Mi piace andare in giro nelle campagne intorno a Pisa e fotografare ciò che da sempre vedo forse senza guardare. Non sono attratto dai viaggi esotici. Non sento il bisogno di andare in Africa, in India o in chissà quali altri posti. Forse è passato il tempo in cui queste avventure esercitavano il loro fascino su di me. Quando scatto le mie foto ai posti noti il fotografo a cui penso è Luigi Ghirri; mi incuriosisce il suo tentativo di ricostruire una grammatica del paesaggio alternativa a quella tradizionale. Ghirri sembra voler usare la fotografia come strumento di indagine per scoprire il paesaggio nei suoi elementi primari, liberati dalla retorica, dagli stereotipi, dalle cristallizzazioni prodotte da una storia centenaria dello sguardo rivolto sul nostro paese. Sono fotografie che colgono il reale nella sua semplicità essenziale, fotografie potremmo dire ridotte al minimo dal punto di vista della ricchezza dei contenuti intesa in modo tradizionale e basata sui monumenti celebri, le spiagge pittoresche, i verdi boschi, le alte montagne, le opere d’arte. Fotografie frontali quasi statiche. Quello che viene fuori è un’altra possibilità di guardare il paesaggio, puntando l’attenzione sui luoghi che generalmente sono cancellati dalla memoria visiva, sono occultati allo sguardo dall’abitudine e dall’ordinarietà. Tali luoghi sono i bar, i distributori, i cancelli avvolti dalla nebbia, i campi, le chiese isolate in mezzo alla campagna, gli edifici immersi nella notte o nella neve, le spiagge deserte nelle quali sono stati abbandonati oggetti che ricordano soltanto senza alcuna nostalgia la folla, i giochi, il rumore dell’estate, incroci di solitarie strade di campagna, gli interni di case, laboratori, palazzi, chiese. E un immagine alternativa e quindi aperta al senso del possibile rispetto ai tramonti, alle albe, ai monumenti, ai paesaggi pittoreschi e stereotipati dell’immagine mitizzata dell’Italia impacchettata per i turisti.
Sono fotografie scattate con l’intento di far corrispondere l’immagine allo sguardo usuale, utilizzando obiettivi normali o medio tele, evitando punti di ripresa arditi e l’uso di colori carichi. Inoltre sono scatti guidati da alcuni principi che condivido. Primo fra tutti che non ci sia più nessun grande viaggio che sia più emozionante d’una passeggiata per vedere i colori del mondo e tale passeggiata può portare dovunque, anche nei luoghi dove si passa quotidianamente per andare al lavoro, per tornare a casa. Il secondo principio è che la fotografia deve cercare di aderire al modo in cui le cose prevedono d’essere guardate, poiché tutte le cose richiedono d’essere guardate in un certo modo, con gli occhi degli abitanti d’un luogo non appannati dall’abitudinarietà ma ben aperti, curiosi di capire dove si trovano in ogni istante perché il mondo osservato non è ami lo stesso e non appartiene al punto di vista di un individuo isolato che passa di lì per caso ma è comune alle rappresentazioni elaborate all’interno di una forma di vita.
Ghirri poi usa nel suo lavoro fotografico altri principi che sono altrettanto interessanti dei due sopra esposti. Prima di tutto che non esiste un canone visivo unico di lettura della realtà: il mondo lo vediamo secondo molti punti di vista compresi quelli che riguardano la nostra memoria, il nostro pensiero, la nostra sensibilità, la nostra cultura visiva fatta di immagini vere e proprie già viste, ma anche di immagini letterarie, musicali, pittoriche. Poiché in fotografia non esistono soggetti belli o brutti e quindi un canone selettivo di tipo estetico, esistono soggetti più o meno interessanti rispetto ad un mondo che si presenta come un groviglio di geroglifici da decifrare, cui cercare di dare un senso. Ancora non è necessario cercare le condizioni “ideali” per fotografare, tutte le possibilità espressive vanno esplorate e l’utilizzazione solo di alcune di queste condizioni in nome di una presunta grammatica della fotografia significa limitare le possibilità di utilizzare la macchina fotografica e lo sguardo che attraverso di essa si dirige sulle cose per comprendere la complessità del reale. Infine il principio che il lavoro del fotografo è un po’ come il lavoro dello storico, del medico o dell’investigatore, un lavoro teso a costruire un sapere indiziario, un saper finalizzato alla costruzione di senso tramite l’uso di tracce che vengono disseminate nella realtà.
L’insieme di questi principi fa sì che le fotografie di Ghirri siano immagini alternative a quelle ispirate al mito bressoniano dell’istante decisivo, del racconto condensato in un unico scatto, sono fotografie prodotte dalla riflessione e dal dialogo con le cose, sono fotografie della lentezza dello sguardo, della ricerca di relazioni dei legami tra le immagini e le cose tramite un soggetto che fotografa e un soggetto che guarda le fotografie. Non sono scatti rubati ma scatti pattuiti, contrattati, con le cose, con gli oggetti.
È un modo di fotografare in cui mi ritrovo. Certo qualche volta lo scatto prende la mano e allora la retorica del bel paesaggio ricompare, ma in ogni caso scatto per il mio piacere e quindi non mi importa se qualche incoerenza salta fuori.
massimocec maggio 2013
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