Può capitare che una sera, dopo una delle tante riunioni e dopo una bevuta a due, il tragitto verso casa sia deviato da un doppio giro in macchina sui lungarni. «Ti faccio sentire un paio di canzoni dell’ultimo cd di Fabio Concato…». La leggerezza del racconto di una domenica autunnale al mare, sole e uno spaghetto in una locanda solitaria. Le parole di una canzone che s’intrecciano con quelle delle tue canzoni quotidiane: confessioni che si dipanano lente. Fare tardi, anche se quella volta la riunione è finita presto.
Un candidato sindaco giovane sulla piazza di San Giuliano, ragazzo trentenne. Mi dicevano i compagni di partito strizzando l’occhio: «E bravo, saprà mettere tutti d’accordo perché è di sinistra». Senza appartenenze, senza preconcetti.
E poi una foto dietro la scrivania, una foto in bianco e nero non più così recente. Due profili che si guardano, non si parlano ma è come se s’intendessero (stringendo gli occhi e arricciando la fronte). Riccioli e cappello divertito, animazione e animatori delle storie dei ragazzi. Accipicchia: l’Arciragazzi di Borgo Stretto, con i funamboli della fantasia per decine e decine di bambini e bambine che si avviavano all’adolescenza, o forse giovani acerbi lo erano già. Gabriele che guarda Fabrizio e Fabrizio che guarda Gabriele.
Ho queste tre immagini di Gabriele Santoni: l’animatore dell’Arciragazzi, il Sindaco di San Giuliano Terme, l’amico di un pezzo della tua militanza politica. Sì, perché è molto più impegnativo essere amici che compagni. E l’amicizia non significa solo scoprirsi a un certo punto, ovvero incontrarsi.
Le amicizie sono anche le storie delle persone che si frequentano. Fin da piccoli. Visto sotto questa luce, questo gentile e intenso libro di Gabriele Santoni è un vero e proprio cantiere dell’amicizia.
Non occorre dichiararsi amici per esserlo davvero: accade, succede proprio mentre sei lì che cresci non rendendoti conto fino in fondo che certe relazioni stanno diventando particolari, importanti, decisive e ti segneranno per sempre. Anche quando interromperai quella quotidianità per riprenderla magari più in là nel tempo. Quando l’intensità resta presente, anche se sopita, solo allora comprendi l’importanza dell’amicizia che diventa certezza.
Con gli occhi incontaminati di bimbo e poi innamorati di ragazzo e da giovinastro insolente o ribelle impertinente. Solo, ma in compagnia. In comune con tanti altri (amici), che poi non hanno età: la descrizione che si fa corale e che mescola le proprie sensazioni con gli umori di un’intera comunità. Molina di Quosa, ovvero “un paese nel Paese” per parafrasare il poeta Pier Paolo Pasolini. Ma potrebbe anche essere un qualsiasi quartiere di periferia o un incontaminato villaggio sperduto…
Molina di Quosa è ovunque e in nessun luogo. Ci sono maestri e mestieri di vita e i “posti” crocevia di storie e racconti tramandati negli anni (e per questo ingigantiti nei dettagli, con aneddoti a corredo, fantasie e realtà). Un bar e il barbiere, il calzolaio e un cinema. La sezione del Partito e un circolo ricreativo. Dal meccanico e in macelleria. Panificio, elettronica.
Soprannomi, più che nomi. Impossibili, eppure etichette per destini incrociati, inesistenti e rampanti allo stesso tempo: Gary, Sega, Tonfo, Rampola, Sceiba, Pioviscolo, il Noni, il Fava, Mondomaiale, lo Sceriffo, Dondo, Buino, Caccole, il Popi, Lisciolino, il Vanni, Tornatone… e poi il Sonno (che era lento) e la Febbre (cagionevole di salute) perché «i paesi, si sa, certe cose te le ricordano tutta la vita».
Eventi, più che avvenimenti. Quella volta della baby sitter bona da conquistare. ..ola domenica estiva della gitarella fuori porta. L’arrampicata sull’albero a rubar ciliegie e poi la foto furtiva in un pomeriggio d’inverno. L’affetto per un quadro importante e austero. Gli scherzi al cinema o alla tv amatoriale creata apposta per il paese (una vera e propria street tv ante luterani). Fare l’amore come si può.
Un segreto: sembra un libro scritto con lo sguardo di uomo, come se il prevalente di quel paese fosse al maschile. In realtà la Botteghina, ovvero il bar di tutta una vita, per Gabriele è femmina… come una filastrocca. Già, le filastrocche… ce ne sono tante nel cassetto e chissà, magari, un giorno le leggeremo…
Dario Danti
Il millenovecentocinquantotto è l’anno in cui nasco. Il 3 di luglio. Mia madre era al cinema da Raggio con Romeo il mio babbo: ebbe le doglie, alle tre del giovedì mattina ero già molinese.
“Born in the MDQ”
Ho il rammarico di aver interrotto la visione di un film ai miei genitori, ma mia madre continua a dire che ne valeva la pena. E sincera, lo so. Allora era di moda andare al cinema da Raggio il mercoledì. Le partite di coppa dei campioni, quando si giocavano, le davano alla radio.
Nasco in una casa del Lazzeri in fondo Borgo, accanto a Opelio e la Piava. Un tempo, il Borgo era l’anima pulsante del paese: non cera porta che non avesse un’attività commerciale. E poi, laggiù in fondo, i giardini comunali, Le Covinelle, il “campo sportivo” di Molina, dove intere generazioni hanno giocato a pallone.
All’inizio del Borgo, la mitica Botteghina, la pergolina con gli ombrelloni della marca dei gelati e i tavolinetti tondi fuori destate. D’inverno tutti pigiati nella prima stanza, quella del banco, o di là, montati tre scalini, fra i giocatori di carte.
La Botteghina, con Bruno alla guida, ha aperto nel 1958: è il bar della mia vita, nato con me. Come una compagna di scuola, come lo sono state molte bimbe alle elementari. Va ricordato che il ’58 a Molina fu un anno di nascite femminili oltre misura e, con loro, la Botteghina, che per me era femmina; mentre il bar di Pasquale e, poi, di Caccole, nel mio immaginario di ragazzetto, era di sesso maschile. Maschi pervenuti nel ’58: io, Marrico del Fava, Aurelio dell’Allegrini. Punto. Bimbe tantissime e tutte belle proprio come la Botteghina.
Da Bruno venivano anche le donne, o almeno, se venivano a un bar, era di lì che passavano. Da Caccole nemmeno a parlarne. Solo uomini duri. E com’era bella la Botteghina di allora…
Le sedie in fila come al cinema, per vedere la tv, in una sala allora adibita solo a quello. La maggior parte della gente non aveva tv in casa e la sera usciva per vedere le trasmissioni. “Lascia o raddoppia”, indimenticabile, o “Studio Uno” e “Canzonissima”.
Il banco dei caffè sulla destra, all’entrata nello spazio allora più stretto, perché la stanza dove ora ci sono i gelati era occupata dal negozietto di stoffe della Fernanda di Dolfetto. A Natale tombole a iosa, si giocava di “roba” e, destate, tutti fuori fino a tardi e secchiate. Da Bruno l’acqua mai, era porto franco e tutti, a parte qualche scapestrato distintosi nel tempo e mai difeso, eravamo d’accordo.
Poi, anni Sessanta inoltrati, il biliardo al posto delle seggiole e la tv nella stanza dietro. Intanto la stanza della Fernanda diventa un altro pezzo di bar e nasce la stanza a vetri, sotto il terrazzo di Dolfo e Dino, con il famoso finestrone aperto (da cui si poteva vedere giocare a biliardo dall’alto, come in un palchetto a teatro). Il Fava dominava la bazzica sul panno verde e Bosco faceva il biscazziere ufficiale e comandava la pariglia, finché un giorno fu richiamato all’ordine per la sua troppa esuberanza e sparì fra le invettive. Mario Roventini, detto Bosco, livoroso e irascibile, una volta dette un colpo sui birilli, quasi a sparecchiare il castello dopo un alterco con un giocatore che non riconosceva la sua decisione. Ripresosi dalla rabbia, non si trovava più il birillo rosso del 5. L’aveva piantato nel palmo della mano e, badate bene, i birilli hanno la testa stondata. L’uomo lo tolse fra i moccoli, lo sciacquò, e lo rimise nel mezzo. Tempi eroici, da età dell’oro.
E poi il secondo tempo delle partite di calcio la domenica alle sette la sera e quelle della nazionale, viste rigorosamente tutti insieme. E i mondiali, mitica la notte di Italia-Germania 4 a 3 nel 1970: un paese a gridare nella notte. E la televisione che per l’occasione era stata portata fuori, sotto la tettoina del flipper.
E i bravissimi giocatori di briscola e scopa, altro che canasta (Bruno vietava l’azzardo spinto: al massimo un ramino o una scala; il poker si giocava al chiuso, dal grande Cacchione in magazzino). Tutti sapevano contare il quarantotto e, alla fine, si poteva giocare con le carte scoperte. E la classe stava qui: essere bravissimi fra bravi.
Poi la Paola, figlia di Bruno, insediatasi nel bar fin da ragazzina, che apriva alle sei rigorosamente. E Bruno che chiudeva alle due di notte. Sempre! estate e inverno, una precisione… nemmeno sul lago di Ginevra. E Ubaldo di Pugnano che, negli ultimi anni, accompagnava Bruno a casa dopo la chiusura centinaia di volte.
Un bar vero. Col gelato sfuso di un tempo: il cono da 30 lire negli anni Sessanta; i pinguini e la gazzosa nella bottiglia trasparente zigrinata che si beveva con la birra. E i bicchierotti del vino di Pontassieve che era lo stesso di Ciapino (ottimo) e i boeri a strappo e le carte Modiano e Cambissa. E poi Rosso Antico, Stock, Vecchia Romagna, Liquore Strega, birre Peroni e corretti al rum del Gabbriellini. E la Maria buona e gentile al banco nei momenti di punta e Bruno il capo a mantenere l’ordine, rigido con chiunque. Non cerano favoritismi per nessuno, mica sera a Forte dei Marmi dove ai “signori” tutto era ed è consentito, anche il dileggio. Molina metteva tutti “nel pari”.
E poi Gary (in onore di Gary Cooper di Mezzogiorno di Fuoco, perché gli somigliava), il babbo di Bruno, a vedere giocare a carte “dietro”.
E noi giovani perditempo “lì, sempre lì, lì nel mezzo” fino a notte fonda. Si andava e si tornava alla base. Il bar come casa nostra. Con i conti aperti e i pagamenti a rate. Perché da Bruno tutti hanno bevuto sempre, anche gli squattrinati. Bastava pagare, prima o poi.
Nel 1988 il bar è stato venduto a Luca e Cadetto (bravi e cari) e, nello stesso anno, io sono andato via da Molina e mi sono sposato… un caso certamente, ma comunque la fine di un’epoca. La mia sicuramente. Il mio tempo a Molina è quello della Botteghina di Bruno.
Ora, dopo quasi venticinque anni, è grande amore e memoria da tramandare. Ancora oggi, quando vengo dalla Piera e vedo Bruno sulla piazza, lo saluto col rispetto di un tempo. Non si reggono trent’anni in un luogo così difficile, bazzicato da tutto e da tutti, uscendone con grande rispetto. A Bruno è successo. Grande, come La Botteghina.
Gabriele Santoni
massimocec dicembre 2018
Leave a reply