Fotografie di Ovidio Della Croce
Orazio Riminaldi non è il mio pittore preferito. Dunque, credetemi: la decorazione della cupola della Cattedrale di Santa Maria Assunta di Pisa è davvero una “figata pazzesca”. La cominciò nel 1627, a trentaquattro anni, morì a soli trentasette anni di peste bubbonica. Aveva investito molto nella sua formazione di artista. Quando capiremo che investire nella formazione è un punto strategico?
Nel mese di settembre mi capitò di visitare la Cattedrale di Santa Maria Assunta di Pisa e di poter vedere da vicino il dipinto della cupola dopo un restauro durato tre anni (dal 2015 al 2018, in tempo per celebrare i novecento anni dalla consacrazione del Duomo). Entrai dall’ingresso vicino alla torre, dalla porta di Bonanno, feci pochi passi verso il transetto San Ranieri, mi avvicinai allo splendido pavimento di marmi policromi e guardai su. Un vortice di figure e l’Assunta portata in cielo dagli angeli mi dettero il benvenuto. Un enorme dipinto a olio su muro (non ad affresco) di oltre trecentotrenta metri quadrati, a un’altezza media di oltre una quarantina di metri dal suolo. Un profumo di Caravaggio. Un’impresa immensa con cui Orazio Riminaldi, che la dipinse in tre anni (dal 1627 al 1630, anno in cui morì di peste bubbonica), si conquistò una certa fama.
Nel 1627 l’Operaio Curzio Ceuli, vero e proprio mecenate di Orazio Riminaldi in città, dava il via definitivo alla decorazione della cupola ellittica del Duomo, sopra la zona presbiteriale. Si può dire con una citazione erudita, che non mi compete. Il 23 aprile Riminaldi riceveva 1400 lire “a buon conto e per caparra della dipintura che deve fare nella Chiesa del Duomo di Pisa nella cupola acciò si possi fare li shudi [studi?] e li cartoni che hoccorreranno avanti metta mano” (La circolar parete. Orazio Riminaldi e la cupola del Duomo di Pisa, a cura di Gabriella Garzella, Società Storica Pisana, p. 139, Giugno 2019). Non è certamente il mio pittore preferito. Dunque, credetemi quando vi dico che questa pittura, tanto per usare un’espressione tecnica, è davvero una “figata pazzesca”. Il Riminaldi della cupola del Duomo è davvero un grande e Pisa grazie a “pittor sì valente sola par che vivesse i migliori anni” (Luigi Antonio Lanzi, Storia pittorica della Italia, 1795-1796). A parte Orazio e la figlia Artemisa Gentileschi, Riminaldi è considerato il miglior pittore pisano del Seicento.
Mentre, eccezionalmente, mi arrampicavo sulle piccole e ripide scale di marmo che portavano ai matronei con una pesante macchina fotografica mi preparavo a fare una serie di scatti senza però un progetto preciso. Pensavo: vorrei essere uno storico dell’arte. Non è semplice. Lo vorrei essere per dire la sorpresa, anche per me che abito a un quarto d’ora da quel luogo, di una meraviglia che ho scoperto e che non pensavo si potesse aggiungere in uno spazio già meraviglioso. In questo breve articolo non voglio improvvisarmi critico d’arte, se mai vi accenno un po’ alla difficoltà di ritrarre l’Assunta pur essendo in una situazione privilegiata. E, se ne sono capace, provo a dire una cosa che ho imparato o che ho imparato meglio documentandomi su Riminaldi e la sua opera maggiore.
Lo spazio architettonico dipinto da Riminaldi si può vedere solo dal basso, è più facile fotografare dal basso con un buon teleobiettivo, anche se a una distanza di circa 45 metri. In quel pomeriggio di settembre ero invece più o meno a una dozzina di metri dall’affresco, una distanza giusta. Ma era difficile ritrarre, le colonne che intercettavo con l’obiettivo rendevano complicato cogliere il movimento circolare che Riminaldi ha dato al dipinto. Poi c’era una ringhiera di sicurezza e non potevo sporgermi troppo per non far suonare l’allarme. C’era anche il mio sbigottimento per essere così vicino a quell’affollamento di figure, volti, gesti e scene dei duecentoquaranta personaggi. Un’opportunità irripetibile. Pensai di fare una furbata. Mi sdraiai e inquadrai la cupola con la testa poggiata sul gradino dei matronei. La mia Canon digitale davanti a quella pellicola pittorica. Ecco dentro l’obiettivo l’Assunta. Clic. L’ho presa, sopra una nuvola, con tutti gli angioletti intorno e con quello che le tiene alzato il braccio destro. Provo a riprendere la spirale del dipinto intero. Un altro clic. Eccolo il vortice, è dentro la mia macchina o almeno mi illudo che ci sia. Poi un clic per San Ranieri con la sua barba scura mentre si rivolge a San Pietro con la sua barba bianca per raccomandargli la fortuna e la prosperità di Pisa. Un clic anche a San Torpé che mostra la bandiera pisana. E poi una serie di scatti a ruota libera inquadrando diversi particolari, senza alcuna pretesa di documentazione, per questo rimando alle fotografie di Irene Taddei, grazie all’iniziativa della Primaziale Pisana, alcune delle quali raccolte nel bel catalogo dedicato alla “circolar parete”.
A conclusione di questa straordinaria visita, mi incamminai verso la mostra, “Orazio Riminaldi Un maestro pisano tra Caravaggio e Gentileschi”, a cura di Pierluigi Carofano e Riccardo Lattuada la prima a lui dedicata, purtroppo si è conclusa (non a caso) il 5 settembre, giorno in cui nacque nell’anno 1593, da padre di origine lucchese. L’esposizione di circa sessanta opere, tra cui i modelli preparatori della Cattedrale di Pisa, ricostruiva la figura del nostro pittore, da più di un critico definito “caravaggista temperato”. Mentre ero in fila chiusi gli occhi. Ero nel Palazzo dell’Opera del Duomo, ma mi pareva di stare dentro a niente. Tenevo gli occhi ancora chiusi, in quell’istante avvertii il vortice del dipinto che avevo visto e fotografato e mi sembrò di essere in grado di percepire il movimento di rotazione. È quello che succede nelle fotografie. E nella retina dei nostri occhi. Alziamo lo sguardo. Fissiamo una cupola, fermiamo il tempo. Poi, un attimo dopo, rientriamo nel corso del tempo fino a quando il nostro movimento non smette di vorticare. Riaprii gli occhi e ricordo di aver detto: è proprio fantastica la cupola dipinta del Duomo.
Con un pensiero così è sicuramente finita la mia carriera di storico dell’arte, che peraltro non è mai cominciata. Prima di concludere avevo promesso di dire una cosa che ho imparato meglio. È molto semplice. Studiando la vita di Riminaldi, mi ha colpito il periodo della sua formazione, lenta ma decisiva. Durante l’adolescenza il giovane Orazio va a bottega di Aurelio Gentileschi, prima ancora compì il suo apprendistato dal pittore Ranieri Borghetti e successivamente nella bottega di Aurelio Lomi. Il suo periodo di formazione durò dieci anni. Poi andò a Roma, si ipotizza che ci arrivò tra il 1615 e il 1619, tra i ventidue e i ventisei anni, e maturò la sua preparazione presso Orazio Gentileschi, a quel tempo artista alla ribalta grazie alla sua conversione alla pittura di Caravaggio, grande rifondatore della storia dell’arte. Anche Riminaldi allora si orientò verso l’arte di Caravaggio, ma in modo personale. Per formarsi Orazio spende molto tempo e denaro. Non per caso ebbe una carriera brillante e iniziò la sua opera più ardua e importante a soli trentaquattro anni (visse solo trentasette anni, i lavori di pittura della cupola furono finiti dal fratello Girolamo nel novembre 1632). Riminaldi impara a diventare artista e a conoscere il mondo. Dunque, Riminaldi investe molto nella sua formazione di artista. Così come Caravaggio, che convince la madre rimasta vedova a investire parte dell’eredità nella sua formazione, almeno tanto quanto il valore di una casa, poi firma un contratto con cui si impegna a stare, dai dodici ai sedici anni, presso il suo maestro Simone Peterzano, un pittore veneto che aveva la sua bottega a Milano. Personalmente ho imparato meglio che investire nella formazione è un punto strategico. Ciò che è difficile far capire a chi governa l’Italia. E questo, in realtà, mi sembra un pensiero palindromo, che va bene sempre o almeno da una trentina di anni, e purtroppo l’Italia, nella spesa per la formazione, resta sempre indietro a Germania e Francia: 57 miliardi del nostro Paese nel 2019, mentre la Germania ne ha spesi 100 e 89 la Francia, come viene illustrato nell’articolo di Stefano Caselli sul Corriere della Sera di venerdì 26 novembre 2021 intitolato Quanto intendiamo puntare (e spendere) sulla scuola?”.
odellac novembre 2021
Devo confessare che fino a quando il mio amico Ovidio non mi ha parlato del restauro dell’Assunzione di Maria e della mostra collegata organizzata nel vicino Museo dell’Opera del Duomo, non avevo mai prestato attenzione a ciò che era dipinto nella cupola del duomo di Pisa né niente sapevo del pittore Riminaldi, l’autore del dipinto. Ancor meno avevo prestato attenzione, nonostante l’avessi letto e ascoltato decine di volte, al fatto che la stessa cattedrale, il Duomo come i pisani la chiamano, è dedicata a Santa Maria Assunta. E infine mi sono reso conto che anche la stessa Assunzione di Maria, destinataria di una dedica così importante come quella di una delle più belle chiese del mondo e soggetto di un dipinto che occupa un ampio invaso spaziale costituito dalla cupola ellittica che si apre sopra la navata centrale, era per me un oggetto di conoscenza poco nitido. E da qui è partito, con l’aiuto della preziosa guida del testo La circolar parete, pubblicato dalla Società Storica Pisana in occasione della conclusione del restauro del dipinto nel 2019, il mio personale percorso di ricerca per rimuovere amnesie e ignoranza.
Sempre in tema di amnesie, nel momento in cui Ovidio mi ha mostrato le sue fotografie, la prima cosa che mi è venuta in mente però non è stato qualcosa legato al dipinto, ma piuttosto il fatto, estremante più marginale, che la festa dell’Assunzione di Maria, che ricorre il 15 agosto, è in realtà quella che noi chiamiamo Ferragosto, un modo di denominare la festività che contribuisce a occultarne il contenuto religioso. Ho pensato che, visto il carattere estremamente laico di questa festività, forse siamo vittime di una sorta di ulteriore rimozione e perciò sono andato a cercare di capirne il motivo e ho scoperto che, come accade per molte festività di carattere religioso, in tale ricorrenza si intrecciano elementi diversi provenienti da tradizioni antiche cui si sovrappongono elementi legati al mondo cristiano cattolico, rimasticati alla luce del nostro modo di vivere e rivivere le tradizioni.
Non mi ha stupito quindi scoprire che, per quanto riguarda le tradizioni antiche, Ferragosto sia stata una festività romana e che il suo nome derivi dal latino Feriae Augusti (riposo di Augusto) che era il nome attribuito ad una festività che ricorreva il primo del mese di agosto (nome attribuito al mese estivo nell’anno 8 a.C., in onore proprio dell’imperatore Augusto), istituita dall’imperatore Augusto nel 18 a.C. in aggiunta ad altre festività presenti nello stesso periodo dell’anno che era un periodo di riposo e di festeggiamenti per la fine dei lavori agricoli.
Con la diffusione del cristianesimo, la Chiesa, come è accaduto per altre ricorrenze, intorno al VII secolo, volle ricondurre nell’alveo delle ricorrenze religiose la festività romana e fece coincidere il Ferragosto romano con la festa religiosa dell’Assunzione di Maria spostando la data al 15 agosto, il giorno della ricorrenza religiosa.
Infine, in tempi recenti, almeno in Italia, Il fascismo, durante il ventennio, ci ha messo del suo per caratterizzare tale festività legando il Ferragosto all’idea delle gite turistiche, delle scampagnate, promosse tramite le associazioni dopolavoristiche delle varie corporazioni, e all’organizzazione di treni popolari speciali, ribattezzati “treni di Ferragosto”, con prezzi scontati per visitare città italiane o raggiungere località marine o montane. Il pranzo non era compreso nel prezzo del biglietto, così le famiglie durante queste gite di metà estate si portavano da mangiare, contribuendo così a far affermare l’usanza del pranzo al sacco divenuta poi, in un’epoca più consumistica, l’abbuffata di Ferragosto.
Come è facile capire, il nostro Ferragosto è una sorta di guazzabuglio di tradizioni e di ricorrenze, cui si è aggiunto il nostro modo di vivere caratterizzato dall’esplosione della mania vacanziera e dal consumismo turistico ad ogni costo.
Conseguenza di ciò, oggi l’aspetto religioso di tale festività è rimasto marginale. Ferragosto è la festa un po’ sguaiata che fino a un po’ di tempo fa segnava sia il culmine dell’estate sia l’inizio del suo declino. Subito dopo arrivavano i temporali, la temperatura calava e le spiagge si spopolavano. Nei nostri tempi caratterizzati da una minacciosa rivoluzione climatica non è più così. I temporali sono diventati ordinari e pericolosi in tutte le stagioni e le temperature non calano fino alla fine di settembre. Rimane l’aspetto sguaiato della festa dell’Assunzione, i gavettoni d’acqua, le mangiate, la corsa al soggiorno turistico ad ogni costo che spopola le città o le trasforma in fiere straboccanti di souvenir per accaldati viaggiatori in cerca di fotografie e selfie. Pochi hanno presente che il Ferragosto è anche la festa dell’Assunzione di Maria al cielo e che tale ricorrenza coincide con un complesso dogma di fede della Chiesa cattolica, un dogma carico di implicazioni teologiche che ha suggerito nei secoli non solo riflessioni teoretiche e gesti di devozione popolare ma anche una ragguardevole produzione artistica. È un’osservazione non dettata da una retorica di stampo cattolico, ma piuttosto dalla constatazione di come la complessità viene spesso divorata dal riduzionismo della spinta consumistica, direi da quel feticismo che tende a occultare tutto ciò che non può diventare rapidamente merce, comprese le tradizioni, le relazioni sociali, le vicende culturali e del pensiero. Un feticismo che si può toccare con mano grazie alle cartoline, ai dépliant, a tutti i feticci che l’industria del turismo produce per alimentare migrazioni di masse ipnotizzate dalle fotografie ritoccate, dalle musiche suadenti, dagli inviti allettanti ma interessate soltanto al denaro che questi turisti portano. In fondo per gli operatori del turismo è sufficiente sollecitare la vista, lo sguardo veloce, o meglio lo sguardo attraverso il mirino dello smartphone che consente di materializzare la traccia dello sguardo per essere sicuri di esserci stati senza sollecitare il pensiero. Riflettere sull’Assunta, anche dal punto di vista di un non credente, è forse un po’ come tentare di resistere alla marea dilagante del conformismo dettato dal feticismo delle merci e dalla conseguente cancellazione della complessità che spinge verso una semplificazione banalizzante di ogni possibile esperienza culturale, sociale, comunitaria e personale, compresa quella della fruizione delle immagini prodotte dagli uomini, delle complesse vicende che le hanno partorite.
Si tratta quindi di sfuggire alla banalizzante semplificazione da dare in pasto ai turisti mediante la ricostruzione della complessità di ogni esperienza, in particolare di quelle che coinvolgono le vicende del pensiero, della produzione artistica, della storia delle società, delle comunità, delle persone. Una complessità che si muove su vari livelli, da quelli legati a prospettive strettamente teoretiche, a quelli che coinvolgono sensibilità e modelli culturali popolari, alle pratiche tecniche, tecnologiche e manuali alla produzione artistica.
L’aspetto teologico legato all’Assunzione, come quasi sempre accade per le verità religiose, coinvolge un fenomeno che esce dalla possibilità di spiegazione sulla base delle nostre conoscenze sia di senso comune che scientifiche e riguarda le modalità con cui ha avuto termine la vita terrena di Maria e il suo destino successivo. In poche parole, l’aspetto teologico è riassumibile nell’affermazione che, al termine della sua vita terrena, Maria salì in Paradiso, a differenza dei santi, non solo con la sua anima ma anche con il suo corpo, una sorta di anticipazione di quello che, secondo la dottrina della Chiesa, accadrà a tutti gli uomini e a tutte le donne nel momento in cui dovranno sottoporsi al Giudizio universale e la loro carne risorgerà. Dietro l’apparente semplicità di tale affermazione si nascondono implicazioni e conseguenze che hanno animato interminabili dibattiti teologici, a partire dalla questione della morte o meno di Maria per arrivare all’unicità del suo destino che contrasta con il destino universale di tutto il genere umano contrassegnato dal peccato originale e dalla redenzione tramite il sacrificio di Cristo, l’ascesa in cielo sia come anima che come corpo, paragonabile solo a quello di Gesù che però ha per sua natura una dimensione divina oltre che umana.
Le due interpretazioni, quella della morte naturale di Maria e quella della Dormitio, sorta di addormentamento senza morte naturale, hanno alle loro spalle due diverse posizioni teologiche, una basata sul fatto che, essendo la morte frutto del peccato originale ed essendo Maria stata preservata fin dal suo concepimento da tale peccato per mezzo dell’Immacolata concezione, ella non è morta; l’altra che, essendo stata Maria preservata dal peccato originale ed essendo il primo essere umano redento da Cristo, suo figlio, ella lo ha seguito nel suo itinerario terreno in tutte le sue fasi, anche in quella della morte, ma il suo corpo è stato preservato dalla corruzione in quanto madre di Gesù.
In sostanza però è riconosciuto in entrambi i casi che Maria è l’unica persona in tutta la storia dell’umanità a essere assunta in cielo (quindi in corpo e anima) prima del Giudizio Universale e della resurrezione della carne.
Giovanni Damasceno (676 ca.- 749), uno dei dottori padri della Chiesa, ha scritto: “Era conveniente che colei che nel parto aveva conservato integra la sua verginità conservasse integro da corruzione il suo corpo dopo la morte. Era conveniente che colei che aveva portato nel seno il Creatore fatto bambino abitasse nella dimora divina. Era conveniente che la Sposa di Dio entrasse nella casa celeste. Era conveniente che colei che aveva visto il proprio figlio sulla Croce, ricevendo nel corpo il dolore che le era stato risparmiato nel parto, lo contemplasse seduto alla destra del Padre. Era conveniente che la Madre di Dio possedesse ciò che le era dovuto a motivo di suo figlio e che fosse onorata da tutte le creature quale Madre e schiava di Dio”.
Un ruolo particolare nel sostenere l’Assunzione di Maria a livello teologico è stato giocato nel basso Medioevo dai francescani come Antonio di Padova, Bonaventura da Bagnoregio e Bernardino da Siena, sostenitori dell’Immacolata Concezione in contrasto con i domenicani sostenitori dell’universalità del peccato originale, che convintamente sostennero l’impossibilità che il corpo di Maria “si disfacesse in putredine e cenere” (Bonaventura da Bagnoregio “De Nativitate B. Mariae Virginis, sermo 5). Bonaventura da Bagnoregio aggiunge: “E così si può constare che Maria è ivi (in Cielo) corporalmente. La beatitudine, infatti, non sarebbe consumata (ossia di massima pienezza), se ivi non vi fosse di persona; e poiché la persona non è soltanto l’anima, ma l’intero composto umano, è chiaro che ivi è presente nel composto, cioè in corpo e anima, altrimenti non potrebbe essere consumata la fruizione o godimento beatifico” (Bonaventura da Bagnoregio, De Assumptione B. Mariae Virginis, sermo 1).
Tale verità di fede ha avuto un lungo percorso prima di essere riconosciuta ufficialmente dalla Chiesa anche perché nel Nuovo Testamento, cioè nei testi canonici, l’ultima volta in cui si parla di Maria è negli Atti degli apostoli dove si dice che, dopo l’ascensione di Gesù, «Tutti questi [apostoli] perseveravano concordi nella preghiera, assieme con le donne e con Maria, madre di Gesù, e con i fratelli di lui» (Atti degli apostoli 1, 14).
L’Assunzione di Maria quindi è una verità di fede riconosciuta abbastanza tardi dalla Chiesa in quanto solo nel 1950, papa Pio XII, grazie al principio dell’infallibilità papale, affermata da Pio IX nel 1870 con la costituzione dogmatica Pastor Aeternus e riaffermata in modo netto proprio in occasione della proclamazione del dogma dell’assunzione di Maria con la seguente frase “Perciò, se alcuno, che Dio non voglia, osasse negare o porre in dubbio volontariamente ciò che da Noi è stato definito, sappia che è venuto meno alla fede divina e cattolica”, l’ha enunciata con le seguenti parole: «La Vergine Maria, completato il corso della sua vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo». L’enunciazione del dogma non risolve il dubbio se l’Assunzione sia stata preceduta soltanto da un sonno profondo o da una morte naturale. Tale ambiguità permane in quanto le parole con cui è stato proclamato il dogma di fede dell’Assunzione non chiariscono ai fedeli in che modo si è completato il corso della vita terrena di Maria.
Perché, da non credente, mi sono imbarcato nell’impresa di trovare un filo conduttore nel groviglio di tutte queste teorie? Mi sono dato due risposte. La prima riguarda il fatto che, se vogliamo capire un’opera d’arte almeno fino al Settecento, è necessario conoscere le vicende culturali e storiche del cristianesimo. Inoltre, nel leggere queste teorie, individuo anche un altro motivo del perché mi attraggono. È un po’ come giocare con il pensiero, come avviene con la geometria e con tutti i sistemi ipotetico deduttivi. Dati dei concetti, si debbono dedurre le caratteristiche di altri concetti, di altri oggetti che da quei concetti in qualche modo dipendono senza poter ricorrere all’esperienza, alla verifica o alla falsificazione fattuale. La fede può essere il motore che spinge a mettere in moto tali sistemi, ne può essere l’anima ma non il corpo. Sono anch’essi avventure del pensiero umano e in questo sta il loro fascino, nella loro architettura interna, nei legami che stabiliscono, come ogni avventura del pensiero, con altri campi, con altre manifestazioni di esso e con l’agire umano. E sono queste relazioni che costituiscono la complessità di ogni esperienza, che va al di là anche di ciò che pensiamo, di ciò in cui crediamo.
Che la complessità sia la chiave di lettura lo dimostra il fatto che non è sufficiente il ricorso alla dimensione teologica per comprendere l’Assunzione di Maria anche nelle sue manifestazioni artistiche che riempiono le nostre chiese. Infatti, nonostante i dubbi e i dibattiti teologici e il tardo riconoscimento ufficiale dell’Assunzione di Maria come verità di fede, il suo culto ha radici antiche e risale almeno al quinto secolo dopo Cristo. A partire da tale periodo si è diffuso in tutto il mondo cristiano e soprattutto è attecchito nella devozione popolare, secondo la quale l’Assunzione, grazie all’intercessione, coinciderebbe con una generosa elargizione di grazie da parte di Dio. Un aspetto che ha incontrato nel Cinquecento la presa di posizione della Chiesa delle Controriforma laddove nel Concilio di Trento si afferma che i santi debbono essere invocati tramite le preghiere per ottenere il loro aiuto e il loro soccorso, per intercedere tramite Cristo. I santi e Maria sono quindi coloro che possono intercedere a favore dei fedeli. Per Maria questa capacità di intercessione è rafforzata dall’essere madre di Dio, Vergine perpetua, Immacolata Concezione e Assunta in cielo.
Maria, oggetto di devozione popolare, non è però il frutto delle dispute teologiche ma piuttosto di una tradizione narrativa prima orale e poi scritta. Per quanto riguarda l’Assunzione, ci rimangono, fin dai primi secoli del cristianesimo, storie orali che riguardano l’ultima parte della vita di Maria, storie poi messe per iscritto dando vita a testi apocrifi in cui si parla della Dormizione o del Transito della Madonna. Anche in questi testi si dice che Maria si addormentò e il suo corpo fu portato in cielo, assunto tra la gloria degli angeli. In altri Maria muore effettivamente di morte naturale, non riconoscendole quindi l’immortalità che spetta solo al divino, morte seguita poi però dalla resurrezione; in tali testi si narra anche che gli apostoli giunsero miracolosamente al capezzale della Madonna, a Gerusalemme, e che alla sua morte è seguita l’assunzione del corpo e dell’anima della Vergine in cielo.
Il testo più noto forse è quello dello pseudo Giuseppe d’Arimatea, uno dei testi che si trovano nei vangeli apocrifi, che narra dell’arcangelo Gabriele che, tre giorni prima, avrebbe annunciato a Maria la sua morte:
“1. In quei tempi, prima che il Signore pervenisse alla sua passione, tra le molte altre cose che la madre domandò al figlio, si mise anche a interrogarlo circa il proprio transito, in questi termini: – Carissimo figlio, prego la santità tua perché, quando la mia anima dovrà uscire dal corpo, tu me lo faccia sapere tre giorni prima e tu stesso, diletto figlio, con i tuoi angeli la accolga.
2 Allora Egli accettò la preghiera della madre diletta e le disse: – O abitazione e tempio del Dio vivente, ο puerpera benedetta, ο regina di tutti i santi e benedetta fra tutte le donne: prima che tu mi portassi nel tuo utero, sempre ti custodii e ti feci nutrire ogni giorno col mio angelico cibo, come ben sai. Come potrei abbandonarti, dal momento che mi hai gestato e nutrito e mi hai portato fuggendo in Egitto e hai sostenuto per me tante angustie? Ebbene, sappi che i miei angeli sempre ti custodirono e ti custodiranno fino al tuo transito. E dopo che avrò sofferto la passione per gli uomini, come è prescritto, e il terzo giorno sarò risuscitato e dopo quaranta giorni sarò salito in cielo, quando mi vedrai venire a te con gli angeli e gli arcangeli, con i santi e con le vergini e con i miei discepoli, sappi per certo che la tua anima si separerà dal corpo e io la trasporterò in cielo, dove mai assolutamente avrà tribolazione ο angustia.
(…)
4 Pertanto, il secondo anno dopo l’ascensione del nostro Signore Gesù Cristo, la beatissima vergine Maria era sempre intenta nella preghiera, giorno e notte. E il terzo giorno prima di morire venne a lei l’angelo del Signore e la salutò, dicendo: – Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te.
Ed ella rispose, dicendo: – Deo gratias.
Allora egli le disse ancora: – Prendi questa palma, che il Signore ti ha promesso.
Ed ella con grande gioia, rivolgendo ringraziamenti a Dio, prese dalla mano dell’angelo la palma che le era stata mandata.
L’angelo del Signore le disse: – Fra tre giorni sarà la tua assunzione.
Ella allora rispose*: – Deo gratias.
(…)
8 Questi sono i nomi dei discepoli del Signore che furono trasportati là da una nube: Giovanni evangelista e suo fratello Giacomo, Pietro e Paolo, Andrea, Filippo, Luca, Barnaba, Bartolomeo e Matteo, Mattia detto il Giusto, Simone Cananeo, Giuda e suo fratello, Nicodemo e Massimiano e molti altri che è impossibile enumerare.
9 Allora la beata Maria disse ai suoi fratelli: – Qual è il motivo per cui siete venuti tutti a Gerusalemme?
Rispose Pietro, dicendole: – Sarebbe stato necessario che lo chiedessimo noi a te, questo, e invece tu lo chiedi a noi? Certamente, come credo, nessuno di noi sa perché oggi siamo venuti qui con tanta velocità. Ero ad Antiochia, ed ora invece sono qui!
Tutti dissero apertamente il luogo ove si erano trovati in quel giorno. E tutti si meravigliarono di essere lì, ad ascoltare quei discorsi.
10 Disse loro la beata Maria: – Io ho pregato mio figlio, prima che soffrisse la passione, che egli stesso e voi foste presenti alla mia morte, ed egli mi accordò questo favore.
(…)
11 Venuta la domenica, all’ora terza, come lo Spirito Santo discese sopra gli apostoli in una nube, discese pure Cristo con una moltitudine di angeli e accolse l’anima della sua diletta madre. E fu tanto lo splendore di luce e il soave profumo, mentre gli angeli cantavano il Cantico dei Cantici al punto in cui il Signore dice: «Come un giglio tra le spine, tale è la mia amata tra le fanciulle», che tutti quelli che erano là presenti caddero sulla loro faccia come caddero gli apostoli quando Cristo si trasfigurò alla loro presenza sul monte Tabor, e per una intera ora e mezza nessuno fu in grado di alzarsi.
12 Poi la luce si allontanò e insieme con essa fu assunta in cielo l’anima della beata vergine Maria in un coro di salmi, inni e cantici dei cantici. E mentre la nube si elevava, tutta la terra tremò e in un solo istante tutti i Gerosolimitani videro chiaramente la morte della santa Maria.
In quel medesimo momento Satana entrò dentro di loro e cominciarono a pensare che cosa dovevano fare del corpo di lei. Afferrarono armi, volendo ardere il corpo di lei e uccidere gli apostoli, perché da loro era uscita la dispersione di Israele per i suoi peccati e la congregazione dei Gentili. Ma furono colpiti da cecità e percuotevano il capo contro le pareti e si urtavano fra di loro.
13 Intanto gli apostoli, sbalorditi per tanto chiarore, si levarono tra il coro dei salmi e cominciarono il trasporto del santo corpo dal monte Sion alla valle di Giosafat. Ma giunti a metà strada, ecco che un giudeo, di nome Ruben, voleva gettare a terra il feretro con il corpo della beata Maria. Ma le sue mani seccarono fino al gomito e, volente ο nolente, scese fino alla valle di Giosafat, con pianti e gemiti, perché le sue mani erano ritte accanto al feretro ed egli non poteva più ritirarle a sé.
14 E cominciò a scongiurare gli apostoli perché lo salvassero con le loro preghiere e lo facessero diventare cristiano. Allora gli apostoli piegarono le ginocchia e pregarono il Signore che lo assolvesse. Perciò, risanato all’istante, ringraziò Dio e baciò i piedi della Regina e di tutti i santi e apostoli, e sul posto stesso fu battezzato e cominciò a predicare il nome del nostro Dio Gesù Cristo.
15 Poi gli apostoli con grande onore deposero il corpo nel sepolcro, piangendo e cantando per il troppo amore e per la dolcezza. E ad un tratto li avvolse una luce dal cielo e, mentre cadevano a terra, il santo corpo fu assunto in cielo dagli angeli.
(…)
19 Poi il beato Tommaso domandò: – Dove avete deposto il suo corpo?
Essi gli indicarono col dito il sepolcro. Ed egli disse: – Ma qui non c’è il corpo che è chiamato santissimo!
Allora gli disse il beato Pietro: – Già un’altra volta non volevi credere con noi alla resurrezione del nostro Maestro e Signore, se non lo vedevi e lo toccavi con le tue dita: come potresti credere a noi che il santo corpo è qui?
Ma di nuovo egli insisteva: – Qui non c’è!
Allora, quasi irati, si avvicinarono al sepolcro, che era nuovo, scavato nella pietra, alzarono la lapide, e non sapevano che cosa dirsene, essendo stati vinti dalle parole di Tommaso.
20 Allora il beato Tommaso si mise a raccontare loro che egli stava cantando messa in India (infatti era ancora rivestito degli abiti sacerdotali) quando, senza sapere che era volontà di Dio, venne trasportato sul monte degli Ulivi e vide ascendere in cielo il santissimo corpo della beata Maria e la pregò di dargli la sua benedizione, ed essa esaudì la sua preghiera e gli gettò la fascia, da cui era cinta. E mostrò a tutti quella fascia.
21 Vedendo pertanto quella fascia con cui essi stessi l’avevano cinta, gli apostoli, glorificando il Signore, domandarono tutti perdono al beato Tommaso per la benedizione che gli aveva dato la beata Maria e perché aveva visto il corpo santissimo ascendere in cielo.
…”
(Da: I vangeli apocrifi, Einaudi)
La narrazione di Giuseppe d’Arimatea è poi ripresa da altri autori. Lo scritto altomedievale più antico è forse quello del Vescovo Gregorio di Tours ( 538 ca.- 594), che così narra la vicenda: “Infine, quando la beata Vergine, avendo completato il corso della sua esistenza terrena, stava per essere chiamata da questo mondo, tutti gli apostoli, provenienti dalle loro differenti regioni, si riunirono nella sua casa. Quando sentirono che essa stava per lasciare il mondo, vegliarono insieme con lei. Ma ecco che il Signore Gesù venne con i suoi angeli e, presa la sua anima, la consegnò all’arcangelo Michele e si allontanò. All’alba gli apostoli sollevarono il suo corpo su un giaciglio, lo deposero su un sepolcro e lo custodirono, in attesa della venuta del Signore. Ed ecco che per la seconda volta il Signore si presentò a loro, ordinò che il sacro corpo fosse preso e portato in Paradiso”.
Infine, una solida base di conferma è costituita dall’inserimento della narrazione dell’Assunzione nella Legenda Aurea del domenicano Jacopo da Varazze l’attribuisce ad un opuscolo apocrifo di Giovanni Evangelista. È molto probabilmente a partire da questi testi che è stato alimentato il culto popolare dell’Assunzione, culto che ha poi subito una straordinaria diffusione con la Controriforma su forte spinta della Chiesa cattolica sia per dare uno sfogo all’interno della dottrina della Chiesa a culti pagani, sia per contrastare le proposte iconoclastiche della teologia scaturita dalla Riforma che criticava l’idea che Maria avesse una funzione di intercessione in favore dei peccatori.
La rappresentazione dell’Assunzione di Maria in ambito artistico è senza dubbio da collegare a tutta la complessa vicenda del culto mariano. Non è un caso proprio dopo la Controriforma, la Madonna inizi ad apparire al centro di scene luminose e dove i pittori si sforzano di utilizzare tutti gli accorgimenti pittorici in loro possesso al fine di creare immagini di Maria solenni, grandiose, trionfali, immagini che inondano le tele d’altare e riempiono le volte delle cupole, a partire dalla città dei papi, da Roma.
Anche l’Assunzione della cupola del Duomo di Pisa dipinta da Riminaldi non può che essere letta in tale ottica, tenendo presenti senza dubbio i vari sguardi che possono consentirci una molteplicità di letture, oltre a quella immediata, istantanea che si impone nel momento in cui la si intravede dopo aver varcato la soglia della cattedrale e che si amplia sempre più a mano a mano che ci si avvicina al punto centrale della cupola.
L’immagine immediata nel momento in cui si entra dalla porta principale è quella della figura imponente della Madonna collocata nella parte più alta della chiesa con il suo mantello azzurro svolazzante e le braccia aperte che, se non fosse per lo sguardo rivolto verso l’alto, si direbbero segno di un gesto di accoglienza rivolto ai fedeli raccolti in basso, nello spazio terreno della Cattedrale. A mano a mano che ci si avvicina alla cupola, si rafforza sempre più l’impressione visiva di essere al centro di un vortice che per cerchi concentrici conduce in alto dove si trova la figura di Gesù che occupa il vertice della cupola, una figura avvolta da un abito evanescente che a braccia aperte e con sguardo amorevole accoglie Maria. Una volta collocati sotto l’asse centrale della volta della cupola, due figure dominano la parte inferiore della scena per le loro dimensioni: la Madonna con le braccia allargate che, una volta collocata visivamente nell’intera scena, sembrano quasi incrociare quelle del figlio in un atteso abbraccio, adagiata su un ampio divano costituito da una ampia nuvola di colore scuro, spinta verso l’alto da un gruppo di angeli, e Giovanni Battista, anch’esso seduto su una nuvola, dalla parte opposta della Madonna, con in braccio l’agnello, che sembra guardare con curiosa freddezza la platea dei fedeli presenti nella cattedrale. Le due figure dirigono lo sguardo in due direzioni opposte, una, quella di Maria, verso l’alto e l’altra, quella di Giovanni Battista, verso il basso, quasi a voler costituire una catena che, dal basso, dove stanno i fedeli, porta a Gesù tramite i due personaggi.
Nel testo di Maria Cecilia Fabbri contenuto nel volume La circolar parete (In luce. Percorso critico della cupola di Orazio Riminaldi per parole e immagini) si fa cenno a due dipinti che possono aver suggerito a Riminaldi la sua immagine di Maria, l’Assunta di Domenichino sul soffitto di Santa Maria in Trastevere a Roma (1616 – 1617) e l’Assunta di Vouet dipinta sulla volta della cappella Alaleone in San Lorenzo in Lucina sempre a Roma (1623 – 25). Guardando le due tele e mettendole a confronto con la Madonna di Riminaldi, la prima cosa che mi ha colpito, forse da ingenuo incompetente, è stato il fatto che i colori delle vesti sono gli stessi, mantello blu e abito rosso. La prima cosa che ho scoperto è che, anche in questo caso, non sempre tali colori sono stati utilizzati per dipingere le vesti di Maria. Pastoureau, uno dei massimi esperti della storia dei colori, nel suo libro dedicato al blu afferma che bisogna aspettare il XII secolo perché Maria inizi ad essere vestita di blu. Prima di tale periodo i suoi abiti non avevano un colore preciso anche se erano prevalentemente scuri, simbolo del suo lutto per la perdita del figlio. A partire dal XII secolo inizia a prevalere un blu che si fa sempre più luminoso, segno forse di una trasformazione dell’immagine di Maria. Forse, come dice Pastoureau “Il Dio dei cristiani diventa difatti un Dio di luce. E la luce è … azzurra! Per la prima volta in Occidente, si dipingono i cieli d’azzurro … prima erano neri, bianchi, rossi, dorati. Per giunta, siamo in piena espansione del culto mariano. Ora la Vergine abita in cielo … nelle immagini a partire dal XII secolo, la si copre dunque d’un manto o di una veste azzurra. La Vergine diventa l’agente principale di promozione del blu” (Il piccolo libro dei colori, Ponte alle grazie). Il Barocco veste Maria d’oro, colore associato alla luce divina. Infine, a partire dal dogma dell’Immacolata Concezione nel XIX secolo il colore prevalente di Maria diventa il bianco simbolo di purezza e verginità.
In sostanza non sono riuscito a capire perché la presenza del rosso e del blu nei vestiti della Madonna se non come osservanza, in particolare per quanto riguarda il blu, di una tradizione iconografica nata in epoca medievale e soprattutto grazie alla diffusione del gotico, del rapporto di tale stile con la luce e della trasformazione della natura divina di Maria. E il rosso? È forse legato alla natura umana di Maria? Alla sua dimensione terrena? O forse dietro c’è solo un gusto cromatico che si è affermato in un determinato contesto o periodo e che spinge i pittori ad usare tali colori? Certo l’associazione di colori e simboli, come afferma John Gage nel suo testo Colore e cultura (1993), non ha niente a che fare con gli archetipi di junghiana memoria che pretendevano di associare valori universali ai simboli. Dietro ai colori come simboli credo che domini una diffusa ambiguità che fa sì che dietro all’uso di un colore possa trovare una molteplicità di significati, anche contraddittori, legati a specifici contesti storici, talvolta anche locali.
Nelle raffigurazioni dell’Assunta del Dominichino, del Vouet e di Riminaldi sono simili, oltre al colore delle vesti, la gestualità, la direzione dello sguardo, la presenza delle nubi come supporto fisico per l’ascesa e degli angeli che spingono verso l’alto la Madonna, un’iconografia che, come vedremo, ha un antecedente di rilievo e che tra il Cinquecento e il Seicento diventa quasi un cliché pittorico.
L’altra impressione immediata che si ha guardando il dipinto è quella della distanza che lo separa dall’osservatore, un dipinto collocato in alto che obbliga ad alzare gli occhi al cielo, a prendere atto della separazione tra la scena dipinta e chi la osserva, che chiede quindi uno sforzo visivo, un esercizio di immaginazione e forse che incute una sorta di rispetto. Mi sono chiesto se tale scelta e in particolare l’aver cancellato ogni rifermento alla dimensione terrena, la morte, il sepolcro, gli apostoli piangenti non sia in qualche modo legato ad una sorta di riaffermazione dello sfondo teorico del sistema tolemaico, in quegli anni messo in discussione da molti scienziati e, in particolare, da Galileo. In sostanza si separa il cielo dallo spazio dei fedeli, lo si colloca in dimensione assolutamente diversa dallo spazio riservato alla vita terrena lontano, quasi irraggiungibile, costellato da angeli, inondato da musiche, invaso dalla luce. Ma è facile dimostrare che tale lettura non regge. Il primo elemento che rende difficile una lettura in chiave tolemaica dell’opera di Riminaldi è lo sforzo di introdurre, attraverso la tecnica della prospettiva tonale, un’illusione di infinita progressione nel cielo, un richiamo, forse non voluto, ma possibile delle teorie di Giordano Bruno arso vivo quasi trent’anni prima a Roma in Campo dei fiori, un richiamo, attraverso l’illusione poliprospettica, all’idea dell’infinito del nostro mondo e all’infinità dei mondi. Si può poi osservare che la perfezione dei cieli è incrinata dalla disattenzione con cui gli angeli musicanti eseguono i loro pezzi, alcuni sono distratti, parlano tra loro e sembra quasi che ciascuno suoni per conto proprio. Sembra un’orchestra terrena in un momento di pausa e non un’orchestra celeste. I rifermenti poi al mondo terreno sono molteplici, a partire dalla gestualità di alcuni personaggi che additano il basso a indicare i fedeli, non tutti come vorrebbe l’universalismo cristiano, ma i pisani raccolti nello spazio della chiesa riservato a loro, nella navata centrale magari intenti a pregare con atteggiamento di supplica. Sono ai bordi, nell’area riservata agli spettatori, ma sono partecipi grazie anche al ruolo giocato dall’intercessione, dalla richiesta rivolta a Dio, tramite la Madonna, di protezione, di aiuto, continuamente evocata nel dipinto come uno dei temi dominanti. C’è chi presenta un modellino della città di Pisa, c’è chi ne sventola il gonfalone, c’è San Ranieri patrono di Pisa, che indica, rivolgendosi a San Pietro, verso il basso, verso la città e i suoi abitanti, e San Pietro che guarda la Madonna come a dire che è a lei che San Ranieri deve rivolgersi per invocare aiuto per i suoi concittadini; lo stesso cerca di fare San Torpé con San Paolo, che però si mostra più freddo. Certo il legame che si crea tra il mondo dei cieli e quello terreno è un legame di potere, un legame che dà forza alla Chiesa quale intermediario materiale, fisicamente presente sulla Terra, ma mi sembra difficile poter sostenere che viene riaffermata la distinzione tolemaica tra un mondo caratterizzato dalla perfezione dei moti circolari, dalla purezza dei corpi celesti, dall’eternità e un mondo sublunare destinato a finire con il Giudizio Universale, che ospita moti violenti lineari destinati ad esaurirsi, caratterizzato dal continuo mutamento e dall’imperfezione. I due mondi interagiscono e la modernità introdotta innanzi tutto dalla scienza si affaccia sempre più con insistenza anche nel campo dell’arte unificando i due mondi. Certo in questa prima fase più che di unificazione si può parlare di contaminazione e a conferma dell’apertura di tale dialogo troviamo a Roma un’altra volta dipinta, quella di Ludovico Ciardi detto il Cigoli In una delle basiliche papali, nella Cappella Paolina all’interno di Santa Maria Maggiore a partire dal 1610.
La scena rappresentata non è ben identificata. Alcuni pensano che sia rappresentata l’Assunzione, altri l’Immacolata Concezione, altri ancora la donna dell’Apocalisse, descritta, appunto, nel capitolo 12 del libro dell’Apocalisse di Giovanni. L’iconografia delle tre varianti però non è molto dissimile perché alcuni teologi hanno intrecciato i significati dei vari simboli nelle loro interpretazioni, rileggendo, ad esempio, le dodici stelle che simboleggiano le tribù d’Israele con i dodici apostoli. Un simbolo in particolare riveste una notevole importanza nell’affresco, la Luna, una Luna che dovrebbe essere associata alla purezza collegata alla natura di astro perfetto, liscio e incorruttibile. Ma la Luna che Cigoli dipinse non era quella che forse i committenti si aspettavano. Era una Luna imperfetta, con macchie, ombre, avvallamenti. Era la luna descritta da Galileo, la Luna che si trova nelle stampe del Sidereus Nuncius pubblicato il 13 marzo 1610: «In primo luogo diremo dell’emisfero della Luna che è volto verso di noi. Per maggior chiarezza divido l’emisfero in due parti, più chiara l’una, più scura l’altra: la più chiara sembra circondare e riempire tutto l’emisfero, la più scura invece offusca come nube la faccia stessa e la fa apparire cosparsa di macchie».
Il Cigoli era a conoscenza delle scoperte di Galieo, si erano conosciuti a Firenze ed erano rimasti buoni amici. La citazione delle scoperte di Galileo era evidente tanto che Federico Cesi, uno scienziato fondatore dell’Accademia dei Lincei e amico di entrambi scrisse a Galileo che Cigoli “s’è portato divinamente nella cupola della cappella di S. S.ta a S. Maria Maggiore, e come buon amico e leale, ha, sotto l’immagine della Beata Vergine, pinto la Luna nel modo che da V.S. è stata scoperta, con la divisione merlata e le sue isolette”.
La cosa più sorprendente è però che l’affresco non sia stato censurato da quelle autorità ecclesiastiche che dopo pochi anni misero sotto processo Galileo per le sue idee e lo costrinsero ad abiurare. Secondo alcuni la Chiesa adottò una tattica di prudenza evitando di chiarire il significato dei simbolismi adottati nel dipinto e in particolare i riferimenti all’Immacolata Concezione. Sta di fatto che l’affresco di Ludovico Cardi è la prima opera, nella storia dell’arte, a rappresentare la luna secondo le scoperte di Galileo inserendosi in un percorso che avrebbe portato all’affermarsi del mondo moderno in tutti i campi della società. È evidente come le autentiche rivoluzioni culturali non sono costituite da improvvisi salti, ma da lenti moti in parte visibili e in parte sotterranei che non stravolgono ma ristrutturano la cultura, ridefiniscono i confini e le funzioni, ridisegnano la geografia degli ambiti, come è accaduto per la scienza e la religione, la fede e la razionalità nel momento in cui la modernità si è affermata.
Oltre al suo contenuto innovativo legato alla presenza della rappresentazione galileiana della Luna, la volta dipinta da Cigoli è, come vedremo, la prima cupola romana dipinta con una scena unificata, e per questo rappresenta, come vedremo, un altro elemento innovativo, la prima cupola barocca romana anche se l’opera non riuscì perfetta a causa di errori nella prospettiva che determinarono un eccessivo allungamento delle figure nel momento in cui vengono guardate dal basso, tanto che Cigoli voleva ridipingerla.
Per tornare al dipinto di Riminaldi, avevo già visto una rappresentazione simile nella cupola del Duomo di Parma, dipinta da Correggio più di un secolo prima. Da incompetente per quanto riguarda la storia dell’arte, mi sono chiesto se tra le due opere, nonostante la distanza di un secolo che le separa, ci fossero dei legami. E da lì è partita una ricerca sulle varie rappresentazioni artistiche dell’Assunzione di Maria. Non tutte ma quelle che più mi hanno colpito.
Nelle prime rappresentazioni che ho rintracciato, credo che l’spetto più interessante sia il fatto che non è Maria che sale al cielo al centro della scena come accade nel dipinto di Riminaldi, ma piuttosto il suo momento terreno, il momento della morte, della dormizione, del passaggio materiale dalla vita terrena a quella celeste. Sono rappresentazioni in cui prevale il momento narrativo, molto vicine alla vita quotidiana, al rapporto con la morte vissuto umanamente con al più una citazione dell’ascesa al cielo dell’anima rappresentata spesso in forma di bambino.
Una di queste rappresentazioni è quella che si trova nella Basilica San Pietro a Civate, in provincia di Lecco. Uno stucco che risale all’ XI secolo che ha al suo centro una Maria dormiente, a destra Gesù con i Santi, e sopra due piccoli angeli che prendono con loro l’anima di Maria raffigurata come un bambino avvolto da un panno. Il luogo di destinazione sembra la città rappresentata sulla sinistra, forse Gerusalemme.
Un’altra rappresentazione che ho trovato è il rilievo in cotto della Dormitio Mariae di Adria, in provincia di Rovigo, nella basilica di Santa Maria Assunta, detta “della Tomba”, risalente al XIV-XV secolo. La scena rappresentata sembra una veglia funebre per una qualsiasi donna, tranne che tutti coloro che circondano Maria sono uomini e più precisamente gli apostoli (non so perché 13 e non 12, forse è compreso anche Paolo).
A Sampeyre di Stroppo, in provincia di Cuneo, nella isolata cappella della Natività risalente al sec. XIV c’è una sorta di riassunto delle vicende narrate nel racconto apocrifo dello pseudo Giuseppe d’Arimatea. Sono rappresentati in particolare il momento della Dormitio quando Maria muore sul letto attorniata dagli apostoli e Cristo che, seguendo un’antica tradizione iconografica, appare avvolto in una mandorla mentre accoglie l’anima della madre raffigurata come bambino; a lato, quasi come un secondo capitolo della narrazione distinto dal primo, l’Assumptio dove Maria in anima e corpo viene portata dagli angeli in cielo su un telo bianco e lascia cadere la sua cintura all’apostolo Tommaso ancora una volta incredulo di fronte ad una resurrezione, lo raccoglie inginocchiato. Rispetto al racconto di Giuseppe d’Arimatea, manca il tentativo di profanare il suo corpo da parte degli abitanti di Gerusalemme, episodio che invece compare in altre rappresentazioni come nella Dormitio Virginis nella chiesa di Santa Maria Assunta di Riccia, in provincia di Campobasso, in un dipinto attribuito a Silvestro Buono e realizzato intorno al 1480.
Un secolo pima della rappresentazione di Adria, Cimabue nella Basilica superiore di Assisi intorno al 1278 aveva già nella rappresentazione dell’Ascensione, dopo aver raffigurato i momenti del Trapasso e della Dormitio Virginis in due scene attigue, lasciato vuoto il letto di morte, concentrandosi sul corpo di Maria già assunto in cielo racchiusa, in una cornice a forma di mandorla trasportata in alto dagli angeli. Chiara Frugoni (C. Frugoni, Donne Medievali, Bologna Il Mulino, 2021) nel descrivere la scena, coglie comunque ancora il prevalere della dimensione umana della Madonna, madre di Cristo “Maria risorta anima e corpo si stringe a Cristo in un abbraccio struggente che la porta a scivolare in braccio al Figlio. Infatti non solo Cristo abbraccia la madre ma lascia che la gamba e il piede sinistro di Maria si sovrappongano alla sua gamba”. Come si vede bene dal disegno ottocentesco di Johann Anton Ramboux, riprodotto nel libro di Chiara Frugoni, l’atteggiamento di entrambi, della madre e del figlio, è pieno di umana tenerezza che sconfina nel duplice rapporto di madre e sposa da parte della Madonna e di Padre e Figlio da parte di un Dio avvolto dal mistero della Trinità.
Niente di tutto ciò è rintracciabile nell’Assunzione del Duomo di Pisa. L’aspetto dominante è quello descrittivo, anzi istantaneo e scenografico. Viene rappresentato l’istante che precede l’incontro o l’abbraccio tra Maria e Gesù. La Madonna ha assunto dimensioni e pose che la pongono già nell’area del sacro, del distacco dalla dimensione umana.
La scena è quella dell’accoglienza di Maria in cielo, uno schema iconografico che è incentrato sulla figura di Maria con le braccia aperte che è condotta in Paradiso sulle nubi da angeli, alcuni dei quali musicanti, e attesa da Gesù o da Dio stesso e comunque dalla Trinità che provvede alla sua incoronazione. Esempio di tale schema credo possa essere la pala d’altare di Tiziano Vecellio, dipinta nel 1518 che si trova nella Chiesa dei Frari, a Venezia. È lo schema che è stato riutilizzato dal Correggio per affrescare fra il 1526 ed il 1530 la cupola del Duomo di Parma di cui ho parlato prima. Nell’affresco del Correggio ogni elemento narrativo sparisce insieme alla cancellazione della componente terrena dell’evento, prende il sopravvento l’elemento scenografico potenziato dalla visione prospettica che pone l’osservatore in basso, costretto a misurare la distanza rispetto alla scena rappresentata. Anche la prospettiva lineare viene meno, sostituita dalla prospettiva tonale per creare il senso di profondità. Il vertice della cupola è il luogo in cui la luce si concentra. A mano a mano che ci si allontana da questo punto, i colori diventano meno brillanti e più scuri e i contorni più nitidi. I personaggi sembrano sospesi nell’aria e coinvolti in un vorticoso movimento, al contrario delle rappresentazioni rinascimentali in cui i personaggi erano racchiusi entro precisi schemi geometrici dettati dall’applicazione della prospettiva lineare, come si può vedere nell’Assunzione di Maria di Francesco Botticini, databile intorno al 1475 e conservato nella National Gallery di Londra, una rappresentazione più sbilanciata sul piano dell’armonia e dell’equilibrio, ma più statica, quasi didascalica. Nell’Ascensione di Correggio domina invece la spinta illusionistica, la stimolazione dell’immaginazione alimentata da ardite prospettive aeree, scorci verticali che forse richiamano più Mantegna che Masaccio.
L’ascesa di Maria nella rappresentazione di Correggio assume una connotazione trionfale, potenziata dal roteare del corteo degli angeli e dei santi, dalla presenza di personaggi biblici a cominciare da Eva che porge una mela non più peccaminosa, ma redenta, come sembra indicare la presenza della foglia, un vortice di figure rappresentate in modo tale, quasi a formare la parete di una torre da scalare, un groviglio tale da rendere difficile, almeno per me, individuare immediatamente la figura della Madonna.
La critica ricorda che l’affresco di Correggio non piacque, era troppo lontano dal gusto del suo tempo. Alcuni studiosi di estetica, ad esempio Fabrizio Desideri nella sua Storia dell’estetica occidentale, Carocci editore, mettono in relazione la rivoluzione scientifica seicentesca e la conseguente eliminazione della sensibilità, della percezione dei colori, delle qualità della materia come fonti di conoscenza con lo sviluppo di una concezione dell’arte come espressione dell’operare umano liberato dalla funzione mimetico rappresentativa e della soggettività guidata dall’emozione, dall’immaginazione e dal gusto che sfuggono ai confini tracciati dall’universo incolore, insapore, del meccanicismo monocromo galileiano e cartesiano e al dominio della ragione scientifica. Ma questa sensibilità che si collega a concetti di bellezza e gusto riferiti al rapporto che l’oggetto instaura con la sensibilità, con la percezione soggettiva dello spettatore e la creatività dell’immaginazione in grado di far andare oltre il finito sono caratteristiche del secolo successivo e si può capire perché Correggio non piacque. Però oggi possiamo dire che Correggio ha costituito una sorta di prototipo della pittura barocca, dell’illusionismo del Barocco che ha coinvolto anche Riminaldi, pittore attivo nella Roma dei primo decenni del Seicento, a fianco di figure quali Lanfranco, Ludovico Cardi detto il Cigoli, di cui ho già parlato per la sua innovativa rappresentazione della Luna, che hanno giocato un ruolo fondamentale nella diffusione della pittura delle cupole della città dei papi e non solo di quella città.
Il modello introdotto da Correggio, infatti, viene recuperato e riproposto un secolo dopo da Giovanni Lanfranco, un altro pittore parmense emigrato a Roma per seguire la scuola di Annibale Carracci. Proprio nella città dei papi, tra il 1625 ed il 1627 Lanfranco dipinse la sua Assunzione di Maria nella cupola di Sant’Andrea della Valle. Tomaso Montanari nel suo bel libro sul Barocco riporta la descrizione del dipinto scritta nel 1672 da Giovanni Bellori, il principale biografo degli artisti dell’epoca barocca:
“Siede in mezzo la Vergine, alzata sopra un trono di nubbi e di angeli, vestita di porpora, col manto di color celeste che dalle spalle si avvolge al seno; e quasi tirata e rapita dalla divinità solleva il volto e le braccia verso il figliuolo, che luminoso scende ad incontrarla … Nel primo ordine di quella grande sfera stanno i santi fra candide nubi … chi a sedere, chi giacente, e chi si solleva applaudendo al trionfo della gran genitrice; quindi con alterni intervalli d’aria e di luce apresi il paradiso da rosseggianti, splendide nubbi, in lieta armoniosa gloria d’angeli, che si ristringono verso il punto in cori di giovinetti e fanciulli a sedere, li quali abbagliati in splendidi riflessi spiegano note e canti, con flauti, viole, timpani e varii musici strumenti. Nella sommità si allontanano in piu brevi giri, e fra’ dorati lumi maggiori si addolciscono in un’ultima luce, ove risplendono teste di cherubini, con insensibili dintorni; tantoché la soavità del colore fa sentire la melodia celeste nel silenzio della pittura … Siché, frangendosi la luce dal sommo, sparge sopra di esse i suoi raggi, conforme la degradazione, con tal modo e misura tra i termini del maggior lume e del maggior oscuro opposti che forma la soavità e ’l rilievo de’ corpi in somma unione delle parti, e senza divisione si distinguono insensibilmente. In tal modo fra quei spaziosi campi ogni figura ha rilievo, ma svaniscono li dintorni mostrando solo qualche termine di colmo, senza alcun profilo di superficie. Onde con ragione questa pittura è stata rassomigliata ad una piena musica, quando tutti li tuoni insieme formano l’armonia; perché allora non si osserva minutamente particolar voce alcuna, ma piace il misto e l’universale misura e tenore del canto. E sì come in questa sorte di musica si richiede all’orecchio una maggiore distanza, cosi il colore lontano si unisce e riesce soavissimo all’occhio … Rapisce certamente al cielo l’armonia di cosi stupendo dipinto, e nel mirarlo trascorre per l’ampia mole non mai stanco l’occhio e ’l pensiero, restandone immortale il nome del pittore, che non meno ha emulato che imitato il gran Correggio, tirando da una patria e da un cielo gli stessi influssi. Il qual premio di laude con ragione a lui si deve, se si considerano le cupole fatte avanti, particolarmente quella di Ludovico Cigoli in Santa Maria Maggiore, senza concento e modulazione, cosi l’altra di Cristofano Roncalli in Loreto; né tra quelli che dopo simili machine hanno intrapreso, alcuno è asceso ancora tant’alto con opera di pennello: siché il Lanfranco è il maestro in questo genere di dipingere.” (Riportata in: Tomaso Montanari, Il Barocco, Torino, Einaudi, 2018.)
Quello che colpisce nella rappresentazione di Lanfranco è la capacità di creare, grazie al linguaggio pittorico utilizzato, illusione, di proiettare lo spettatore in un mondo illusorio e teatrale, dove illusione non significa inganno, ma liberazione del potere di immaginazione, della capacità di sognare ad occhi aperti, senza perdersi nella scena, ma gustando il piacere di trovarsi a cavallo di due mondi, quello fantastico prodotto dal dipinto e quello reale che sta sotto i piedi. La volta diventa una rappresentazione teatrale del cielo con i suoi abitanti umanizzati impegnati a dialogare tra loro, avvolti da un vortice che li spinge sempre più in alto verso la luce del centro della cupola dove c’è Cristo a braccia aperte che li aspetta. È una sorta di istantanea dove ognuno è colto in un preciso momento caratterizzato da un gesto, il gesto proprio di una scena teatrale congelata oggi diremmo da uno scatto che annulla il tempo. Per realizzare tutto ciò Lanfranco, come Correggio, utilizza vari accorgimenti, sfuma le figure, applica la prospettiva tonale, privilegia la visione globale rispetto alla precisione dei dettagli. È in sostanza il Barocco che si afferma.
Riminaldi, tra il dicembre del 1628 e il marzo del 1629, quando i lavori per la decorazione della cupola del Duomo di Pisa erano già avviati, compie un viaggio a Roma, pochi mesi dopo l‘ultimazione dell’opera di Lanfranco, ed è quindi probabile che durante tale viaggio abbia visitato la chiesa di Sant’Andrea della Valle e abbia così seguito una sorta di corso di “aggiornamento”, come lo definisce R.P. Ciardi. Ecco che allora i legami il dipinto del Correggio e quello del Riminaldi prendono corpo. C’è un filo che unisce la cupola del Duomo di Parma, quella di Sant’Andrea della Valle a Roma e la cupola del Duomo di Pisa ed è un filo che porta direttamente all’interno della produzione artistica del Barocco, quella delle cupole non più suddivise in sezioni dai costoloni che convergono verso il centro, ma dipinte con una scena unica, dei grandi affreschi, anche se quello di Pisa non è un affresco ma una pittura ad olio, che rappresentano scene sacre all’interno delle quali un posto di primo piano è giocato dall’Assunzione di Maria.
Il Barocco, ecco un altro elemento coinvolto in queste mie riflessioni. Ho sempre avuto l’immagine negativa del Barocco, come di una sorta di parassita che si aggrappava alle strutture esistenti, trasformando. Chiese romaniche riempite di stucchi, verniciate d’oro, corpi contorti, scene tragiche che nascondevano sensualità inconfessabili. Ho dovuto ricredermi di fronte ad uno dei padri del Barocco, Caravaggio. Ho dovuto ancora ricredermi di fronte all’evidenza che la grandezza del Barocco non è solo in Caravaggio ma anche un altro dei padri del Barocco: Annibale Carracci. Il Barocco come ogni periodo è da un lato un’astrazione utile per organizzare una narrazione ma dannosa perché semplifica, impoverisce la complessità. Proprio la narrazione delle vicende della conclusione della vita di Maria penso possa chiarire ciò che voglio dire. Carracci e Caravaggio hanno dipinto entrambi il momento finale della vita di Maria. Caravaggio ha scelto di dipingere la dimensione umana della morte di Maria. Caravaggio nel 1604 ha dipinto a Roma una Morte di Maria per la chiesa dei carmelitani di S. Maria della Scala in Trastevere, un dipinto che purtroppo oggi è conservato nel Museo del Louvre di Parigi perché fu rifiutato in quanto l’immagine della Madonna era priva di ogni segno mistico. La Madonna è collocata in un ambiente umile, con la Maddalena seduta su una semplice sedia che la piange. Evidenti sono i segni della morte, dalla faccia terrea, al braccio abbandonato su un lato, al ventre gonfio, ai piedi scalzi e intorno gli apostoli smarriti, piangenti, addolorati. Senza dubbio il dipinto di Caravaggio è da considerarsi rivoluzionario per il suo tempo ed è comprensibile perchè fu rifiutato dai committenti religiosi.
Annibale Carracci dipinse nel 1601 un’Assunzione di Maria per la cappella Cerasi nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma, nella stessa cappella in cui si trovano la Crocifissione di San Pietro e la Conversione di Paolo di Caravaggio. Tomaso Montanari nel suo libro sul Barocco così descrive il dipinto di Carracci cercando di immaginare cosa poteva pensarne pittore come Rubens, in quel tempo anche lui a Roma. “Al confronto con l’Assunta, le pale degli artisti di grido dovevano sembrare come appassite di colpo: esangui, impagliate addirittura, quella del Cavalier d’Arpino, bloccata nella cera perfino la visitazione dolcissima di Federico Barocci alla Chiesa Nuova, che pure Rubens aveva molto amato. Ai suoi occhi, l’Assunta di Annibale dovette evocarle subito un’altra: quella, pirotecnica, che Tiziano aveva lasciato ai Frari di Venezia, e che egli aveva visto mesi prima: lo stesso modo di macchiare d’ombra i volti degli apostoli, la stessa energia vitale, lo stesso trionfo del colore. Anche se la luce, in Annibale, era più fredda e il golfo di sole che dilaga intorno alla testa della vergine non la consumava, come a Venezia, ma la ritagliava facendola spiccare come una porcellana. Man mano che si avvicinava, poi, Rubens poté notare tutto quello che in Tiziano non c’era: una costruzione di corpi intrecciati, e gesti parlanti degli apostoli, eloquenti come filosofi antichi intenti in una disputa. Questo, e Rubens lo vedeva molto bene, veniva invece da Roma: veniva dalle Stanze Vaticane, dove Raffaello aveva resuscitato l’antico, prestandogli morbide carni. Solo Annibale sapeva tenere insieme Tiziano e Raffaello: e usandoli per costruire qualcosa di nuovo. Né in Tiziano né in Raffaello Rubens aveva mai trovato quel senso, come violento, di moto: l’Assunta di Annibale doveva sembrare sparata fuori dall’aria compressa di quella tela troppo bassa, come un bolide solido lanciato dalle profondità del quadro nello spazio della Chiesa, e più verso lo spettatore che avanza nella navata che non verso un cielo metafisico.
In queste parole c’è la sintesi di che cosa è la complessità sta dietro un’opera d’arte e che la classificazione sulla base di periodi e di generi nasconde. Una rete fitta di rimandi, di imitazioni, di citazioni sulla quale si innestano modifiche, novità, prodotti dell’immaginazione che producono qualcosa di mai visto prima, qualcosa che sconvolge e travolge la tradizione fino a crearne un’altra. La lettura di un’opera è come un lavoro di tessitura, di ricostruzione della trama che le sta dietro fino a vederla con altri occhi, con un altro sguardo. Caravaggio e Carracci pur nella loro profonda differenza di stile, l’idea della pittura, di rapporto con il mondo che li circonda, sono entrambi padri del Barocco, una stagione artistica all’interno della quale scorrono arterie diverse, destinata a raggiungere parti del corpo artistico differenti in tempi differenti. Una tradizione critica, della quale forse il più noto rappresentante, sulla scia di Roberto Longhi, è Giuliano Briganti, vedeva nel Barocco due filoni, quello rivoluzionario e rivolto al futuro, al moderno rappresentato da Caravaggio, e l’altro conservatore rivolto al presente rappresentato da Bernini. Tomaso Montanari conclude il suo saggio La libertà di Bernini con una sorta di interrogativo legato a un’opera di Boccioni del 1913, Dinamismo di un corpo umano, studio dall’Apollo e Dafne di Bernini, chiedendosi perché “Umberto Boccioni verificava la storia del dinamismo umano, dei muscoli velocità e delle forme uniche di continuità nello spazio disegnando a villa borghese, proprio l’Apollo e Dafne di Gian Lorenzo Bernini”.
Riminaldi percorre entrambe le strade, sia quella aperta da Caravaggio, su impulso di Aurelio Lomi Gentileschi, sia quella di Carracci. Certo l’Assunzione pisana è più vicina all’Assunzione di Carracci che alla Morte di Maria di Caravaggio. Come ricorda Pierluigi Carofano in Orazio Riminaldi, un artista pisano tra Caravaggio e Classicismo (La Circolar parete op. cit.) forse Riminaldi condivide le osservazioni di monsignor Giovanni Battista Agucchi, scrittore ed esperto d’arte che pensa che Caravaggio abbia “lasciato indietro l’idea della bellezza, disposto di seguire del tutto la similitudine“. Riminaldi forse comprende la forza della novità della pittura di Caravaggio, ma non si lascia coinvolgere fino in fondo e si sposta verso una sorta di mitigazione della carica innovativa della pittura caravaggesca grazie al recupero del classicismo di Domenichino e Guido Reni. È comprensibile perché oggi, dopo la stagione del naturalismo, del verismo, del realismo, del neorealismo, dopo Velazquez, Goya, Manet e gli impressionisti sentiamo, o almeno sento, più vicino il dipinto di Caravaggio rispetto a quello di Carracci e perché non è stato facile apprezzare d’intuito Riminaldi. Ma il suo percorso formativo e artistico, anche se breve, è rivelatore di una delle caratteristiche più interessanti della sua epoca: l’incertezza di fronte al nuovo, l’oscillare che caratterizza l’innovazione, l’avventura avvincente del pensiero umano e dei suoi prodotti, l’arte, la filosofia, la scienza, la religione, un’incertezza che non produce un blocco, ma apre un itinerario imprevedibile, innovativo, non imbalsamato nella ripetizione.
Questa imprevedibilità, questa ricchezza nascosta dietro ogni opera, questa capacità di mettere in crisi anche le convinzioni più radicate ma fondate sulla semplificazione, sulla certezza che ha reciso le radici su cui poggia, radici che affondano i loro rami contorti nelle profondità di un terreno inesplorato è ciò che costituisce il fascino del pensiero. Sono consapevole che il mio sguardo rivolto verso l’assunzione di eliminare di uno sguardo soggettivo, mosso da interessi forse lontani da quelli stanno dietro la storia dell’arte. È uno sguardo sollecitato dalla curiosità di capire le immagini e il loro rapporto con noi, con la nostra esistenza, con la società in cui sono state prodotte e con quella in cui viviamo. Non è uno sguardo erudito. Lo sguardo di un incompetente curioso, che non si era mai accorto della presenza del dipinto della cupola del Duomo, che aveva un’immagine negativa del Barocco, l’immagine che gli impediva di vederne la ricchezza e la fecondità. Lo sguardo di un non credente interessato a capire qualcosa di ciò che sente estraneo come la fede, una curiosità che può aiutare ad apprezzare un’enorme quantità di cose che ci circonda è rispettare chi la pensa in modo diverso da noi.
Un’ultima osservazione del tutto estranea al tema. La ricerca di informazioni su Riminaldi mi ha portato a scoprire, anzi a riscoprire un mio vecchio amico di gioventù appassionato come me di pallacanestro ed entrambi giocatori mediocri ma soddisfatti di poter giocare in libertà dove e quando volevamo su campi malandati con noi stessi come pubblico, Franco Paliaga, insegnante e studioso di Riminaldi e autore di importanti contributi sul pittore pisano. Ricordo il ragazzino riccioluto con i capelli biondi e ispidi, magro, irrequieto, introverso, con cui non era semplice parlare a meno che non fosse lui a volerlo, talvolta ribelle anche oltre i limiti, ma evidentemente curioso, dotato di una sua potenziale ricchezza che forse è riuscito ad esprimere. Il ricordo di quel ragazzino è un altro regalo che devo a questo dipinto oltre allo stimolo in questa sorta di letargo dovuto alla pandemia ad agitare un po’ il mio pensiero dormiente.
massimocec gennaio 2022
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