I miei itinerari pisani non sono itinerari per turisti ma itinerari suggeriti dalla memoria e dai ricordi.
La prima tappa è la piazza Vittorio Emanule II. Qui il ricordo agisce come fonte di smarrimento. L’attuale piazza Vittorio Emanuele II non è la piazza dei miei ricordi. Io ricordo una piazza coperta dalla chiome dei pini abitate negli ultimi tempi da un’enorme quantità di uccelli capaci di emettere un suono continuo tra il sinistro e il familiare a seconda dell’umore di chi ascolta, un Vittorio Emanule seminascosto dagli alberi e perciò irrilevante nonostante il suo atteggiamento tronfio, mentre ora troneggia dall’alto del suo piedistallo con uno sguardo minaccioso che arriva fino alla Stazione centrale. Ricordo una piazza anello di traffico continuo e soprattutto di autobus. Quando ero bambino era la piazza dove arrivava il filobus che portava da casa mia alla stazione del trammino per Marina, e dove la sera dopo una giornata di mare aspettavamo lo stesso filobus per tornare a casa, io, mio fratello, mio padre e mia madre, pantaloncini corti, magliette variopinte, sandali.
Ora le esigenze di manutenzione turistica e di abbellimento hanno portato alla scelta di eliminare gli alberi e di creare sotto i piedi del rinato Vittorio Emanule un parcheggio sotterraneo. Certo ora la piazza è dei pedoni, ma lo sguardo di Vittorio Emanule continua a non piacermi.
Guardando corso Italia sulla sinistra c’è una pizzetta. È proprio dietro la chiesa di Sant’Antonio. Su un muro della chiesa c’è un murale realizzato da Keith Haring nel 1989 che lo stesso Haring avrebbe intitolato “Tuttomondo” (è noto che Haring di solito non attribuiva un titolo ai suoi lavori perché destinati a sparire in breve tempo). Haring avrebbe detto, secondo quanto l’ormai universale fonte di informazioni Wikipedia riporta:
«Titoli? Una domanda difficile, perché non do mai un titolo a niente… Nemmeno questo dipinto ne ha uno, ma se dovesse averlo sarebbe qualcosa come… Tuttomondo!» |
Il titolo proposto dall’autore, direttamente in italiano, vuole forse esprimere a parole un significato simbolico in cui in un futuro mondo possibile gli ideali dominanti siano unitarietà e pace? Se è così allora posso dire che condivido ma mi è più difficile dire “mi piace”. Ancora il difficile rapporto tra il bello e il bene si ripropongono a dispetto di Platone e di Plotino. Non riesco a vedere la necessità del loro legame e ancor meno con il vero.
Abbandonando la riflessione filosofica e tornando al valore delle apparenze come realtà che tocchiamo, vediamo e con cui dobbiamo fare i conti, si può dire che il murale misura circa 180 metri quadrati (18 x 10) ed è forse, per quel che ne so, il più grande murale mai realizzato in Europa. È anche l’ultimo lavoro realizzato da Haring, morto nel 1990 a soli 32 anni di AIDS.
Sempre la solita fonte universale (ma non si sa quanto attendibile) dice che “Keith Haring incontrò a New York un giovane studente pisano che lo invitò a trascorrere un periodo di soggiorno nella città toscana. Qui l’artista ebbe l’idea di realizzare un murale: l’unico spazio disponibile era una grande parete esterna, posta sul lato nord della chiesa di Sant’Antonio, semidistrutta durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Grazie all’accordo raggiunto tra l’artista, il Comune e il parroco del convento (il quale, pur essendo a conoscenza dell’omosessualità dell’artista, gli concesse l’utilizzo del muro del convento), si procedette con la realizzazione dell’opera.”
Ancora la stessa fonte ci informa che “l’artista realizzò il suo lavoro nel giugno del 1989, in soli quattro giorni. Dopo aver imbiancato l’intera parete e aver disegnato in nero i contorni delle figure, Haring completò il murale colorandolo con l’aiuto di alcuni studenti e di alcuni artigiani di un’azienda di vernici, Caparol Center di Vicopisano, che aveva donato la vernice necessaria alla realizzazione dell’opera”.
Nei suoi Diari, l’autore ha riportato l’entusiasmo di quei giorni per il cibo, la città e le reazioni della gente:
«Il tempo era bellissimo e il cibo ancora meglio. Ho impiegato quattro giorni per dipingere. Sto in un albergo direttamente di fronte al muro, così lo vedo prima di addormentarmi e quando mi sveglio. C’è sempre qualcuno che lo guarda (l’altra notte anche alle 4 del mattino). È davvero interessante vedere le reazioni della gente.» |
Il bello è che io non sapevo niente di tutto ciò. In quegli anni frequentavo poco Pisa, lavoravo a Pietrasanta e giravo per la città raramente. Avevo perso un po’ i legami anche con i miei amici e nessuno mi aveva parlato di quest’opera un po’ nascosta che era stata realizzata in quell’anno in cui io e Pisa stavamo riflettendo autonomamente sui nostri destini come talvolta accade alle coppie in crisi.
Ho scoperto il murale per caso dopo qualche anno, quando sono ritornato a lavorare nella mia città. L’ho scoperto e contemporaneamente mi è stata fatta notare la mia ignoranza. “Come non sai che cosa è?”. Non lo sapevo e quando l’ho visto devo dire non ci ho capito granché. Il passaggio dalle figure disegnate al loro significato credo metterebbe in difficoltà anche studiosi come Aby Warburg o come Erwin Panofsky, padri dell’iconologia.
Un’altra scoperta legata al periodo in cui sono tornato a lavorare a Pisa è la cappella Sant’Agata. Si trova in una zona che ho sempre frequentato poco perché per me un po’ fuori mano. Quando sono rientrato a Pisa come dirigente dell’Istituto Comprensivo Toniolo, che si trova proprio tra Sant’Antonio e Porta a Mare, sono stato in qualche modo costretto a fare conoscenza anche con questa parte di Pisa, ed è stata una conoscenza piacevole. Alla cappellina di Sant’Agata si arriva percorrendo una serie di viuzze un po’ insignificanti perché circondate da palazzi ricostruiti negli anni Cinquanta o Sessanta. Tutta la zona era stata infatti bombardata durante l’ultima guerra. All’improvviso, dopo l’ultima svolta dietro uno di questi palazzi, compare un muro di mattoni e una piazzetta sulla quale si affaccia l’abside di una chiesa romanica stupenda, la chiesa di San Paolo a Ripa d’Arno. È una cappellina ottagonale in mattoni rossi che secondo gli studiosi risale al 1063, anno in cui i pisani conquistarono Palermo. Mi sono innamorato di questa chiesetta abbandonata, maltrattata, sconosciuta e ignorata. Non ha la pomposità degli altri edifici ecclesiastici pisani e anche la chiesa che l’affianca sembra voltarle le spalle.
Proseguendo per la stradina che fiancheggia la piazzetta si arriva alla monumentale e alberata piazza San Paolo. Da qui si possono raggiungere le spallette dell’Arno e vedere da un lato una villa liberty simbolo della natura del quartiere, un quartiere di benestanti almeno fino ad un certo periodo, e dall’altro la Cittadella, una sorta di piccola fortezza che vegliava sull’ingresso al vecchio porto pisano. A fianco della Cittadella si trovano i vecchi arsenali dell Repubblica pisana dove i mercanti portavano le loro navi al rientro dai lunghi viaggi per il Mediterraneo. È un luogo che mi ha sempre affascinato anche se fino a poco tempo fa era un luogo lasciato all’abbandono. Il porto con le sue catene che ora si trovano nel Camposanto vecchio in piazza dei Miracoli, i racconti dei pirati saraceni che minacciavano Pisa, gli arsenali pieni di navi, di merci, di persone, di storie. Di tutto ciò, delle imprese marinaresche, oggi rimane solo la Canottieri Arno, una gloriosa società sportiva che consente ai pisani volenterosi e robusti di continuare a mantenere un rapporto attivo con l’acqua e i remi. E la vicinanza tra la Cittadella e la Canottieri Arno sembra alludere a questa relazione oramai esile tra i pisani e l’acqua.
Dalla cittadella, passando per le viuzze della parte nord di Pisa si arriva prima in via Roma e poi in via Santa Maria, due strade parallele che congiungono lungarno con Piazza dei Miracoli. Da via Santa Maria nei pressi di Piazza dei Miracoli, prima della chiesa di San Giorgio ai Tedeschi, una chiesa in mattoni, si può accedere a via Della Faggiola, un luogo interessante perché in una dei palazzi di questa strada ha vissuto per un certo periodo di tempo Leopardi e sembra anche che in queste stanze abbia composto A Silvia. Vorrei ricordare Leopardi, uno dei miei poeti preferiti insieme a Montale, Gozzano e a Rilke, con le parole di un mio caro Amico, Ovidio.
“Almanacchi nuovi, lunari nuovi. Bisognano signore, almanacchi?”, fa dire Leopardi a un venditore di almanacchi (e di illusioni) per il nuovo anno in una delle sue “Operette morali”. Passeggiando per Pisa, la seconda domenica di gennaio, mi pare che sia il massimo che si possa sperare dal nuovo anno. Penso al venditore di almanacchi mentre passo davanti all’edicola di Piazza dei Cavalieri, da dove intravedo, alla fine di via San Francesco, i Lungarni molto cari a Leopardi: “Questo lung’Arno è uno spettacolo così bello, così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente, che innamora…”.
Leopardi arriva a Pisa il 7 novembre 1827 e si trattiene fino al giugno 1828. Resta “incantato” da Pisa “un misto di città grande e città piccola, di cittadino e di villereccio, un misto così romantico, che non ho mai veduto altrettanto”. Ne parla in alcune lettere alla sorella Paolina con una disposizione d’animo e di spirito poco comuni in Leopardi: “A tutte le altre bellezze, si aggiunge la bella lingua. E poi vi si aggiunge che io, grazie a Dio, sto bene; che mangio con appetito”.
Attraverso la Torre del Conte Ugolino e imbocco via della Faggiola, una stradina sulla quale si affacciano antichi palazzi “di bella architettura”. A neanche cento metri dalla Scuola Normale, in via della Faggiola 19, mi fermo davanti all’appartamento pisano di Leopardi a leggere la lapide a lui dedicata sulla facciata di Palazzo Soderini e alla via che ne reca il nome.
Giacomo Leopardi nacque a Recanati alle sette di pomeriggio del 27 giugno 1798 e rinacque a Pisa, dove ritrovò la sua forza creativa: “dopo due anni, ho fatto dei versi quest’aprile; ma versi veramente all’antica, e con quel mio cuore d’una volta”. Di getto, fra il 7 e il 20 aprile scrive Il risorgimento e A Silvia.
Ricordo la mostra “Leopardi a Pisa” organizzata a Palazzo Lanfranchi in occasione del bicentenario della nascita del poeta. La mostra esponeva documenti che ricostruivano la vita culturale pisana di quegli anni e alcuni libri annotati e sottolineati dal poeta, tra cui un esemplare dell’Eneide tradotta da Annibal Caro e stampata a Parigi nel 1760. Non ho il catalogo, ma conservo un delizioso libricino, Lettere da Giacomo, in cui è riportato l’autografo di “A Silvia”, con in alto a sinistra luogo e data: Pisa, 19,20 Aprile. 1828, le cancellature e le correzioni al quarto, quinto verso e sparse un po’ in tutto il testo. La prima impressione per un lettore non filologicamente attrezzato, come lo scrivente, è quella di una scrittura su cui Leopardi interviene più volte.
Riprendo il cammino lungo via della Faggiola e penso che non si debba perdere il film “Pisa, donne e Leopardi” di Roberto Merlino che verrà proiettato giovedì 13 gennaio alle 21,15 presso il Circolo Arci di Putignano.
Ho letto che alla prima del film hanno partecipato molte persone incuriosite dall’ambiente cosmopolita della nostra città e specialmente dalle figure femminili protagoniste della vita pisana dei primi decenni dell’Ottocento. Leopardi fu introdotto nei salotti pisani dove si incontravano donne bellissime e in conflitto con lo spirito dei tempi. Tra queste spicca per intelligenza l’irlandese Margaret Mason, che fondò l’Accademia dei lunatici, alla quale Leopardi partecipa scegliendo il nome di “giraffa”. Sublime autoironia. Frequenta anche il salotto di Elena Mastiani Brunacci, circondata di amanti. Fu ospite in casa di Lauretta Parra, che lasciò il marito per un uomo molto più giovane di lei.
Penso ai luoghi in cui il film è girato: Villa di Corliano, Hotel Victoria, Museo dell’Opera del Duomo e altri. E alle donne che allietarono il soggiorno pisano di Giacomino. Imbocco via Ferdinando Capponi e, dopo pochi metri, sulla sinistra, su un muro in pietra e mattoni, c’è scritto: “SILVIA TI AMO”. Una curiosa coincidenza, penso, e mi avvio verso Piazza dei Miracoli. O qualcuno ha aggiunto apposta questo “verso”. Chissà. Posso solo dire una cosa banale: la città che mi ha cresciuto non finisce mai di stupirmi.
Nota
Da molto tempo mi porto dentro questa passeggiata. Posso solo ringraziare Antonio Tabucchi e il suo Pisa. Dove Leopardi rinacque, in Viaggi e altri viaggi per avermi spinto a scriverla.”
Seguendo vari percorsi a scelta si arriva a Borgo Largo e di lì a piazza Santa Caterina (ufficialmente Piazza Martiri della Libertà). È una piazza grandissima e alberata. Originariamente al posto della piazza c’era un monastero che fu demolito intorno al 1815. La piazza fu costruita nei primi decenni dell’Ottocento come un ovale delimitato da un grande prato circondato da viali e cippi marmorei agli ingressi e un monumento al centro.
Passo quasi sempre in questa piazza di fretta, senza soffermarmi e senza pensare che in un angolo, quasi nascosta dagli alberi per chi si trova al centro della piazza, c’è la chiesa di Santa Caterina con a fianco l’ex convento dei domenicani. Lì vicino c’è anche la chiesa di San Francesco e il convento dei francescani.
Quando vedo queste due chiese e non ho troppa fretta non posso fare a meno di pensare alla vita a Pisa quando questi due conventi e i loro ospiti avevano un ruolo fondamentale. Alla predica contenuta nell’affresco de “Il Trionfo della morte” di Buffalmacco che si trova nel Camposanto monumentale in piazza dei Miracoli. Alle folle che su queste due piazze accorrevano per ascoltare le prediche del domenicano Giordano da Pisa e a quelle dei predicatori rivali francescani. Un mondo che mi ha sempre affascinato anche se il mio sguardo estremamente laico lo ha sempre colto solo nella sua dimensione antropologica. Sono stai questi affreschi che mi hanno fatto accostare alle immagini, alla ricerca dei loro significati e dei loro linguaggi.
La piazza San Francesco inoltre ha per me anche un altro significato. Nel convento che si trova a fianco della chiesa di San Francesco ho fatto la scuola media. Mi ricordo ancora il tormento dei compiti di inglese dove, soprattutto nei dettati, arrivavo a prendere anche voti con segno negativo e delle lezioni di educazione fisica, con l’angoscia che mi prendeva quando dovevamo salire sulla pertica o sulla fune. Il piacere invece di disegnare, di lavorare con la creta, di ascoltare la musica, di scrivere. I miei professori erano tutti anziani e un po’ “strani”, ciascuno aveva una sua mania, e noi li prendevamo in giro, ma ne avevamo paura. Non è stato un bel periodo. Era invece bello arrivare nel giardino della scuola e trovarsi di fronte ad una enorme quantità di piante. Quella che ricordo con maggior nitidezza è una magnolia con stupendi fiori.
Da piazza San Francesco si può tornare sui lungarni e, dopo aver attraversato il ponte della Fortezza, si può accedere al giardino Scotto che più propriamente dovrebbe chiamarsi “Cittadella nuova” per distinguerla dall’altra, la vecchia Cittadella. Fu costruita intorno alla metà del ‘400 durante la prima dominazione fiorentina e ricostruita durante la seconda dominazione dall’architetto Sangallo. Quando fu riedificata si tenne conto, una delle prime volte in Italia, delle nuove armi utilizzanti la polvere da sparo e le mura conservano traccia di tale attenzione. Oggi rimane poco della sua originaria destinazione d’uso. Al centro della fortificazione si trova oggi un ampio giardino realizzato agli inizi del XIX secolo per l’armatore livornese Domenico Scotto, che aveva comprato la fortezza messa in vendita alla fine del ‘700 dai Lorena.
Ora è un giardino pubblico grazie ad una donazione di una banca negli anni Trenta; per molti anni è stato utilizzato per rappresentazioni teatrali estive all’aperto. Lì ho visto negli anni Settanta le mie prime commedie. Soprattutto per molti anni è stato caratterizzato dall’abbandono e dal degrado, circondato da edifici distrutti dai bombardamenti e mai ricostruiti, da sterpi c rovi che avevano invaso l’area del fossato, dalla chiusura di camminatoi, locali, cortili interni. Negli anni Settanta il Partito Comunista pensò di organizzare nel giardino le feste provinciali dell’Unità. Da lì è iniziato un lavoro di recupero che ancora oggi non è terminato ma ha restituito alla città una parte del suo patrimonio.
Il girdino Scotto, insieme al viale dele Piagge, era uno dei luoghi in cui mia madre da bambino mi portava a giocare o, dopo una certa età, dove io andavo a giocare con i miei compagni, perché una volta questa libertà di spostamento si acquisiva molto precocemente. C’erano le giostre, le altalene oggi sostituite da strani aggeggi forse con una pretesa di appartenenza al mondo del design, ma in gran parte ignorati dai bambini e dai ragazzi. C’erano due grandi gabbie con uccelli, anatre, pavoni. Non c’è più il teatro, ma c’è durante l’estate un frequentatissimo cinema all’aperto che consente di rivedere o vedere i film della stagione invernale e soprattutto consente ai pisani di passare le serate estive al fresco.
A proposito di cinema, l’ultima tappa del mio itinerario è il Cinema Arsenale. Per raggiungerlo basta uscire dalla porta del giardino Scotto che si apre verso il quartiere di San Martino, vicino all’area del cinema all’aperto. Dopo aver percorso qualche centinaio di metri in via San Martino, si trova una serie di vicoli, uno dei quali è il vicolo Scaramucci. In questa vicolo c’è il cinema Arsenale. È un’istituzione storica per Pisa, è il luogo dove ancora il cinema è anche cultura. Si vedono solo i film che non circolano nelle grandi sale, talvolta i classici. Si discute di cinema.
Tiene in piedi l’Arsenale un’associazione fondata agli inizi degli anni Ottanta da giovani amanti del cinema che sopravvive in parte con i contributi dei soci e la vendita dei biglietti. È un luogo d’incontro in inverno nella sua sede storica e durante l’estate nei suoi cinema all’aperto compreso quello ospitato nel giardino Scotto.
Chiude l’itinerario una foto di due scheletri di grattacielo abbandonati che ho scoperto per caso nella zona di Pisanova. Non credo sia necessario fare ulteriori commenti.
massimocec agosto 2015