GALLERIA SAN MICHELE GALLERIA VECCHIA SAN MICHELE
Mi è capitato tra le mani un libro che avevo acquistato anni fa e che avevo lasciato da una parte in attesa di leggerlo. Il libro è La fabbrica della ceramica. La Richard-Ginori in San Michele degli Scalzi a Pisa (Ets Pisa 2005) scritto da un ex operaio della Richard Ginori, Paolo Di Sacco. Viene raccontata la storia della fabbrica pisana di ceramica che costituiva uno degli aspetti identitari del quartiere di San Michele degli Scalzi in Pisa, il quartiere dove ho vissuto per più di cinquanta anni, dalla preadolescenza all’inizio della vecchiaia. È un libro con molte foto (peccato che alcune siano quasi francobolli) che mi riportano indietro nel tempo, rievocano immagini non dimenticate ma comunque riposte nei cassetti della memoria.
Sfogliare il libro è un po’ come sfogliare un vecchio album di foto di famiglia: i ricordi affollano la mente. Ed è inevitabile anche il confronto con il presente, un confronto che per fortuna non mi spinge verso i lidi della nostalgia, ma che comunque agita le mie emozioni. La nostalgia è un terreno pericoloso ad una certa età, esalta in modo acritico e ipertrofico il passato con il rischio di cancellare il presente e quel poco che rimane per noi di questa età del futuro. La nostalgia è spesso la conseguenza fisiologica del fluire del tempo, con la sua drammatica direzione univoca che inevitabilmente riduce lo spazio del futuro e allarga quello del passato. Ma la nostalgia aggiunge alla fisiologia la sensazione di vivere in un presente caratterizzato da un’immagine negativa non emendabile che stravolge il contenuto della memoria, lo adatta alle esigenze della nostalgia, lo addolcisce fino a renderlo falso. È invece importante cercare di mantenere lucida la memoria per comprendere la relazione tra passato e presente, per non intaccare la possibilità di cambiare il presente se non ci piace, e la fotografia può essere un aiuto.
La prima cosa che mi viene in mente è che San Michele negli anni Sessanta era una piccola città nella città. C’era tutto quello che era necessario per la vita quotidiana, negozi (cartolerie, macellerie, alimentari, frutta e verdura, abbigliamento, casalinghi, tabacchi, pasticcerie, bar), scuola elementare, scuola materna, cinema, oratorio, spazi per i giochi, per passeggiare, per discutere, per incontrarsi. Non era necessario per un ragazzino uscire dal quartiere se non per momenti particolari (frequenza della scuola media o superiore, visite mediche specialistiche, attività sportive organizzate). E in effetti era così per me: l’oratorio Lanteri e il viale delle Piagge erano i luoghi in cui trascorrevo gran parte del mio tempo non occupato dalla scuola. Erano molti anche gli aspetti negativi, il rischio di una chiusura campanilistica, la difficoltà di entrare in contatto con l’altro in un’ottica di reciproca conoscenza, la difficoltà di incontrare ciò che chiamiamo impropriamente cultura e che si può materializzare in libri, mostre, musica e così via.
La mia idea di San Michele era un po’ più ampia di quella istituzionale. Per me San Michele iniziava da via del Borghetto, dove c’era il circolo Rinascita e tutta una serie di negozi frequentati da mia madre e da mio padre che avevano un piccolo orto, dall’agraria al misterioso e affascinante negozio degli Svizzeri dove si poteva trovare di tutto. In fondo a via del Borghetto c’era poi l’austero edificio della facoltà di agraria; l’enorme area occupata da tale facoltà era però una sorta di corpo estraneo al quartiere, un’area circondata da un alto muro che impediva di vedere cosa ci fosse in qui grandi spazi nascosti alla visuale degli abitanti di San Michele, segno tangibile di una estraneità reciproca. Era San Michele anche l’area dell’ex Politeama, un cinema teatro distrutto durante i bombardamenti dell’ultima guerra, per molto tempo occupata da macerie e destinata nel periodo natalizio ad ospitare il circo di turno o i Luna Park. La presenza del circo, critiche degli animalisti a parte, era una delle occasioni da me più attese, soprattutto per la presenza proprio degli animali che erano la mia passione. Spesso mi facevo accompagnare a Livorno per visitare lo zoo, raccoglievo figurine, leggevo pagine e pagine di enciclopedie. Dopo questa passione è sparita ed è stata sostituita da quella per i romanzi d’avventura e per la storia. Ora in quell’area c’è il Palazzo dei Congressi e i pochi circhi rimasti sono relegati in aree estremamente periferiche.
Dall’area dell’ex Politeama nella mia prospettiva San Michele si apriva in due direzioni. Una verso via Matteotti, via Metteucci, due strade l’una prosecuzione dell’altra che visivamente, dal punto di vista legato all’Arno e dal ponte della Vittoria, apparivano come se fossero a fondo cieco, in realtà sfociavano su una strada secondaria, via Ippolito Rosellini, che congiungeva via San Michele con via Cisanello. Oggi queste due strade, demolite le case che chiudevano il loro sbocco su via Cisanello, costituiscono il primo tratto di una grande arteria che congiunge il centro della città con l’ospedale di Cisanello e che taglia il quartiere come una lama affilata, un taglio che ha stravolto tutto l’assetto di quella zona, cancellando la presenza di vecchie abitazioni, mettendo in secondo piano una bella villa padronale che si affacciava su via Cisanello davanti al cimitero, trasformando una zona agraria in una zona residenziale e commerciale. La zona di via Ippolito Rosellini era una zona strana, ambigua. C’erano strani vecchi edifici, forse pericolanti. Credo fossero ex conventi. Uno molto grande di forma quadrata al quale si accedeva da un arco che dava su un cortile che doveva essere stato un chiostro trasformato in davanzale di tanti angusti appartamenti abitati da famiglie indigenti; da un lato c’erano scale che davano su lunghi e ampi corridoi dove si aprivano le porte di appartamenti ricavati forse da dormitori e celle, talvolta sulla soglia si vedeva qualche bambino sporco, mezzo nudo, situazioni che richiamavano alla mia memoria altri luoghi di Pisa, in particolare una zona intorno al carcere Don Bosco occupata da piccole case immerse nei prati e d’inverno nel fango; veniva chiamata, non so perché, il villaggio veneto. Di quel luogo ricordo però anche una ragazzina che viveva in quelle case, mia compagna di banco in prima elementare, bellissima; insieme tornavamo a casa tutti i giorni e aspettavo questo breve momento perché potevo stare con lei che a differenza di me era molto vivace e chiacchierona e mi piaceva ascoltarla. Il villaggio fu demolito e gli abitanti di quelle povere case furono trasferiti nelle case popolari; io persi la mia compagna. Quello che mi è rimasto impresso per molto tempo come immagine di quell’edificio di via Rosellini è il senso di decadenza e sporcizia che subito si mostrava a chiunque entrasse nel cortile, accompagnato da odore di muffa e altri odori poco piacevoli. A fianco dell’edificio principale c’era un altro edificio a forma di parallelepipedo congiunto perpendicolarmente all’edificio principale, occupato, se ricordo bene, da una carrozzeria. Doveva essere la chiesa del convento. L’altro era un edificio abbandonato (poi è stato ristrutturato e per anni ha ospitato una scuola), anch’esso con chiostro, e un grande cortile circondato da un imponente muro. Sembrava di entrare in una zona misteriosa e ambigua, completamente diversa dalla zona di via San Michele.
Una seconda direzione nella mia prospettiva andava verso il viale delle Piagge che allora aveva nel suo tratto iniziale una baracchina che vendeva gelati e offriva una sorta di servizio – gioco per i bambini costituito da un piccolo calesse con relativo pony che permetteva di fare una breve escursione sotto gli alberi del viale. Ora al posto della baracchina c’è un noto bar, il bar Salvini, in alcune annate diventato anche un luogo affollatissimo di ritrovo per una sorta di pionieristica movida.
San Michele poi si protendeva, sempre per me, fino a Cisanello e a San Biagio perché quelli erano i luoghi delle mie scorribande in bicicletta, fino al vecchio ospedale circondato da un alto muro e avvolto dal mistero di che cosa fosse il sanatorio per i malati di tubercolosi di cui sentivo parlare in famiglia, un sanatorio che era ospitato fino alla fine della seconda guerra dietro quel muro, e alla chiesetta di San Biagio, una piccola chiesa a capanna con un minuscolo campanile a vela, in mattoni con decorazioni che poi ho scoperto essere preziosi bacini ceramici islamici, così diversa dalle altre chiese pisane, distaccate quasi pompose, con le loro strutture in pietra e marmo. Erano i luoghi in cui lanciavo la mia bicicletta lungo strade affiancate da fossi profondi, tra campi, boschetti, pioppeti, case isolate di contadini. Anche nella zona di Cisanello c’erano luoghi degradati come quello di via Rosellini. C’erano le casette di via Maccatella, piccole case ad un piano, forse residuo che si aprivano sulla strada, c’erano i palazzi delle case popolari costruiti, si diceva, da Mussolini nel luogo dove era caduto l’aereo del figlio Bruno, c’era il grande palazzo di case popolari sperso in mezzo ai campi in via Puglia. Mi sembrava di vedere, mettendo a confronto queste zone con via San Michele ma anche con le case dei contadini di Cisanello due forme, e forse anche due livelli di povertà, uno vissuto dignitosamente e l’altro preda dell’abbandono e del degrado non solo morale e culturale ma anche fisico e materiale.
Allontanarsi da San Michele non era facile perché i miei non avevano la patente e io fino a quindici anni ho utilizzato soltanto la bicicletta. C’era il filobus che arrivava fino alla piazza della ceramica, dove percorreva una sorta di rotatoria per tornare in città. Cercavo sempre di andare davanti vicino all’autista, allora non c’erano in vigore le stringenti norme sulla sicurezza che oggi impedirebbero di effettuare quegli interessanti viaggi a fianco dell’autista, per studiarlo, per capire come reagiva nelle diverse situazioni, per vedere tutto da un altro punto di vista. Anche gli inconvenienti, i piccoli disguidi diventavano cose interessanti, come quando si staccavano le aste che congiungevano il filobus alla rete elettrica e il fattorino o l’autista dovevano scendere a reinserirle nella guida.
San Michele era un quartiere vivo e movimentato. La mattinata iniziava con la sirena della ceramica e il via vai di operai che andavano al lavoro, continuava con l’ingresso dei bambini a scuola, cui seguiva una fase di quiete, poi l’uscita degli studenti e infine, verso sera, l’uscita degli operai. C’era insomma una sorta di ritmo quotidiano che ne segnalava la vitalità.
C’era il cinema dove la domenica pomeriggio andavamo a vedere film d’avventura, western. Era ed è un piccolo cinema di periferia gestito dai preti del Lanteri ma elemento importante nella vita del quartiere.
C’era poi l’oratorio, legato alla chiesa di San Iacopo e Filippo che per molto tempo, fino a quando non è stata restaurata la chiesa di San Michele è rimasta l’unica chiesa parrocchiale del quartiere, una chiesa che attraeva la maggior parte dei ragazzi e delle ragazze di San Michele. Si poteva giocare a calcio e a pallacanestro, c’era il biliardino. Spesso venivano organizzate feste, per Carnevale, per Natale, gite e tornei estivi di calcio cui partecipavano tutti coloro che per doti o per età si ritenevano in grado di giocare ad un livello accettabile, tornei cui talvolta partecipavano grandi nomi del calcio come Armando Picchi o giocatori del Pisa che militava in serie B con una fugace presenza in serie A, tornei comunque seguiti da un pubblico appassionato. Certo dovevamo frequentare gli incontri del catechismo, ma non erano pesanti rispetto alla possibilità di passare interi pomeriggi nel campo di calcio o in quello di basket senza altri vincoli se non quello del tempo che trascorreva e che portava la sera e quindi l’obbligo di tornare a casa. Tra quei ragazzi ce ne era uno destinato a diventare un grande campione, Marco Tardelli. Naturalmente nessuno di noi immaginava tale futuro per quel ragazzino gracile, irrequieto, talvolta dispettoso. Lo chiamavamo “Marchino”. Nella foto della galleria scattata all’interno dell’oratorio Lanteri durante una festa di carnevale è quel ragazzino preso di spalle con un giubbotto marrone chiaro di fronte al carro di carnevale che sta per essere bruciato.
Un altro elemento identitario del quartiere è il viale delle Piagge, un parco urbano affacciato sul fiume, suddiviso in due tronconi: una sorta di giardino occupa la parte iniziale più vicina alla città, un’area quasi selvaggia coperta da pini e da prato è nella parte dalla chiesa di San Michele al termine del viale, il Tondo, una sorta di anello terminale per la strada carrabile. La continuità è costituita dai due vialetti alberati che scorrono lungo la strada carrabile dall’inizio del viale fino al suo punto estremo. Oggi tutto il viale è occupato quasi interamente da sportivi con tute variopinte, cuffie, occhiali e strani aggeggi ai polsi o al braccio o, nella parte oltre la chiesa di San Michele, da tribù di proprietari di cani intensamente coinvolti nei racconti delle avventure e delle disavventure dei loro amati animali. Allora era lo spazio per partite a calcio non autorizzate, passeggiate di mamme con carrozzine e figli da sorvegliare. A metà del viale, dove nel ‘49 l’Arno aveva rotto l’argine, c’è una sorta di muretto dove, nelle belle giornate primaverili ed estive, si danno appuntamento alcuni abitanti storici di San Michele. Alcuni di loro sono ex operai della Richard Ginori, una specie oramai quasi estinta e sostituita da anonimi occupanti di appartamenti che hanno trasformato il quartiere in una sorta di area dormitorio. Negli anni Sessanta gran parte degli abitanti di San Michele erano operai della Richard Ginori con le loro famiglie che vivevano in abitazioni che si affacciavano direttamente sui marciapiedi della strada con dietro campi e orti, in gran parte utilizzati come integrazione del sostentamento familiare ma anche legame con l’origine contadina di moltissime di quelle famiglie. Via San Michele era quindi una strada con due volti, quello che si affacciava sulla strada di aspetto quasi urbano e quello che si affacciava sul retro, che sembrava aprirsi sulla campagna. Già dal periodo in cui io sono venuto ad abitare nel quartiere il volto campagnolo della strada stava sparendo, almeno per le case poste tra via San Michele e il viale delle Piagge. Dietro al mio orto erano stati costruiti anonimi edifici a più piani e altri stavano sorgendo negli spazi incolti non ancora occupati. L’immagine che si poteva cogliere affacciandosi alla finestrella della mia camera era un’immagine poco edificante, frutto di un’espansione urbanistica incontrollata e poco rispettosa del luogo in cui si stava inserendo con forza.
Un altro elemento che rendeva animato il quartiere erano i bar che nel pomeriggio si riempivano di giocatori di carte, esclusivamente uomini, in locali invasi dal fumo. Sotto casa mia c’era uno di questi bar, il bar Mauro, che nelle serate d’estate rimaneva aperto fino a tarda notte con avventori maschili che passavano serate intere seduti su sedie sul marciapiede a discutere di politica, di sport, di tutto ciò che poteva essere oggetto di discussioni senza impegno ma con apparente coinvolgimento emotivo visto il tono delle voci. Molte donne durante l’estate si incontravano invece sulle porte di casa, dopo aver messo sul marciapiede le loro sedie. Il loro tono di voce era più contenuto e non so di che cosa parlassero. Altri bar erano sul viale delle Piagge, tutti con le stesse caratteristiche, anche se lentamente il bar Salvini iniziò a differenziarsi per strutture (apertura di salette riservate a diverse clientele) e per tipologia di avventori, meno locali e più esigenti.
Le case e i vecchi abitanti del quartiere con le loro storie sono i portatori di una memoria che è alla base dell’identità di San Michele. Spesso ho sentito raccontare la vicenda dell’alluvione del ‘49, quando le acque dell’Arno hanno invaso le case, i negozi, quello che rimaneva della vecchia Chiesa di San Michele già duramente provata dalla guerra e la fabbrica di ceramica. Erano storie che mi sono rimaste impresse perché in parte riguardavano la mia infanzia e perché nel ’66 tutto il quartiere ha rivissuto un’esperienza simile. L’Arno con le sue piene mi ha sempre accompagnato e ha accompagnato mio padre. Quando ero piccolo abitavamo in una casa sotto l’argine in una frazione del comune di San Giuliano, Mezzana, una casa addirittura più bassa del livello normale delle acque, almeno così sembrava a me. Nei racconti di mia madre erano spesso presenti quelli che riferivano di nottate passate a controllare sull’argine il livello delle acque. Così è stato anche nel ‘66 in San Michele. Mi ricordo che già fin dal mattino del 4 novembre tutto il quartiere era in allarme. Frequenti erano le visite lungo l’Arno per controllare il livello delle acque mentre si cercava di capire cosa stava accadendo a Firenze e lungo il corso dell’Arno. I miei genitori avevano cercato di smontare e portare al primo piano tutto quello che era possibile. Poi avevano rialzato i mobili rimasti vuoti poggiandoli su delle sedie. Verso sera chi era sul viale avvisò che l’Arno stava tracimando. Tutti si rinchiusero nelle case affacciati alle finestre del primo piano. E lì affacciato alla finestra rivivevo tutti i racconti dell’alluvione del ‘49, le case allagate, le persone salvate dalle finestre con le barche. Dalla finestra si vedeva l’acqua marrone salire di livello, invadere la parte più bassa della strada ed entrare nelle case dalle porte collocate a livello del piano stradale. È stato in quel momento in cui mi sono accorto che la zona dove abitavamo noi era la zona più alta di tutta San Michele, quasi un dosso. L’acqua stava salendo ma non arrivava alla porta mentre si vedevano le case vicine con l’acqua che già aveva superato l’improvvisata cateratta posta a protezione della porta di casa. All’improvviso il livello dell’acqua cessò di salire e poi piano piano iniziò a decrescere. Corale fu il sospiro di sollievo che si levò dalle finestre. Appena fu possibile uscimmo per andare a vedere cosa era successo nelle altre zone. Qualche notizia arrivò anche su quello che era successo nel centro di Pisa, nella zona a nord dell’Arno.
Altra vicenda vissuta nel quartiere è proprio quella raccontata nel libro di Di Sacco, la chiusura dello stabilimento della Richard Ginori e la conseguente trasformazione di uno degli aspetti identitari di San Michele. A metà degli anni ‘70 la direzione della Richard Ginori decise di chiudere, insieme ad altri stabilimenti, anche quello pisano. La produzione della ceramica era una delle attività, forse l’unica attività produttiva del quartiere San Michele, se si eccettua il laboratorio farmaceutico Baldacci che però in qualche modo non si è mai integrato con il resto del quartiere; era un’attività di rilievo nazionale. La Richard Ginori non era l’unica fabbrica di ceramica presente in San Michele. Ce ne erano altre almeno fino agli anni Sessanta; c’è stata la fabbrica Corradini, della quale oggi rimangono solo i due leoni realizzati dal proprietario sul cancello di ingresso da cui si intravedono al posto degli edifici della ex manifattura, strani e avveniristici edifici di forma vagamente parallelepidale. Degli anni della chiusura ricordo le manifestazioni che hanno coinvolto tutto il quartiere, le assemblee al dopolavoro, i cortei, i volantinaggi, le preoccupazioni di gran parte di coloro che vivevano nel quartiere perché dipendenti o familiari di dipendenti, preoccupazioni espresse durante incontri occasionali, nei negozi, nei bar, all’oratorio. Gli operai arrivarono ad occupare per alcuni giorni anche la Torre di Pisa, ma tutto fu inutile, la fabbrica chiuse, fu demolita e al suo posto furono edificati orrendi palazzi nei quali, in conseguenza delle imprevedibili vie del destino, anche io e i miei genitori siamo andati ad abitare. Per loro è stato un vantaggio, la casa in cui abitavamo era umida, non aveva il riscaldamento, era su due piani. Ma i vantaggi hanno un costo, e non da poco. La mia casa era diversa da tutte le altre come lo erano tutte le case di via San Michele, c’era l’orto, c’era il giardino. Soprattutto c’erano i vicini con cui avevamo condiviso anni di vita e storie. Nella nuova casa tutti gli appartamento erano uguali e i vicini sconosciuti con cui si possono scambiare solo poche parole ogni tanto.
La Richard Ginori lasciò in eredità al quartiere il dopolavoro, un luogo di aggregazione soprattutto nel periodo estivo. C’erano un bar, tavolini sotto altissime e fresche piante, biliardini, ping pong, un campetto da calcio, una pista da ballo. Rimase aperto per molto tempo con un nome legato all’aspetto che prendeva nel periodo estivo, le Lucine. Poi è stato chiuso e l’edificio è stato occupato dai ragazzi dei centri sociali che sono presto entrati in contrasto con gli abitanti del quartiere, un contrasto mai risolto che ha portato l’amministrazione comunale a murare porte e finestre. Il dopolavoro è stato demolito e al suo posto è sorta la biblioteca comunale.
Oggi l’immagine del quartiere è profondamente mutata. Gran parte dei negozi sono chiusi. Dietro i cancelli si scorgono strani edifici, le strade durante il giorno sono quasi deserte. Non ci sono più le sedie fuori dai bar o fuori dalle case la sera d’estate. Nell’oratorio non si organizzano più i tornei estivi. Il parco per le attività sportive, la biblioteca, il centro culturale, il palazzo dei congressi sembrano entità estranee al quartiere, imposte agli agglomerati di vecchie case che si sviluppano lungo la vecchia via San Michele. In particolare l’insediamento di enormi edifici dove una volta c’era la fabbrica di ceramica sembra una cicatrice di una inferta con un colpo netto e violento. Sembra di vivere in un’epoca che ha difficoltà a connettere il passato e il presente. Il passato è vissuto come orpello, come ostacolo da eliminare per far posto ad un presente autonomo rispetto ad esso e talmente diverso che porta a forme di reciproca estraneità. Prevale la frattura sulla continuità. Stento a riconoscermi nella nuova identità di San Michele, annesso che tale identità sia riconoscibile nonostante i tentativi non del tutto negativi costituiti dal nuovo centro culturale sorto sui ruderi del vecchio convento annesso alla chiesa di San Michele degli Scalzi. Percepisco la necessità del cambiamento ma per il momento riesco a cogliere solo aspetti negativi. È comprensibile che all’interno di tale frattura si sviluppino forme di nostalgia. Una vecchia identità è scomparsa travolta da mutamenti epocali inevitabili, ma non si scorge ciò che la può sostituire se non nella forma negativa della frattura, della contraddizione, del contrasto, del mancato riconoscimento reciproco.
Il confronto con il passato, anche se liberato dalle nebbie della nostalgia, mi spinge però a riflessioni critiche legate soprattutto alle immagini di un presente in cui spesso non si è riusciti a creare un collegamento con l’identità del quartiere, con la sua memoria. L’immagine del quartiere oggi mi sembra caratterizzata dalla presenza di molti elementi contraddittori, elementi che non si è riusciti ad integrare con quelli ereditati dal passato. Palazzi gruviera, strutture avveniristiche di tipo spaziale che cercano di incastrarsi o talvolta di sostituirsi a edifici più dimessi ma carichi di memoria e legati ad una dimensione più umana della vita. Forse la causa di tutto ciò è da ricercarsi nell’improvvisa accelerazione che ha contraddistinto i cambiamenti degli ultimi decenni, un’accelerazione incompatibile con le possibilità di adattamento della mente e dello sguardo umano. Le nuove forme non contribuiscono a creare nuove identità, nuovi luoghi in cui riconoscersi ma forse il nuovo modo di vivere non ha neppure più bisogno di luoghi come fino ad oggi o meglio fino ad ieri li abbiamo vissuti. Nella frattura si insinua la nostalgia come fuga dal presente ma anche come rinuncia ad incidere sui cambiamenti, ottenendo forse in cambio qualche comodità in più ma perdendo un po’ della nostra anima. C’è una via di uscita? Forse, tentare di recuperare il senso della bellezza intesa non come un modello astratto, un ideale definito cui adeguarsi destinato a diventare un vincolo che rende prigionieri, ma come uno stimolo a migliorare le cose che ci circondano, a curare la bellezza delle cose che sono intorno a noi, la nostra vita nella direzione del recupero di una dimensione umana in cui non ci sia la frattura tra utilità, utilizzabilità e qualità estetica, tra valori legati al bene, alla verità e al bello, tra proprietari ed esclusi dal godimento delle cose belle e dei diritti legati alla realizzazione di quei valori che non costituiscono di per sé un’unità ma che richiedono la partecipazione attiva di tutti noi affinché le loro relazioni possano manifestarsi, una misura umana da recuperare anche relativamente al tempo del mutamento che scorre in molti casi troppo velocemente e della dimensione spaziale in cui muoverci. Forse l’idea in sé giusta e positiva che il nostro spazio sia il mondo ci ha fatto perdere la consapevolezza che il mondo è un insieme di luoghi e che noi in ogni momento viviamo, che la nostra vita si svolge in questi luoghi e non nell’irreale dimensione globale. Dobbiamo ripensare lo spazio non in termini di totalità infinita e vuota in cui gli atomi si muovono senza vincoli, ma come un pieno di elementi, di campi, di materia in cui ogni azione, ogni mutamento produce effetti sul tutto. Solo in questa prospettiva la bellezza potrà salvare il mondo, altrimenti dovremmo chiederci con Settis se il mondo sarà in grado di salvare la bellezza.
massimocec ottobre 2020