Fotografie di Ovidio Della Croce, Susanna Vierucci e Laura Della Croce
Le foto del viaggio a Cuba di Ovidio, Susanna e Laura sono invitanti, trasportano di un luogo che non puoi fare a meno di desiderare di visitare. È attraente il labirintico intreccio di stradine attorniati da abitazioni fatiscenti ma, forse a causa dell’atmosfera che le circonda, dotate di un loro fascino, palazzi di epoca coloniale e costruzioni volute dal regime comunista che in qualche modo però sembrano esibire una loro continuità. La Catedral de la Virgen María de la Concepción Inmaculada può tranquillamente convivere con gli edifici, le statue, i simboli del regime comunista così come convivono auto e motociclette americane degli anni ’50, muli e cavalli. Si intravede anche l’Avana degli invadenti e, questi sì, stonati grattacieli edificati dagli americani prima della rivoluzione castrista. Cuba sembra immersa in un’atmosfera straniante, un effetto dovuto forse all’accentuato carattere esotico e all’influsso di un immaginario di sobrietà, diffusa allegria e pacata accettazione della vita che circola da decenni nel mondo occidentale capitalistico dominato dai valori dell’efficienza produttiva, del consumo, dell’opulenza.
Il fascino di Cuba ha radici lontane e si rivela anche nei suoi locali, dalla Bodeguita del Medio, uno dei locali più famosi de La Avana, tipico bar ristorante dove si servivano piatti tipici cubani e dove fu inventato il mojito, meta delle serate cubane di personaggi come Pablo Neruda e Salvador Allende, a El Floridita, altro bar ristorante, dove a servire sono camerieri con il papillon e dove era possibile incontrare Spencer Tracy, Gary Cooper e intellettuali come Graham Greene, Jean-Paul Sartre ed Ezra Pound, ma soprattutto, in entrambi, Hemingway, dichiarato frequentatore dei due locali così diversi tra loro.
Ad aver affascinato Hemingway, un personaggio che dalle foto scattate sembra aver affascinato a sua volta i miei amici viaggiatori (Galleria Ernest Hemingway a Cuba), è stata senza dubbio l’atmosfera che si respirava a Cuba. Hemingway soggiornò a lungo e in più riprese nell’sola e in particolare nella capitale. Vi ritornava ogni volta che aveva bisogno di rilassarsi e per praticare due delle sue attività preferite: la pesca al marlin, un grosso pesce che si trova nei mari e negli oceani tropicali e temperati caldi che gli ispirò Il vecchio e il mare, e la frequentazione dei bar cubani con i loro famosi cocktail, che lo portarono a scrivere la famosa frase riportata con la firma autografa dello scrittore in almeno uno dei due locali “My mojito in La Bodeguita, My daiquiri in El Floridita”.
I miei amici non si sono neppure lasciati sfuggire una visita alla camera di Hemingway all’Hotel Ambos Mundos, dove sicuramente dopo essere entrati nel salone liberty dell’albergo, sono saliti sull’ascensore d’epoca che ancora è presente nell’hotel per arrivare fino al quinto piano dove si trova la stanza 511, stanza in cui, forse, Hemingway iniziò a scrivere Per chi suona la campana.
Poi sembra, sempre guardando le loro foto, che i miei amici siano rimasti incantati anche da La Finca Vigia, una villa che si trova pochi chilometri a Sud de La Avana che era stata acquistata da Hemingway. È in questa villa che lo scrittore americano scrisse Il vecchio e il mare. Oggi, da quanto si vede nelle foto, la Finca Vigia deve essere diventata una sorta di museo circondato da maestosi alberi tropicali. Nella villa ci sono tutte le testimonianze delle sue passioni, in particolare quella per la pesca, e la sua barca, Pilar.
Ma io penso che gran parte del fascino di Cuba sia legato non tanto o non solo all’atmosfera che si viveva prima della rivoluzione, ma anche alla musica. Io ho conosciuto la musica cubana grazie al gruppetto di musicisti ottuagenari che sono comparsi nel film del 1997 del regista tedesco Wim Wenders Buena vista social club. Sono anch’io rimasto incantato dalle suadenti melodie del son, una miscela di suoni che può concretizzarsi in una canzone d’amore, in una ballata, in una danza coinvolgente ma con un sottofondo di velata tristezza, di malinconia. Sono flussi di suoni che legano la cultura ispanica a quella degli schiavi deportati dall’Africa per farli lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero, una musica che richiama però anche l’epoca del lusso sfrenato, dell’invasione dell’isola da parte di uomini d’affari americani con pochi scrupoli che hanno portato a Cuba i grattacieli, il gioco d’azzardo, l’alcol, le droghe in un clima festaiolo relegato ai loro luoghi di soggiorno, al ritmo di rumba, mambo, chachacha. Anche noi in Italia abbiamo usufruito, in modo più dimesso e provinciale, dell’attrazione esotica delle sonorità cubane, basti ricordare il chachacha di Xavier Cugat, famoso trombettista e direttore d’orchestra negli anni Cinquanta e Sessanta, sposato con la cantante Abbe Lane, oppure lo sfrenato mambo italiano di Sophia loren in Pane, amore e…
Non so se è effettivamente sia così, ma mi sembra di percepire una profonda differenza tra le musiche del Buena vista social club e le musiche cubane diffuse in America e in Europa negli anni Quaranta – Sessanta. Le musiche suonate dai talenti scovati e rilanciati da Ry Cooder, sono i rappresentati sconosciuti di una musica che ha le sue radici nella storia di un popolo: Ibrahim Ferrer, Ruben Gonzalez, Manuel “Puntillita” Licea, Omara Portuondo, Manuel Galban, Company Secundo sono i portatori di una tradizione musicale che il regime comunista di Castro ha tentato di cancellare nascondendoli, relegandoli nella povertà, senza riuscire né nel tentativo di offuscare la loro musica né in quello di ridar loro una nuova identità, di trasformarli in “uomini (e donne) nuovi”. I musicisti ottantenni e novantenni di Buena vista social club continuano non solo a suonare la loro musica ed aver, grazie ad essa, successo ma anche a ritenere di avere “la fortuna di essere cubani” nonostante la vita cui il loro paese li ha costretti, e penso che sia un esser cubani che va al di là dell’identità culturale che il regime ha tentato di imporre.
La loro musica è anche un’altra cosa però rispetto a quelle delle orchestre che giravano nei locali occidentali. È un po’ come se gli europei e gli americani si fossero appropriati di ritmi musicali cubani per fare una loro musica, la musica suonata nei locali di lusso, negli spettacoli televisivi dalle grandi orchestre, una musica associata al lusso, all’edonismo sfrenato ine a se stesso, non legato ad una tradizione culturale. Lo stesso è successo con il turismo. I cubani, per sopravvivere, hanno trasformato la loro isola in una sorta di teatro per i turisti mettendo scena se stessi, o meglio quella parte di se stessi che poteva diventare una sorta di spettacolo, e le compagnie di viaggio si sono appropriate di questo immaginario e ne hanno fatto una merce, un prodotto da usare e gettare dopo l’uso. Dietro gli alberghi rovinati dallo scorrere del tempo e dalle intemperie che sembrano pittoreschi resti di un passato glorioso, dietro lo scorrazzare delle auto dai colori vivaci e dalle forme rétro forse lasciate dagli americani fuggiti dopo la rivoluzione comunista ci sono i mendicanti, le prostitute, i bambini che rincorrono i turisti in cerca dell’elemosina, del regalo di qualcosa che per noi non ha neppure valore, un mondo che porta a far intravedere addirittura una qualche inadeguata e pericolosa nostalgia degli anni di Batista dove gli oggi ottuagenari musicisti potevano almeno esibirsi nel loro Club.
Non posso fare a meno di accostare le foto di questo viaggio alle notizie pervenuteci in questi mesi sulla situazione cubana. Domenica 11 luglio nell’isola “sono iniziate ampie proteste contro il governo” le prime in quasi trent’anni, le più consistenti dal 1959, quando Fidel Castro conquistò il potere introducendo nell’isola caraibica un regime comunista. I manifestanti avrebbero chiesto le dimissioni del governo perché mancano cibo e generi di prima necessità, i prezzi sembra siano saliti alle stelle e alcuni generi siano reperibili solo sul mercato nero; sembra inoltre che la pandemia sia stata gestita in modo pessimo. Secondo qualche economista l’inflazione potrebbe aumentata del 500% e le file davanti ai negozi e alle farmacie sembra durino ore. Secondo le notizie pervenute, purtroppo rapidamente dimenticate come accade per quasi tutti i fatti che perdono capacità attrattiva dopo qualche giorno, il governo ha reagito con violenza, ha mobilitato la polizia, ha arrestato decine di manifestanti, è stata bloccata la connessione Internet per alcune ore. Mi chiedo perché non posso fare a meno di accostare tutto ciò alle fotografie del viaggio a Cuba di Susanna, Ovidio e Laura? Perché in qualche modo le foto di quel viaggio da un lato mi sbattono davanti agli occhi la teatralità del turismo, in particolare del turismo che si indirizza verso paesi dove le condizioni di vita sono pessime. Una teatralità costruita sulla selezione, sull’isolamento di certe immagini, di certe scenografie, una teatralità che occulta un contenuto di realtà pesante da far digerire al turista che cerca svago, divertimento, sfogo a pseudo bisogni culturali artificialmente creati per poter essere soddisfatti dal semplice osservare la superficie delle cose e non la loro profondità. Certo dalle foto, a ben guardare, dietro le quinte si affacciano anche gli aspetti nascosti, lo stato fatiscente delle case, la povertà, le code di fronte alla farmacia, la solitudine sconsolata di alcuni soggetti, ma è solo lo sfondo dominato da una scena in cui il primo piano rimane l’esotico che rischia di tramutare la povertà in pittoresco, la teatralità forzata in spontaneità. Una scenografia ad uso e consumo dei turisti.
Ma non è solo questo. Cuba è anche un’ulteriore conferma del fallimento della grande utopia del socialismo rivoluzionario. Per tale motivo per chi ha creduto in una qualche versione di tale sogno l’immagine odierna di Cuba non può fermarsi a quella visibile a chi arriva come turista. Fa una certa impressione, e non posso frenare un certo fastidio, pur capendo forse il senso di tale affermazione, nel sentire commenti come quello di Bertinotti che sentenzia la necessità di un’altra rivoluzione per mettere le cose a posto, come se la situazione attuale non fosse la conseguenza proprio della rivoluzione. Cuba è l’ulteriore conferma che la rivoluzione non è il migliore strumento per cambiare il mondo.
La sinistra, non solo quella italiana, si trova a dover fare i conti con il fallimento di tutti i tentativi di trasformare la società in modo rivoluzionario. Il crollo dell’Unione Sovietica e dei paesi dell’est europeo, la trasformazione della Cina in un grande paese dove domina una nuova forma di capitalismo selvaggio e aggressivo che non tiene conto dei più elementari diritti umani determinano il fallimento dell’idea che una classe sociale possa trasformarsi in una classe generale, interprete dei bisogni di tutti gli uomini di tutte le donne cancellando ogni forma di conflitto, ogni strumento di gestione mediazione del conflitto. Accanto al fallimento di tale idea, la sinistra deve fare i conti anche con la scomparsa delle classi sociali e della forma di vita in cui tali classi sono diventate soggetti primari, classi che, in competizione con la borghesia industriale, avevano fatto, all’interno di una società comunque incentrata sull’idea di una capacità di crescita materiale illimitata, del comunismo la loro prospettiva ideale. alla fine dello scenario della crescita illimitata si affianca il crollo del mito del progresso come molla sulla base del quale portare avanti lo sviluppo non solo produttivo ed economico ma anche umano e sociale, crollo che è accompagnato dall’insinuarsi del dubbio che forse la tecnica non sia lo strumento adatto a risolvere tutti i problemi, a cominciare da quelli della salute del pianeta, al fallimento dell’idea, dopo il crollo dello stato e dell’esercito messi in piedi in un ventennio dopo l’invasione americana e occidentale in Afghanistan e il ritorno rapidissimo al potere dei Talebani, che la democrazia si possa esportare con le armi e magari anche senza cambiare le condizioni sociali ed economiche del popolo che la riceve.
Di fronte alla consapevolezza del fallimento dell’utopia comunista, del fatto che nessuna rivoluzione portata avanti in nome degli ideali del comunismo ha determinato il raggiungimento degli scopi per cui è morta una quantità enorme persone e si sono compiute atrocità, si potrebbe richiamare alla mente la frase di Brecht in Dialoghi di profughi: “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi’’ perché quando c’è bisogno di eroi vuol dire che sono venute meno le condizioni minime di convivenza civile. In tali casi l’eroismo è necessario e richiede spesso di andare oltre le normali facoltà di un qualsiasi essere umano, l’eroismo richiede la forza di mettere a rischio anche la propria vita, di decidere della vita altrui come è accaduto durante la Resistenza, come accade oggi alle donne e agli uomini che vivono in Afghanistan. In tali casi però il pericolo è che l’eroe diventi un soggetto che ha in mano un potere svincolato da controlli e limiti. L’eroe può diventare un oppressore. Le rivoluzioni e le guerre costituiscono un terreno fertile per il manifestarsi di tali patologie dell’eroismo.
Potremmo quindi pensare di esser tra quei fortunati che non hanno bisogno d’eroi perché viviamo in paesi ritenuti giustamente democratici e civili. Però l’intreccio o meglio il groviglio delle problematiche sopra esposte crea per coloro che si definiscono non tanto comunisti, ma semplicemente progressisti, democratici, eredi della tradizione del pensiero socialista o anche del socialismo liberale una situazione politica e culturale estremamente complessa per la quale bisogna riconoscere che talvolta purtroppo c’è bisogno di eroi, anche quando non vengono cancellate le condizioni minime della convivenza civile, solo che questi eroi di cui c’è bisogno sono semplicemente buoni cittadini come quel ragazzo quindicenne di Torre Maura, dove ad una comunità di Rom è stato impedito da una folla di residenti sobillati da militanti delle organizzazione neo fasciste di accedere ad un immobile, adibito a finalità di accoglienza, che ha difeso ed è riuscito a far rispettare i diritti dei più deboli semplicemente presentandosi di fronte ai propri vicini facinorosi che la sera prima avevano calpestato i panini destinati alla cena di quelle persone al grido “Zingari, dovete morire di fame”, sostenendo pacatamente ma con fermezza che ‘’nessuno deve rimanere indietro’’, un atteggiamento che si è rivelato più forte della rabbia, del risentimento, della paura. Un atteggiamento non diverso da quello delle madri di famiglia e delle maestre di Casal Bruciato che si sono organizzate con turni anche notturni per impedire ai teppisti di dar seguito alle loro minacce nei confronti di una famiglia di Rom a cui era stato assegnato legittimamente un appartamento popolare. O ancora tutti quei cittadini che pur impauriti dalla mancanza di conoscenze sugli effetti a lungo termine dei vaccini contro il covid si vaccinano perché sono consapevoli che questa è l’unica strada per tentare di uscire dalla pandemia e di convivere con gli altri senza rappresentare per loro un pericolo e, ancor più, scaricano ed esibiscono il Green pass senza sentirsi minacciati da una dittatura. E tutti quei cittadini che ordinatamente selezionano i rifiuti, li ripongono negli appositi contenitori senza lasciarsi andare alla tentazione di far prevalere una sorta di pigrizia e di gettarli nei cumuli che si creano selvaggiamente intorno ai cassonetti. E tutti coloro che cercano di controllare i consumi di energia delle loro case in estate e in inverno per contenere l’effetto serra. E ancora tutti quei cittadini che rinunciano ad “andare al mare” per esprimere il proprio voto ragionato, slegato dagli immediati interessi particolaristici, dalle chiuse visioni ideologiche. Sono infine eroi coloro che si impegnano nel volontariato, nella partecipazione politica o sociale disinteressata. Sono eroi di fronte a una cultura che spinge a pensare la libertà come il diritto di fare ciò che piace senza tener conto dei vincoli che ci legano gli uni agli altri e tutti al pianeta che ci consente di vivere la nostra vita, ad una cultura che ha fatto del consumo senza limiti il valore universale perché pensa che la molla più importante sia la crescita senza attenzione a cosa si produce e si consuma. Ancora eroi sono coloro che difendono le loro idee non come una proprietà privata ma come una risorsa da coltivare, ben sapendo che esse non sono una merce facilmente acquistabile al supermercato di internet dove a buon mercato si può trovare di tutto, ma un delicato ortaggio che per crescere ha bisogno di cure fatte di studio, impegno, sacrificio (due parole poco di moda), istruzione, documentazione, confronto, dialogo, se necessarie negoziazione e mediazione, argomentazioni ben costruite. Eroi sono quindi coloro che studiano, in un clima culturale che spinge in altre direzioni, con passione e impegno, che credono che la competenza, la cultura, la conoscenza siano valori molto più importanti, anche se non alternativi, del successo o della ricchezza, soprattutto quando successo e ricchezza sono raggiunti in assenza di cultura e di vincoli etici. Sono eroi coloro che pagano le tasse anche quando avrebbero l’occasione di evitare il rispetto di tale dovere. Sono eroismi solo apparentemente banali. Dietro tali forme di eroismo c’è un complesso equilibrio di elementi che vanno dalla situazione economica (forse non è insensato riconoscere la parentela che corre tra democrazia e benessere), alla consapevolezza del legame che ci lega agli altri e al pianeta che ci consente di vivere la nostra vita (e a sua volta non è insensato pensare quindi che il benessere svincolato dalla cultura sia un ostacolo all’eroismo necessario per la civile convivenza), all’attaccamento alle tradizioni, al passato in un’ottica però che non chiuda le porte al presente, al mutamento, alla contaminazione. È un equilibrio difficile da creare ma anche da mantenere, un equilibrio estremamente fragile che non può essere prodotto da fattori così dirompenti come le rivoluzioni o le guerre. È un equilibrio impopolare che non attrae il consenso facile ed è quindi ignorato dalla politica di partiti che stanno diventando macchine elettorali al servizio di falsi eroismi creati dal culto della persona o meglio del personaggio di turno, dai facili slogan, dalla capacità di attrarre coloro che si fanno guidare più dalla pancia che dalla testa e le moltitudini di opportunisti che cercano di coltivare i loro interessi personali. È un equilibrio che si gioca su un altro delicato equilibrio, quello tra senso del possibile e senso di realtà. Se prevale il senso di realtà corriamo il rischio di appiattirci sul presente, di scambiare il presente per l’unica realtà possibile, ma se prevale il senso del possibile corriamo il rischio di farci assorbire da utopie irrealizzabili e quindi poi di sbattere contro i musiliani “stipiti delle porte”.
Si potrebbe a questo punto obiettare “Ma cosa hanno a che fare le foto dei tuoi amici con tutto ciò?”. La mia risposta non può non partire dal fatto che un viaggio a Cuba non è un semplice viaggio, non è una crociera, un’escursione in montagna. È un viaggio, soprattutto per chi ha vissuto gran parte della sua vita nel secolo passato, in un epicentro delle contraddizioni del nostro tempo, in un luogo in cui non ci si può limitare a guardare la superficie delle cose ma si deve attivare il pensare, il tentare di capire, comprendere. L’aspetto edonistico non può occupare tutto lo spazio di esperienza che un viaggio del genere apre. Le immagini devono essere lette andando oltre il visibile, esplorandone i dettagli, i sensi impliciti, i risvolti nascosti, cercando di immaginare che cosa c’è dietro i bordi delle fotografie. Ed è questo che ho tentato di fare e che sono sicuro hanno fatto i miei amici, magari traendo conclusioni differenti, scattando queste foto durante il loro viaggio. Molto probabilmente di diverso parere rispetto al tipo di eroismo necessario oggi sarebbe stato anche Hemingway, fin da piccolo attratto per le emozioni forti, per l’eroismo nel senso tradizionale del termine, attratto dalla guerra tanto che, non potendosi arruolare durante la Prima Guerra Mondiale per un difetto fisico, divenne autista di ambulanze sul fronte italiano. Non si tirò indietro di fronte a esibizioni vitalistiche. Partecipò a safari per mettere alla prova la propria forza e il proprio coraggio. Andò in Spagna nel periodo della Guerra civile manifestando la sua ostilità verso Franco con l’adesione al Fronte Popolare. Durante la Seconda Guerra Mondiale volle giocare un ruolo attivi e fece sì che la “Pilar” fosse arruolata come nave-civetta per pattugliare le coste cubane contro i sommergibili tedeschi. Sbarcò in Normandia durante il D-Day e combatté in Francia costituendo una sua sezione del servizio segreto e una unità partigiana che dette il suo contributo alla liberazione di Parigi. Ma alla fine, pur apprezzando Fidel Castro e la rivoluzione cubana, pur guardando con occhio favorevole l’eroismo dei rivoluzionari, anche lui non si sentirà più sicuro a Cuba e andrà a terminare i suoi giorni in una villa a Ketchum, nell’Idaho, negli Stati Uniti. In una telefonata all’amico A.E. Hotchner sembra abbia detto prima della sua partenza per Ketchum : ” Alla Finca è tutto a posto….io fingo di essere felice come sempre. Ma lo sono?… La Cuba di Castro è tutta un’altra cosa. Non mi piace. Non mi piace per niente” (frase contenuta nella biografia scritta da A.E. Hotchner “Papa Hemingway. A Personal Memoir”).
massimocec ottobre 2021
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