacciate di estinzione e, nella stanzetta delle vasche, ce ne mostrano tre della specie Caretta caretta in cura presso il Centro, presto saranno di nuovo libere di nuotare, ma ce n’è una quarta nell’ambulatorio veterinario. Compriamo una maglietta, lasciamo un’offerta e decidiamo di sostare in una spiaggia solitaria.

Mentre ce ne stiamo lì soli soletti tra scogli, erbe, mare e monti pensiamo che proprio qui era il posto dove volevamo fare una sosta. Decidiamo di rimandare a un’altra volta la visita a Cala d’Oliva dove c’è l’Ostello con qualche posto per dormire. Si fa tardi per rientrare a Fornelli in bicicletta, decidiamo di provare a salirle sull’ultimo bus per non perdere la coincidenza col traghetto confidando sulla bonarietà dell’autista. Con due biglietti per un totale di quattordici euro l’autista fa un piccolo strappo alla regola e carica noi e le biciclette. Torniamo a Fornelli in una ventina di minuti.

Chissà se sono riuscito a dare indicazioni utili e a spiegare come sono stato bene all’Asinara. Da tanto tempo sognavo di andarci e ora ho il desiderio di tornarci. Grazie Susanna per aver organizzato questo viaggetto.


Tharros, il mare raddoppiato

Viaggetto 3: Tharros (Luglio 2013)

In questo viaggetto si parla di Tharros, ben sapendo quanto è difficile restituire le sensazioni che questo posto ci provoca ogni volta che ci andiamo. La sua bellezza ci stordisce. Dunque, riduciamo al minimo il racconto pieno di emozioni, tramonti, suggestioni che possono annoiare i lettori e cerchiamo di dare qualche utile consiglio a chi avrà voglia di andarci. Ma già sappiamo che questo accadrà difficilmente, allora cercate di essere contenti che chi ci è stato abbia pensato di suggerirvelo scrivendo questo resoconto.

Innanzitutto Tharros è la nostra meta preferita (da me e da Susanna) quando ci troviamo nella penisola del Sinis, provincia di Oristano. Da Putzu Idu, dove soggiorniamo a luglio da molti anni, seguiamo le indicazioni per Tharros, imbocchiamo all’inizio un viale con le due file di palme che muovono le loro braccia al vento e in una ventina di minuti percorriamo venti chilometri poco trafficati e con un paesaggio molto bello tra la campagna, lo stagno di Cabras e il villaggio di San Salvatore finché non arriviamo a San Giovanni di Sinis. La chiesetta paleocristiana merita senz’altro di essere vista colpiti dalla sua semplicità. Finita la visita conviene parcheggiare e con sei euro possiamo sostare tutto il giorno.

Dopodiché, se evitiamo il banale trenino gommato, ci aspetta una passeggiatina di dieci minuti costeggiando una bella spiaggia alla nostra destra, finché non raggiungiamo il sito archeologico di Tharros, antica città fenicia del sec. VIII a. C. Al chiosco “RistoBar Tharros”, davanti a una torre spagnola, si può ammirare la punta estrema sud della penisola del Sinis e, finita la poesia, tornare pian pianino alla realtà: prenotare una visita all’area archeologica nel tardo pomeriggio per vedere le diverse fasi della colonizzazione fenicia e romana; e, se vi va, resta da prenotare anche un più prosaico pranzetto verso le due dicendo che siete pisani, un nome per tutti: Sandro, vi tratteranno bene e con simpatia. Poi, se alla biglietteria vi procurate un coupon, potrete usufruire anche di uno sconticino del dieci per cento sulle specialità locali del chiosco in quanto siete passati tra coloro che contribuiscono “alla gestione del patrimonio comunale”.

Dall’alto della torre spagnola vi sarete fatti subito l’idea dell’anfiteatro su cui sorgeva la città fenicia, la cui caratteristica è di essere tra due mari divisi da un piccolo istmo. È proprio una sottile striscia di terra, tra i due diversi mari ci saranno sì e no cinquanta metri. Noi preferiamo sostare alla seconda spiaggia sempre rinfrescata dal vento, ma i fenici costruirono la loro città sull’altro lato per mettersi al riparo e assicurarsi facili approdi in qualsiasi condizione climatica. Città fenicia bimare con due situazioni opposte: da un lato la spuma delle onde e il soffio del vento, dall’altro mare calmo e un’aria quasi soffocante nelle giornate calde. Ma tutta questa bellezza marina si confonde con i resti archeologici per il momento ancora ben conservati. Tutto allora ci sembra ancora in equilibrio e forse per questo ci ricreiamo dopo la sensazione di stordimento.

Piantati gli ombrelloni nel frattempo, con Susanna e il nostro amico Juan Carlos Herrero, impiegato statale a Malaga e ormai del gruppo degli aficionados dei pisani a Putzu Idu, decidiamo di fare una passeggiata di mezz’ora fino alla caletta, dove è bello tuffarsi dal pontile e, volendo, con un’oretta di nuoto lento e muniti di maschera e pinne, si può tornare verso l’antica città fenicia in compagnia di diverse soglioline.

Siamo già alle due, entriamo nel chiosco dove ormai siamo di casa e ci gustiamo un piatto di spaghetti allo scoglio distesi su una foglia di pane carasau, un bicchiere di vernaccia secca fresca e l’ottima casada (ricotta fresca con limone), un pranzetto che ci ricorderemo fino al prossimo anno. Se vi interessano le danze popolari chiedete al personale del chiosco e organizzatevi per il venerdì sera per ballare il ballo tondo davanti alla chiesetta di San Giovanni.

Non sappiamo come finire questo resoconto, scusate, nella saletta del chiosco il nostro sguardo si perde all’infinito. Si brinda in compagnia, si fanno due chiacchiere, si ascoltano storie della gente dei tavoli accanto, ecco il gusto degli spaghetti e così a Tharros ci sembra di ritrovare un certo equilibrio interiore, ecco un altro cin cin e così socchiudiamo gli occhi e vediamo luccicare in lontananza il mare dorato. Grazie Sandro e Linda che ci avete fatto scoprire Tharros, un posto davvero unico.

Fotografia: “Due colonne a Tharros”, di Susanna Vierucci


L’isola

I miei amici del Sinis e noi pisani a Putzu Idu la chiamano l’isola, credo che tutti qui la chiamino l’isola. Forse perché è, con lo Scoglio del Catalano, l’unica isola della penisola del Sinis. O forse perché all’isola tutti cercano qualcosa. Nei dépliant turistici l’isola di Mal di Ventre è definita “affascinante per avventurose escursioni”. Noi forse ci andiamo perché lì non c’è niente e ci pare che ci sia tutto, perché l’isola non è solo l’isola, l’isola siamo un po’ anche noi. Senza saperlo ce la portiamo dentro e quando torniamo a casa e facciamo una doccia, l’isola ci resta addosso.

La sera prima riceviamo un messaggio da Giangi e Luca Chiesura di Naturawentura: “Conferma meteo per domani, partenza ore nove, rientro ore tredici, chek-in ore otto e trenta allo Scivolo”. Quando la mattina, alle otto e trenta in punto, arriviamo allo Scivolo sulle nostre facce c’è già dipinta l’isola. La giornata è splendida, fa già caldo. Prima dell’imbarco, sulla destra, c’è un bar ombreggiato dove possiamo fermarci a fare colazione o soltanto per bere un caffè o un succo di frutta. Ci sono due gommoni che ci aspettano, saliamo su quello più grande per undici persone. Il conducente chiede la nostra collaborazione per togliere gli ormeggi, ci fa vedere le ancore, distribuisce i salvagenti ai due bambini e si parte.

Buongiorno, mi chiamo Giacomo Chiesa, dice, stiamo navigando verso l’isola di Mal di Ventre a quattro miglia e mezzo da Capo Mannu, circa dieci chilometri. Stiamo entrando nell’Area Marina Protetta che va da Capo Mannu a Capo San Marco. Nella vecchia cartografia si legge “Malavente” o “Malu Entu” che in sardo significa “cattivo vento”, poi il nome per una storpiatura è diventato “Mal di Ventre”. L’isola è quattro chilometri per due, ha una superficie di quasi un chilometro quadrato e il punto più alto è diciotto metri sul livello del mare. La parte nord è brulla per le mareggiate, nella parte più a sud c’è un po’ di vegetazione mediterranea con piante alte anche così, e alza la mano destra fino a un metro. E poi dice: l’isola è fatta di rocce di granito, calette e spiagge di sabbia grossa, per via dell’erosione le ritroviamo sulla spiaggia a chicchi di riso di Isarutas. Gli unici abitanti dell’isola sono i conigli selvatici, il biacco, il gabbiano reale e quello corso, che è in via di estinzione, i marangoni dal ciuffo, ma attenti, a non confonderli con i cormorani che vivono vicino agli stagni. Per fare il giro dell’isola a piedi ci vogliono due ore. Verso nord, dove si vedono quelle onde, è possibile fare snorkeling e vedere anche il relitto di una nave olandese; ma stamattina è meglio di no, c’è un maestralino sostenuto, stamattina meglio passeggiare verso sud e andare a Cala dei Pastori, lì ci sono anche i resti di un nuraghe, o verso Cala Valdaro o cercare i resti di una villa romana oppure andare nella parte occidentale e raggiungere il faro. Ecco siamo arrivati a Capo Salina.

 Il conducente cala l’ancora sul fondale sabbioso per evitare di danneggiare la Posidonia che genera ossigeno per il mare e dice: L’altra sera ho visto in televisione un documentario sul Gange che diceva che il fiume sacro ha una produzione di ossigeno quattro volte superiore a quello delle acque interne, per questo riesce a sopportare tutto lo schifo che c’è. Mentre stiamo scendendo con i nostri ombrelloni e le nostre borse da mare in mano, ci dice: Per favore, non lasciate bottiglie di plastica, non lasciate niente e non portate via niente.

Qui non c’è davvero niente e nessuno. Camminiamo sulla spiaggia sopportando quel leggero puzzo di zolfo forse dovuto alla Posidonia o forse a qualche sorgente. Lo prendiamo come si prende una medicina quando serve per farci stare meglio. Mettiamo su un piccolo accampamento, qualcuno pianta legni e canne trovate sulla spiaggia per provare a costruire alla buona una tendina, i bambini lo prendono come un gioco e aiutano a costruire il rifugio, non si sa mai, i pirati sono sempre pronti agli agguati. Che bello il nostro accampamento visto dal mare mentre cominciamo a fare i primi tuffi.

Appena rinfrescati facciamo una passeggiatina in un viottolo orlato di agli selvatici, raggiungiamo Cala dei Pastori e decidiamo di tornare a nuoto. Ci siamo portati una maschera per non perderci la meraviglia dei fondali molto variati di questa costa e nuotiamo in compagnia di salpe, occhiate e muggini e in superficie si avvista un marangone che pesca. Superato lo scoglio chiamato “Carciofone”, la nostra nuotata finisce bene e torniamo alla base dove ci rinfreschiamo con delle susine piccole come chicchi d’uva. I bambini continuano a giocare ai pirati, all’orizzonte si vede un veliero, forse una nave pirata, e anche noi ci immaginiamo di essere pirati.

Il ritorno in gommone, col vento in poppa, pare più veloce; il conducente ci dice di no perché, dice, le onde fanno così e rotea la mano in aria disegnando un vortice. A questo punto gli chiediamo perché l’isola è chiamata l’isola. Non risponde. Allora insistiamo e gli chiediamo: Perché tu, Giangi e Luca volete così bene all’isola? Un attimo di silenzio. Specifichiamo: Perché ci siete innamorati? Risponde al volo: Perché ci ho passato la mia infanzia. Giangi e Luca anche più di me, ci stavano mesi sull’isola.

Ormeggiamo il gommone e saliamo sul piccolo molo con l’aiuto del nostro Giacomo. Salutiamo: Grazie, è stato un vero piacere. I bambini si sono divertiti un mondo a giocare ai pirati. Grazie a voi, fate bene a tornare sull’isola ogni anno, è una storia infinita. Mi prende la mano, me la stringe e dice: Ricordami il tuo nome.

Glielo dico, ma avrei voluto rispondere: Capitano Nemo. Gli giro le spalle e naturalmente ringrazio l’isola e anche qualche scrittore che ha scritto di pirati, L’isola del tesoro e Robert Luis Stevenson che su un’isola si ritirò e dove gli aborigeni lo soprannominarono Tusitala, “narratore di storie”. Mentre cammino sul pontile, vi sembrerà puerile, penso ai giochi della mia infanzia e alle letture della mia adolescenza. Andare all’isola è sempre una buona idea.


 

Strani incontri alla Maddalena

In Sardegna (o meglio alla Maddalena) è possibile anche fare strani incontri sulla spiaggia mentre sotto l’ombrellone si sta leggendo l’ultimo appassionante romanzo di … È possibile anche, nonostante l’inconsuetudine  dell’incontro, rimanere reciprocamente indifferenti come se fosse un evento della vita quotidiana.

Estate luglio 2021


Ciao

Fine del viaggetto sardo (Luglio 2013)

Giocatori (2002) e Ricordo di un’estate (2013)

Immagini del luglio 2002 (Giocatori) e del luglio 2013 (Ricordo di un’estate) a Putzu Idu e nelle immediate vicinanze.
Riprese “Strudelfilm” di Sandro Marianelli e “Seadas e Bottarga Film”, di Ovidio Della Croce e Susanna Vierucci.
Montaggio “Strudelfilm”, di Sandro Marianelli (Arbauz).
Durata: Giocatori 1′,28” e Ricordo di un’estate 2’,53’’.


Lettera

Gentili Signori,
la Vostra Agenzia Viaggi intende salutarVi con un messaggio video che racchiude la parte migliore della Vostra estate. La Casa di Produzione denominata “Seadas e Bottarga Film” (Vi lascio indovinare chi è Seadas e chi Bottarga) non vanta nessuna esperienza in campo cinematografico, anche se nel corso degli anni si è prestata nella volontaria collaborazione con la più antica e prestigiosa “Strudel Film” (non Vi sarà sfuggito il nome del montatore anche conosciuto con lo pseudonimo Arbauz) che ha realizzato il video Giocatori e ha curato la delicata fase di montaggio delle riprese. La “Seadas e Bottarga Film” tiene a precisare che ha realizzato le riprese contenute in due cassettine di circa due ore di girato e, per amor di verità, ha avuto a disposizione da “Strudel Film” la location, gli strumenti tecnici, un po’ di assistenza e consigli vari. Ma non ha realizzato nessun montaggio.

Per Vostra fortuna l’imprevedibile Arbauz ci ha inviato una mail con un titolo laconico, un semplice ciao. Ma il vero titolo era: “Ricordo di un’estate (2013)”. Al titolo seguiva un contenuto ben più corposo: un video di due minuti e cinquantatre secondi. La Vostra Agenzia Viaggi intende diramare le immagini denominate “Ricordo di un’estate 2013” accompagnate dalla seguente lettera circolare proveniente dalla Casa di Produzione “Seadas e Bottarga Film”.

“Siamo sbarcati sull’isola in un pomeriggio di Luglio. Abbiamo raggiunto il piccolo e sperduto paese verso sera. Sul mare brillavano le luci del faro di Capo Mannu. Abbiamo cenato con una pizza alla bottarga e una seadas e abbiamo bevuto un’ichnusa. Sono seguiti giorni caldi di un’estate piena. Dalla nostra casa si vedeva un’isola dove non c’è nessuno, qualche volta ci sono stato e ti ho cercato, camminando ho visto agli e conigli selvatici. In un’estate lontana ti ho visto, stavi appena in piedi e ti sostenevi appoggiata a un ombrellone cercando di muovere i primi passi, eri incuriosita di conquistare quella libertà a piedi nudi. Togliersi le scarpe, quando puoi, è un’abitudine conquistata da bambina, la libertà di stare scalza ti ha sempre divertita.
La nostra estate passava con colazioni lunghissime, la ragazza che non capiva mai quando volevamo il cappuccino e la brioche ci è rimasta subito simpatica, non voleva esser ripresa, ma poi è stata al gioco. Davanti al cappuccino c’era chi sbuffava perché la Gazzetta dello Sport non riportava nessuna notizia sul Pisa calcio. Davanti al cappuccino c’era chi rideva se qualcuno sbuffava per niente. La nostra estate passava con passeggiate sulle falesie con cartelli di pericolo frane. Per mare, dal basso, si vedevano anche frane recenti e i nidi dei cormorani. E poi passava l’estate con gite in gommone, tanto sole, gli asinelli e qualche ombra, tuffi e nuotate, camminate e giri in bicicletta, tramonti, lune nascenti e fenicotteri in volo. Vino fresco e patatine crocchias. La nostra estate passava e cercavamo di fermarla con la cinepresa. Ah! davanti alla finestra della nostra casa sono rimaste tante bottiglie vuote. E ora siamo qui a guardare questi due minuti e cinquantatre secondi presi dalle cose che passano, mentre ascoltiamo una musica dolente e nostalgica. La nostra estate è passata e noi ora assorbiamo come una spugna queste poche immagini montate senza un nesso prestabilito in ricordo di qualcosa che abbiamo perduto e che è rimasto dentro di noi insieme alla bottarga e alle seadas. Del resto anche nella vita succede che di una persona ricordiamo solo poche parole e qualche modo di fare, ma non si arriva che a pochi minuti. Dunque, ci prendiamo una fettina di strudel. Ora”.

È arrivato il momento di chiudere questa lettera senza titolo, dunque la chiameremo semplicemente Lettera. Lorsignori perdoneranno se la Vostra Agenzia Viaggi Vi saluta così come si salutano le persone con cui si è trascorso un’estate serena insieme. Ciao.

odellac agosto 2017