È difficile trovare criteri per stabilire quanto una città può favorire nella diffusione della musica. Forse un criterio possibile è quello di valutare quante occasioni di ascoltare musica o di praticarla una città offra. Per quel che riguarda la mia esperienza, da questo punto di vista, posso parlare solo di musica classica perché non mi sono mai interessato di ascoltare dal vivo altri tipi di musica e posso dire che a Pisa la musica classica non sono mai mancate. Ricordo da studente universitario gli appuntamenti dei Concerti della Normale e quelli della Gioventù musicale che hanno costituito punti di riferimento costanti per tanti giovani già negli anni 70. In autunno era quasi un rito ricorrente la ricerca degli inviti per i Concerti della Normale, affiancato da quello degli abbonamenti per la stagione di prosa al Verdi per un posto nel loggione. Erano inviti eleganti consegnati in una busta bianca da lettere con l’intestazione della Scuola Normale di Pisa. La Gioventù musicale invece era più modesta, consegnava dei tesserini verdi che costavano una sciocchezza ma che permettevano di assistere ad un discreto numero di concerti, quasi sempre di solisti e talvolta di piccoli gruppi di musicisti, difficilmente più di un quartetto. I Concerti della normale in genere invece prevedevano la presenza anche di orchestre e cori. I luoghi in cui si tenevano i concerti, oltre naturalmente al teatro Verdi, prevedevano varie chiese, talvolta il salone degli stemmi nel Palazzo della Carovana.
Anche l’Opera del Duomo talvolta ha organizzato concerti, soprattutto nella stagione estiva nel cortile del Museo dell’Opera, un ambiente suggestivo con lo sfondo dei monumenti di Piazza dei Miracoli.
Nei primi anni del 2000 si è inserita tra le risorse musicali pisane la rassegna “Anima Mundi”, una serie autunnale di concerti di musica sacra tenuti nella cattedrale o nel camposanto monumentale nati sulla base da un’idea di Giuseppe Sinopoli, e diventati un appuntamento importantissimo del genere a livello nazionale.
Per altri tipi di musica non so dire non avendo una frequentazione assidua di tali appuntamenti. Però mi sono trovato spesso coinvolto in esibizioni improvvisate di giovani nelle piazze del centro storico o trascinato nelle esibizioni estive dei locali improvvisati nel Giardino Scotto o sulle sponde dell’Arno o ancora nelle feste dell’Unità o delle sagre. Nonostante ciò, la mia passione per la musica ascoltata dal vivo ha travalicato raramente i confini della musica classica. È una passione nata indipendentemente da eredità culturali familiari. Mio padre era un fanatico della canzone italiana, e in particolare di Claudio Villa, e al secondo posto aveva collocato l’opera lirica, soprattutto Verdi e Puccini, i suoi autori preferiti. Aveva una raccolta enorme di vinili e poi di Cd e DVD che aveva catalogato in modo ordinato, quasi maniacale, e che ascoltava quasi tutti i pomeriggi, ascolti fonte di litigi con mia madre che invece aspirava ad uscire di casa e a viaggiare. Dopo il pensionamento mio padre si era lasciato andare e si spostava da una città all’altra, da Verona a Macerata, da Genova a Parma, per andare ad ascoltare le sue opere preferite e raramente presenti nell’offerta musicale pisana. Andava da solo, perché mia madre è sempre rimasta indifferente al fascino che invece la lirica esercitava su mio padre e preferiva viaggi “per vedere il mondo”, come diceva frequentemente in polemica con mio padre, viaggi che comunque, nonostante le fughe solitarie di mio padre per ascoltare le opere, sono riusciti a fare insieme per molti anni proprio grazie al tempo libero lasciato dal pensionamento anticipato dovuto purtroppo anche alla silicosi, malattia professionale che il lavorare in Saint Gobain gli aveva lasciato come pesante eredità.
Per tanto tempo mi sono chiesto il perché della passione per l’opera di mio padre, un operaio che aveva soltanto la licenza elementare, visto che nella sua famiglia la musica operistica era praticamente ignorata. Una volta mi ha raccontato come è nata la sua passione, una passione anche questa frutto delle occasioni che Pisa offriva in un periodo avaro di opportunità come doveva essere quello dell’immediato dopoguerra. In quell’occasione ho scoperto un aspetto del passato di mio padre che non conoscevo. Non avrei mai sospettato che il fedele militante comunista, un po’ stalinista, qualche volta bastonato dalla polizia fosse stato a sua volta poliziotto. La passione di mio padre infatti era nata dietro il palcoscenico del teatro Verdi, il teatro pisano per eccellenza e rimasto unico nella città dopo la distruzione del teatro Politeama a causa dei bombardamenti e la chiusura per mancata manutenzione e colpevole abbandono dei teatri Rossi e Redini, quando, subito dopo la guerra, è stato per un breve periodo nella polizia ausiliaria prima di scegliere di fare l’operaio. L’idea di entrare nella polizia era stata una scelta utilitaristica maturata nell’estate del ’43, al compimento dei 18 anni, per evitare di partire per il fronte. Ma fu una scelta di breve durata perché nell’agosto dello stesso anno il bombardamento di Pisa distrusse la questura, allora ubicata sul Lungarno all’altezza del ponte della Fortezza accanto al Giardino Scotto, e le forze di polizia non si riorganizzarono. Mio padre, dopo essersi salvato per miracolo perché aveva lasciato la questura pochi minuti prima del bombardamento, sparì dalla circolazione per evitare la deportazione e la sua famiglia si aggregò alle famiglie sfollate sui monti pisani. Era anche diventato il capofamiglia, una famiglia composta da mia nonna e da due sorelle, in seguito alla morte di mio nonno ucciso durante uno dei bombardamenti mentre cercava di recuperare qualcosa nella casa abbandonata dopo lo sfollamento, con l’onere di cercare le risorse per la sua sopravvivenza. Dopo la liberazione di Pisa nel settembre del 44 spinto dalle esigenze economiche si ripresentò in questura e riprese servizio fino a quando non scelse di accettare l’assunzione come operaio alla Saint Gobain al posto di mio nonno perché aveva scoperto di non avere la vocazione del poliziotto. Durante quel periodo gli capitò spesso di prestare servizio a teatro in occasione della rappresentazione di opere liriche e lì era nata la sua passione per l’opera, l’unica eredità lasciatagli dal periodo trascorso in polizia.
Mio padre non mi ha trasmesso la passione né per la canzone italiana né per la lirica. La mia passione per la musica classica è invece nata grazie ad un amico. A casa sua, quando studiavamo insieme, spesso mi capitava di ascoltare dall’impianto stereo di suo padre alcune composizioni strumentali e sono rimasto affascinato da alcune di queste, in particolare dalla Pastorale di Beethoven. Dopo sono venuti i Pini di Roma di Respighi, la Grande Pasqua russa di Rimskij-Korsakov, i Concerti brandeburghesi di Bach. Spesso mi scoprivo distratto però nell’ascolto, come se la musica mi portasse a percorrere con il pensiero sentieri diversi. Ho sempre dato la responsabilità di questo ascolto intermittente alla mia ignoranza musicale. Forse era vero, ma mi ha colpito quello che ho trovato scritto in un recente saggio del compositore Nicola Campogrande, Occhio alle orecchie. Come ascoltare musica classica e vivere felici, che attribuisce l’ascolto intermittente, la tensione intervallata da momenti di fuga nei pensieri, nelle suggestioni suggerite dalla musica anche agli esperti. Campogrande suggerisce che tale tipo di ascolto è una cosa comune. La musica classica secondo lui ha questa proprietà, di lasciare all’ascoltatore una certa libertà perché non lo rinchiude nelle maglie del noto. La sua complessità la fa in qualche modo riuscire ostica per la memoria e le consente di ripresentarsi come cosa nuova anche dopo esser già stata ascoltata e ciò rende in qualche modo più libero l’ascoltatore. Non so quanto sia vero che la musica classica è difficile da ricordare anche perché è nota la capacità di personaggi non musicisti di professione, come Wittgenstein, in grado di fischiare intere melodie. Certo è che è percepibile a livello immediato la differenza tra una musica dotata di una struttura complessa, quasi razionale e una musica più immediata, quasi più istintiva, basata forse più sui ritmi che lascia un ampio spazio all’improvvisazione come accade nel jazz. Credo sia vero che la musica “istintiva” coinvolge in modo più stretto, quasi obbliga a lasciarsi trascinare dal ritmo rendendo più difficile ogni distrazione.
Forse è stata proprio questa caratteristica di razionalità e di complessità a spingermi ad accostarmi sempre più alla musica strumentale classica. Dopo le sollecitazioni iniziali, grazie ai dischi del mio amico, è intervenuta Pisa con le sue risorse che mi hanno consentito di scoprire le melodie strazianti per la mia inesperta sensibilità musicale della Sinfonia numero 1 di Mahler e poi le dissonanze degli ultimi quartetti di Beethoven e di altre dissonanze quali quelle di Webern, Berg, Schoenberg, passando per Debussy e Stravinsky. Pisa ha facilitato l’affermarsi di queste fascinazioni, anzi grazie alla frequenza assidua delle occasioni offerte dalla città, ha reso possibile la trasformazione delle fascinazioni in una passione vera e propria, passione che mi ha spinto a cercare di capire in che cosa consisteva il fascino della dissonanza, soprattutto quando tali dissonanze arrivavano a demolire ciò che erano ritenuti i valori estetici della bella musica ottocentesca, tanto che un mio amico, professore di musica, era solito affermare che la musica classica finisce con Beethoven. L’affermazione del mio amico era una sfida per me che da un lato sentivo il fascino della musica tonale ma dall’altro subivo anche l’attrazione della musica atonale, pur riconoscendo a livello percettivo la difficoltà di provare per tale musica la sensazione di piacere immediato d’ascolto, sostituita da una sorta di piacere intellettuale.
In questa passione per la musica classica però, indipendentemente dalla passione di mio padre, si è poi inserita anche la passione della musica operistica, rimestando un po’ tutte le carte. Inizialmente non seguivo l’opera perché in qualche modo diffidavo della parola, la vedevo come una sorta di contaminazione del suono strumentale, tanto che consideravo la musica leggera che invece si sostiene in gran parte sul potere della parola, qualcosa di diverso dalla musica, quasi qualcosa di non musicale. Poi grazie all’ascolto di alcuni concerti della Normale ho scoperto Schubert e i suoi leader, il Viaggio d’inverno, la Bella mugnaia. Probabilmente il fatto che i leader siano in tedesco forse ha fatto sì che la parola in qualche modo fosse da me percepita come suono senza significato associato. Questa mancanza di significato per la parola ascoltata assieme alla musica ha in qualche modo facilitato una sorta di assuefazione alla presenza della parola e ha reso possibile il superamento del pregiudizio nei confronti di tale presenza, un superamento facilitato anche dall’ascolto di musiche quali il canto gregoriano, i madrigali di Monteverdi, il fascino di composizioni, quali Zefiro torna e il tempo rimena, che già dalla prima volta che le ho ascoltate mi sono sembrate una sorta scoperta di un gioiello nascosto, di un oggetto prezioso dimenticato.
D’altra parte, anche l’ascolto della musica lirica, non appena ho iniziato ad ascoltarla grazie ai dischi di mio padre, produceva in me lo stesso effetto dei lieder di Schubert in quanto la parola si dissolveva nel suono non riuscendo quasi mai a coglierne il significato. Un’opera soprattutto però ha giocato un ruolo fondamentale nella scoperta del fascino della lirica, la Carmen di Bizet, un’opera che mi è rimasta subito impressa fin dal primo ascolto ma della quale, ancor oggi, non saprei neppure raccontare la trama. A mio padre non piaceva molto la Carmen, era troppo esotica, in francese, “Non si capisce niente”. Non aveva dischi neppure di Wagner, delle opere di autori stranieri ascoltava solo le opere di Mozart. In quegli anni forse stavo leggendo Nietzsche, subendone anche un certo fascino, misto però ad un altrettanto bisogno di prenderne le distanze. La sua idea che “Nella musica occorre contrapporre all’ottusa serietà tedesca il genio dell’allegria” però non mi sembrava da buttare. In qualche modo era coerente con il bisogno di andare a toccare più direttamente le sorgenti della vita spesso occultate dalla dimensione intellettuale, dal linguaggio, dall’insieme dei segni che si sostituiscono alle cose, dalle parole che, come diceva Hofmannsthal, diventano indecenti quando non riescono più ad afferrare l’esperienza profonda, un bisogno che credo prima o poi si faccia vivo nella vita di ciascuno di noi e, in particolari momenti storici, diventi anche un bisogno sociale e culturale. Nietzsche, descrive la sua scoperta di Carmen, ascolta per la prima volta al Teatro Paganini di Genova il 27 novembre 1881 con entusiasmo “Evviva! Amico! Di nuovo ho conosciuto qualcosa di bello, un’opera di François Bizet (chi è costui?)… Carmen. Sembrava di ascoltare una novella di Merimée, piena di spirito, intensa, talora anche toccante. Un autentico talento francese dell’opera comica, niente affatto disorientato da Wagner, al contrario, il vero allievo di H. Berlioz. Non pensavo che qualcosa del genere fosse possibile! […]”. Più modestamente io invece sentivo in qualche modo che dovevo recuperare qualcosa che avevo perso, una sorta di ascolto della musica più libero da incrostazioni intellettuali, più immediato. Forse anche il bisogno di una sorta di riconciliazione tardiva con mio padre, di accettazione e di considerazione dei suoi gusti anche se a lui Carmen non piaceva. Una riconciliazione con l’opera per liberami dalla diffidenza nei confronti della parola e non solo, anche dalla diffidenza nei confronti del potere attrattivo del ritmo, del contrasto tra ritmo e logica, tra musica in qualche modo percepita come struttura razionale e musica percepita come istintiva, spontanea e dotata di un suo particolare potere attrattivo. Mi dava fastidio questa sorta di antitesi tra cose che in fondo mi attraevano e nello stesso tempo non capivo, opere che, a differenza della musica strumentale, presentavano significati che però si dissolvevano di fronte ad altri aspetti non razionali, una sorta di antitesi simile a quella platonica all’interno della quale la musica è sia uno strumento essenziale di conoscenza in quanto rivelazione della natura matematica e quindi ideale della realtà, sia uno strumento da condannare in quanto dotato di un potere di fascinazione, inganno, distrazione. Io però non percepivo l’aspetto attrattivo come qualcosa da condannare ma piuttosto come qualcosa da conciliare con la dimensione razionale, logica della musica. Ho cercato soluzioni attraverso letture, pareri di esperti. Ho quindi ripercorso a livello teorico tutti i possibili rapporti tra parole e musica, da quello di vicinanza a quello di contrasto, da quello di fusione a quello di negazione, fino a quello di imitazione. Il risultato è stato quello di una rivalutazione della parola nella musica non basata soltanto sulla sua natura di suono ma anche sulla natura di segno portatore di significato, di strumento per la narrazione, la descrizione, l’affabulazione, la critica, la protesta. Tra l’altro, grazie a questa rivalutazione della parola nella musica, mi sono accostato in modo diverso anche alla poesia. Ho scoperto che la poesia come si fa a scuola, la poesia come testo scritto, copre solo in parte la dimensione poetica, una dimensione che ha invece nel ritmo, nel suono componenti fondamentali. Detto ciò, però non credo che la poesia sia la chiave per comprendere il rapporto fra musica e parola perché è evidente che tale rapporto nella poesia è un rapporto di subordinazione del significato rispetto alla dimensione sonora. Sono rimasto ancorato all’idea che la parola chiara, percepita come portatrice di significato che affianca la musica dia una qualche priorità al significato e quindi a qualcosa che le rimane in qualche modo estraneo alla dimensione musicale, che rimanda ad una dimensione extra musicale, a qualcosa che rende la musica un accessorio, anche se è un accessorio che esercita a sua volta un fascino, che ha un potere attrattivo che può potenziare la dimensione semantica della parola. La voce umana mi sembra ancor oggi una presenza estranea soprattutto perché portatrice di qualcosa che nella musica non c’è, il significato legato alla parola e con il significato tutta una serie insieme di altri elementi quali la narrazione, la descrizione. La musica in qualche modo evoca, stimola, suggerisse, suggestiona ma non delinea, non definisce come invece fa la parola. Altra cosa è la voce pura che si trasforma in strumento musicale come forse lo è la voce che utilizza una lingua sconosciuta.
Debbo dire che il gioco tra parola e suono, tra ritmo e struttura logica della musica è un percorso personale che non è mai arrivato ad un punto fermo e che Pisa con le sue sollecitazioni ha contribuito a far rimanere aperto, non concluso, spingendo ora in una delle direzioni e la volta successiva in un’altra, lanciando lusinghe ora verso la musica pura e poi verso la musica ancorata alla parola nelle sue varie versioni, da quella lirica, a quella popolare, alla canzone d’autore, al jazz innescando rimescolando continuamente le carte, passando però raramente per il rock e per la musica pop che mi sono sempre rimaste abbastanza indifferenti, tranne poche eccezioni.
Rimangono comunque aperti due problemi di genere completamente diverso, uno riferito alla musica, alla sua natura e l’altro riferito alla sua possibilità di diffondersi come strumento culturale. Per quanto riguarda il primo problema, Pisa non ha niente da offrire o da recriminare. Il problema riguarda la natura della musica classica e la sua caratteristica di ripresentarsi in qualche modo sempre uguale a se stessa, con gli stessi brani, ancor più quando la spinta che la anima è il rigore filologico, importantissimo ma anche ostacolo per la costruzione di un legame con la vita che scorre e che trasforma tutto, un po’ come la memoria che otre certi limiti diventa un ostacolo per la vita. Anche la musica lirica presenta lo stesso problema poiché quello che cambia è spesso ciò che non è musicale, cioè la scenografia, i costumi, le ambientazioni. Il jazz invece, ad esempio, ha la capacità di rinnovarsi continuamente durante l’esecuzione, di rimanere ancorato non al disegno iniziale ma al suo manifestarsi ora e qui. Come possa uscire la musica classica da questa dimensione museale non so, anche perché i percorsi innovativi che si sono manifestati hanno puntato sull’irrobustimento della complessità logica della composizione e sulla presa di distanza dalle componenti più facilmente percepibili, allontanando così sempre più la maggior parte degli ascoltatori ed esaltando la dimensione elitaria di tale tipo di musica.
L’altro problema riguarda invece direttamente Pisa, una città che avrebbe bisogno, come tante altre, di luoghi e di strutture per la diffusione della musica, ma questi luoghi non ci sono o sono dimenticati, abbandonati, come, ad esempio, il teatro Rossi. Senza tali luoghi diventa difficile offrire occasioni formative e quindi, ad esempio, diffondere la cultura musicale. L’ascolto mediato dalla tecnologia può aiutare solo in parte, l’esperienza del concerto dal vivo è un’altra cosa. Ed è in fondo questo quello che ti deve dare il luogo in cui nasci e in cui cresci, le sollecitazioni, le spinte, le motivazioni per andare oltre, per abbandonarlo per poter poi tornarvi con occhi diversi, occhi in grado di apprezzare ciò che ti è stato dato. Senza ciò, il luogo in ci si nasce non può che diventare un luogo indifferente o addirittura ostile. E tale indifferenza può comprendere anche i genitori, il padre o la madre. Il mio amico Ovidio recentemente mi ha ricordato una frase che Rilke ha scritto in ‘Lettere milanesi’: “Nasciamo, per così dire, provvisoriamente, da qualche parte; è a poco a poco che componiamo in noi il luogo della nostra origine, per rinascervi in un secondo tempo e ogni giorno più definitivamente”. Rilke era un giramondo, non particolarmente legato alla città in cui era nato, Praga, in Boemia, nell’Impero Austro Ungarico, diventato, in seguito al crollo di tale impero, un apolide, un senza casa, “un pellegrino irrequieto di tutte le terre, di tutti i santuari e cimiteri d’Europa” come lo definisce Ladislao Mittner nella sua La letteratura tedesca del Novecento. Forse Rilke, come osserva Mittner, si sentì più a casa sua nella Russia prerivoluzionaria, “mescolandosi al popolo durante la festa di Pasqua” fino ad arrivare a credere “di essere stato russo in un’esistenza anteriore”, o in paesi come l’Italia, la Spagna, la Francia così profondamente diversi dai suoi paesi d’origine anagrafica; e nella stessa lettera in cui troviamo la frase sopra citata Rilke aggiunge: “Così senza eccedere in un vago ed evasivo cosmopolitismo, debbo convenire che non fu la Germania a formarmi, né lo furono i confusi influssi d’Austria e di Boemia – ma la Russia immensa e ineffabile, ma la Francia, l’Italia, la Spagna e tutto quel passato interiore e lontano che questi paesi, di volta in volta abitati e ammirati, hanno potuto risvegliare e quasi autorizzare nel mio sangue“. E in questo senso il luogo in cui nasci fisicamente può essere diverso dal luogo in cui riconosci la tua origine, perché tale luogo può diventare anche una prigione come la casa paterna per Kafka, che sempre Mittner definisce come “incubo spettrale, mostruosa negazione di qualsiasi sicurezza domestica”. Ma può darsi che il luogo di nascita diventi anche il luogo della tua origine e questo può accadere solo se tra te e il luogo in cui nasci si apre un dialogo, uno scambio. Sempre Rilke aggiunge nella stessa lettera in cui troviamo le frasi sopra citate “Presso certuni il luogo della loro nascita spirituale coincide con quello segnato nei loro documenti d’identità, – e deve essere una beatitudine inaudita sentirsi sino a questo punto identici con le circostanze“. E questo è successo tra me e Pisa con la musica ma non solo, una città con cui, senza saperlo, ho dialogato continuamente anche se per molto tempo è stato un dialogo nascosto, di cui non ero consapevole. Talvolta mi chiedo se ancora oggi Pisa possa svolgere lo stesso ruolo con i giovani che provvisoriamente vi nascono ma che ancora non hanno un’origine e che forse, a loro volta, non cercano un’origine.
massimocec ottobre 2022