Fotografare Vecchiano significa per un estraneo alla vita e alla storia di questo paese cercare quello che di questo luogo rimane intrappolato negli occhi grazie a ciò che il cervello ti segnala come interessante, a ciò che colpisce le emozioni in qualunque parte del nostro corpo risiedano. E i segnali del cervello, i suggerimenti delle emozioni non possono non partire da ciò che qualcuno ti ha raccontato, descritto, fatto notare, da somiglianze, analogie, ricordi, aspettative. È difficile che rimanga impresso qualcosa di un luogo solo grazie alla sola suggestione visiva. Occorre altro. Occorre un accompagnamento, una cura, che in qualche modo renda possibile l’incontro tra la realtà visiva, gli occhi e la mente, un’interconnessione che spinga a alzare l’obiettivo e a fare “clic”. Senza tale interconnessione c’è solo la ripetitiva azione del turista che fotografa tutto quello che il senso comune mass mediale inculca come “da non perdere”.
Vecchiano è una terra di confine, è tra Pisa e Lucca, tra il mare vietato della Tenuta di San Rossore e il mare affollato e balneare di Viareggio e della Versilia. È una zona agricola che confina con una zona costiera, ma soprattutto è confine tra fiume e mare, luogo dove il fiume si disperde nel mare. Come tutte le terre di confine ha un’identità debole, che non significa cedovole o precaria, ma molteplice, flessibile, complessa, elastica. In tale identità, tre elementi fisici, tre elementi del paesaggio sovrastano gli altri, tre elementi che percepisco come dominanti grazie alle memorie, ai racconti, alle presentazioni dei miei interlocutori che invece hanno vissuto la storia e hanno partecipato alla vita di questo paese: il padule con i suoi canali e le sue strade, una volta sterrate, diritte con sullo sfondo le colline, il Serchio con la sua foce e il mare con la pineta e con la sua spiaggia circondata dal profilo delle Alpi apuane.
La zona che più mi affascina di Vecchiano è proprio quella della foce, scoperta tanti anni fa quasi per caso in una splendida mattina di primavera. Il paesaggio lungo l’ultimo tratto del Serchio sembra che accompagni gradatamente verso il nuovo, verso la spiaggia e l’immensa distesa d’acqua che le sta di fronte. La spiaggia di Vecchiano è uno dei luoghi nei dintorni di Pisa che più amo. Riservata, piena di odori, circondata da piante che proteggono gli occhi, l’olfatto, l’udito dall’aggressione del turismo selvaggio. Anche la sporcizia depositata dal mare è più accettabile delle lunghe file di cabine, degli ombrelloni che coprono tutta la spiaggia, dei palazzi che incombono sul mare.
La foce poi è un piccolo luogo incantato, con quella stretta lingua di sabbia che si protende verso la costa quasi a impedire al Serchio di disperdersi nel mare senza limiti e senza confini. Quando arrivai per la prima volta lì la spiaggia era occupata da tante baracche di canne, baracche che i vecchianesi avevano costruito raccogliendo materiali qua e là lungo la spiaggia. Devo dire che visivamente quel paesaggio si presentava ai miei occhi con un vago sapore di esotico. Oggi ha prevalso, forse a ragione, lo spirito ambientale – conservativo e le capanne non ci sono più. Però quando dopo molti anni sono tornato a vedere la foce e ho scoperto l’assenza delle capanne devo dire che ci sono rimasto male. Qualcosa mancava, qualcosa che apparteneva soprattutto al mio ricordo originario, alla memoria che si trasforma gli oggetti e i luoghi in monumenti immaginari dell’identità.
Infine il padule, i retoni, i canali e soprattutto le distese di campi sul fondo dei quali si intravedono filari di alberi, giganteschi eucalipti isolati nel verde delle coltivazioni, casette che sprofondano nel terreno, edifici diroccati, viuzze strette, strade sterrate, ponti crollati. Descritto così sembra un paesaggio degradato, ma non lo è. È un paesaggio lasciato vivere, in qualche modo protetto dall’aggressione del cemento, dei capannoni, dell’asfalto. Capita di incontrare nel silenzio del padule, un barchino di pescatori che lentamente si sposta lungo i canali, a fianco delle baracche dei retoni e di sentire che quel silenzio, quella solitudine sono pieni di vita, più pieni di vita della fredda autostrada che taglia questo luogo, dove migliaia di auto passano in fretta perdendo l’occasione di fermarsi sul ponte per fotografare il lento spostamento del barchino con il suo carico di solitari e silenziosi pescatori.
massimocec 25 marzo 2012
Gran parte delle foto in bianco e nero sono tratte dal testo di Claudio Di Scalzo, Vecchiano, un pese, Feltrinelli. Altre foto sono state reperite su Internet, in particolare quelle del Serchio.
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