San Giuliano 1948: sciopero dei cavatori

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Testimonianze raccolte nel luglio del 1988 da Ovidio Della Croce e Massimo Ceccanti

Dello sciopero dei cavatori in paese si ricorda poco. Si sa che successe nel ‘48e che durò più di tre mesi, ma pochi sanno ricostruire con precisione la vicenda.

Narcisio Miniati, detto “Nennè”. Nato a San Paolo del Brasile nel 1902, trasferitosi a San Giuliano all’età di quattro anni dove vi ha vissuto fino alla morte. Ha lavorato nelle cave per tutta la vita. Dice del suo soprannome: così chiamavano i neonati in Brasile. Non ricorda con precisione la data della lotta e parla di uno sciopero successo prima dell’avvento del Fascismo o forse nel ‘21. Ricorda bene la durata: 105 giorni di sciopero. Racconta della solidarietà dei paesani che permise ai cavatori di resistere così a lungo: i contadini portavano agli scioperanti uova e verdure; i bottegai facevano credito senza problemi, alcuni non hanno più pagato il debito, altri sì ma con sacrifici. Nennè pagò il suo debito al Garzella grazie ad una vincita di mille lire al lotto e dice: mio padre aveva giocato i numeri che aveva letto sulla targa di un’automobile. Ricorda anche l’esito dello sciopero e dice: si perse e non si ottenne nulla. Ricorda infine l’estrema compattezza dei lavoratori delle cave e dice: non c’erano crumiri.

Esiliato Garzella, detto “Zizzola”. Nel 1947-’48 era proprietario di una bottega di alimentari aperta dal 1921 e dotata anche di un forno per la cottura del pane. Ricorda bene quei tre mesi perché li ha vissuti indirettamente e dice che in bottega allora se ne parlava sempre e che ha fatto credito alle famiglie degli scioperanti. Dice di aver conservato a lungo i registri “giornalieri” sui quali segnava le spese dei clienti, dai quali risultava che poi furono in molti a non riuscire a saldare i debiti. Racconta che, anche per i negozianti, i tre mesi di sciopero furono molto duri, perché quasi tutti gli abitanti di San Giuliano allora lavoravano nelle cave.

Ugo Chericoni. A quel tempo viveva a Palazzetto, davanti alle cave. Ha iniziato a lavorare nelle cave e c’è restato fino al 1954, tranne una breve parentesi, negli anni Trenta, in cui lavorò all’estero. Lavorava alla cava di Mario Favilla e svolgeva il compito di “rompitore di pietre” con la mazza di ferro. Parla anche delle altre mansioni che svolgevano i cavatori: minatori, fornaciai, manovali. Di quei tre mesi di sciopero ricorda soprattutto la solidarietà dei contadini e dei bottegai e che i cavatori dovettero sopportare tanti sacrifici e dice: per sopravvivere si andava a pescare.

Linda Cei, nata a Gello nel 1899 e dal 24 aprile 1924 sposata con Ugo Chericoni. Ha lavorato per alcuni anni in una fabbrica di tessuti a Gello. Ricorda le difficoltà economiche legate allo sciopero e dice: spesso si andava a cercare verdure e frutta dai contadini.. Parla delle cave come unica attività economica di San Giuliano di allora accanto all’agricoltura. Ricorda l’esistenza di due manifatture: una a Gello e una vicina alla Fontina.

Lindoro Zacchi, nato nel 1908 a Asciano. Ha lavorato nella cava del Favilla dal 1927. Ricorda chiaramente i 105 giorni di sciopero. Parla del ruolo importante che, nel corso della lunga lotta dei cavatori, svolse la Camera del Lavoro che aveva sede nel Parterre. Iscritto al Pci fin dal ‘36, ricorda le riunioni clandestine, di notte, nelle cave, in cui si discuteva di problemi politici generali, primo fra tutti: come rovesciare il regime fascista. E dice: queste  è la testimonianza di come nel paese, fra i cavatori, anche sotto la dittatura fascista, rimasero vivi ideali socialisti e tendenze antifasciste.. Ricorda bene la serrata che si verificò nella fase finale dello sciopero, che durò una quindicina di giorni, e l’arrivo della polizia davanti alle cave. Secondo Zacchi, durante lo sciopero, il sostegno da parte del sindacato non fu sempre adeguato e non ci fu il sostegno degli altri settori dell’edilizia. E dice: i muratori non scesero in sciopero con noi, mentre noi facevamo sempre sciopero con loro. Anche Zacchi ricorda la solidarietà del paese, parla dei “chiodi” dai bottegai e delle “girate” dai contadini a chiedere sostegno. Da tutti veniva appoggio e incoraggiamento a continuare la lotta: non cedete, ci dicevano. Tutti i cavatori, circa un centinaio, aderirono allo sciopero. Anche Zacchi afferma che le cave erano allora l’unica fonte di lavoro a San Giuliano e dice che quasi sempre i cavatori dovevano mantenere l’intera famiglia, perché le donne non lavoravano. Non ricorda scontri con la polizia: i poliziotti impedirono soltanto l’ingresso dei lavoratori nelle cave. I cavatori, durante lo sciopero, andavano regolarmente sui loro luoghi di lavoro per paura della chiusura e della disoccupazione.

Silvano Ghelarducci. Crede che all’origine dello sciopero ci furono alcuni licenziamenti. La lotta fu sostenuta dal sindacato dei cavatori che cominciò a disgregarsi subito dopo, forse a causa della sconfitta subita. I cavatori furono appoggiati dal Pci e dal Psi. L’Amministrazione Comunale era di sinistra, però non aveva i mezzi per sostenere la nostra lotta. Afferma che, prima di questo sciopero, i cavatori, che a quel tempo erano tre o quattrocento, disponevano di una notevole forza contrattuale che gli aveva permesso di ottenere dei buoni contratti. L’edilizia tirava, dice, e i massi delle cave di San Giuliano servivano anche per costruire le dighe a Marina di Pisa. Ricorda che, nel periodo del passaggio degli Americani, furono questi a gestire le cave del Cristiani. Racconta un particolare simpatico: i cavatori di San Giuliano venivano chiamati dagli altri “pillaccheroni”, perché, abitando vicino, dopo il lavoro avevano subito la possibilità di lavarsi in vasche scaldate al sole, di cambiarsi, di indossare la camicia buona e di andare sul ponte a chiacchierare con gli amici. Mentre i cavatori che abitavano nelle altre frazioni dovevano tornare a casa in bicicletta. Sostiene che all’inizio la lotta consisteva nel non collaborare. Ci dicevano: andate a caricare un barroccio e noi ci si stava finché non ci venivano a richiamare. Di quei tre mesi di lotta dice: era inverno e durante lo sciopero si andava lo stesso in cava; l’8 marzo venne la polizia, ma non vi fu lo scontro, anzi riuscimmo a familiarizzare, preparammo delle frittelle di farina di castagne che offrimmo anche ai poliziotti. Dopo una o due settimane la polizia se ne andò. Ma c’era malcontento tra i cavatori per il lungo periodo di sacrifici. Ma c’era malcontento tra i cavatori per il lungo periodo di sacrifici. Qualcuno (il Pizzi) tornò al lavoro. E lo sciopero finì senza risultati.

Maria Ghelarducci. Si ricorda l’anno in cui si è verificato lo sciopero: il 1948. E anche il periodo: i primi mesi dell’anno e ribadisce ciò che ha detto suo marito Silvano: l’8 marzo arrivò la polizia; me lo ricordo bene perché lavoravo alla Forest e proprio in quel periodo fui licenziata perché mi chiesero un obolo per la Madonna e io cercai di spiegare che mio marito era in sciopero da tre mesi e non potevo dare niente. Nomina alcuni proprietari delle cave: Bertolucci, Berti, Cristiani, Favilla. Ricorda che, durante lo sciopero, vennero stampati numerosi volantini e giornali murali e che suo marito venne licenziato e poi riassunto proprio per aver affisso dei giornali murali. Anche Maria ricorda la solidarietà di tutto il paese, dei contadini e, per lo meno all’inizio dello sciopero, anche del parroco Don Alberto. Il sostegno maggiore fu dato dalla Cooperativa, precisa Maria, che ci consentì di pagare i debiti con cambiali in 15 anni.

Renzo Moriani, nato a San Giuliano nel 1917. Ha lavorato nelle cave per più di quarant’anni: dal 1933 al ‘76, prima nella cava di Berti poi in quella di Fogli. Anche suo padre faceva il minatore.

Dello sciopero, durato dal novembre del 1947 al marzo del’48, afferma che si è trattato di uno dei più importanti scioperi del dopo guerra; San Giuliano era una roccaforte del sindacato, c’è sempre stata una radicata coscienza antifascista, anche durante il ventennio. Moriani ricostruisce brevemente la situazione economica e il clima politico sangiulianesi di allora, in cui le cave risultavano essere l’unica fonte di lavoro nella zona. E dice: nel ‘47 la domanda di materiale lapideo era alta: si era nell’immediato dopo guerra e si doveva ricostruire. C’era anche un certo odio tra operai antifascisti e datori di lavoro che erano stati capetti durante il regime, ad esempio Bertolucci era stato podestà. Dopo la guerra, sostiene Moriani, i padroni locali erano stati umiliati: gli operai nelle cave avevano un notevole potere e gestivano le assunzioni; l’obiettivo era quello di arrivare a una piena occupazione di tutti coloro che nella zona volevano lavorare; tutti i disoccupati erano stati accettati e si era creata una forza lavoro eccessiva.

Sulle cause dello sciopero Moriani dice: la lotta ebbe inizio da una richiesta di aumento salariale che avrebbe potuto essere facilmente soddisfatta da padroni perché era alta la domanda di calce. Però i padroni non accettavano l’eccessiva forza lavoro impiegata nelle cave  e chiesero, in cambio di aumenti salariali, di ridurre l’occupazione. Così iniziò la lotta e, nella prima fase, che durò una quindicina di giorni, la protesta fu la non collaborazione. I padroni allora decisero la serrata e non facevano più arrivare carbone; ma gli operai, che erano sicuri che una volta spenti i forni i padroni avrebbero vinto, si preoccupavano di tenere al minimo i forni per evitare che si spegnessero. Però, dopo pochi giorni venne a mancare il carbone e fu la chiusura totale  per circa tre mesi. Nei primi tempi l’entusiasmo per lo sciopero, ricorda Moriani, fu totale, dopo iniziarono i contrasti. C’era chi voleva la lotta a oltranza, sorretta dall’idea di voler far pagare ai padroni anche quello che avevano fatto durante il Fascismo, e chi proponeva un accomodamento, un compromesso, riconoscendo che il numero dei cavatori era alto. Tra noi, dice, vi erano anche condizioni economiche diverse: c’era chi doveva mantenere l’intera famiglia e chi invece aveva anche altri familiari che lavoravano. Anche tra gli industriali c’era chi voleva farla finita con la serrata e riaprire per sfruttare la contingenza favorevole. Il primo ad aprire le trattative fu Berti, che concesse un certo aumento salariale ma assunse solo gli operai di cui aveva bisogno.

Dice Moriani: si tornò a lavorare a testa bassa e in condizioni spaventose, il padrone aveva preso in mano le redini e, dopo il 18 aprile, troncò le braccia a tutti. Qualcuno di noi fu costretto a licenziarsi e a cercare lavoro altrove, chi rimase in cava dovette accettare dure condizioni di lavoro. E il sindacato, secondo Moriani, non fu capace di aiutare i cavatori a superare il momento difficile; durante lo sciopero veniva da Pisa a parlare con i cavatori Rovero, segretario della Camera del Lavoro, ma in generale la solidarietà economica degli altri operai fu bassa, anche se qualcosa ci venne dagli operai della Saint Gobain e della Cimasa, molto invece ci fu dato dai contadini. Finito lo sciopero la Camera del Lavoro sparì; vennero cominciate a riorganizzarne le fila solo dopo tre o quattro anni; subito dopo quella batosta se qualche sindacalista si fosse presentato davanti alle cave di San Giuliano molto probabilmente avrebbe rischiato il linciaggio.

Moriani ricorda la serrata: era inverno e la mattina presto, alle cinque, andammo ad accendere le luci dei magazzini e trovammo i poliziotti che non sapevano bene che cosa fare. La sera, però, ne arrivarono altri armati con le mitragliatrici, perché avevano paura di un’insurrezione. Neanche il fascismo, sostiene Moriani era mai riuscito ad entrare nelle cave: quasi la totalità dei cavatori erano antifascisti; il fascismo lo sentivamo quando si usciva dalle cave. Tra i cavatori c’erano comunisti, socialisti e anarchici, c’era poca cultura, non conoscevamo bene le teorie, i più giovani vedevano in ciò che gli adulti raccontavano un mondo diverso e fantasioso che li spingeva all’antifascismo. Festeggiavamo il primo maggio clandestinamente: c’era molto vino e, per sfogarsi, molti si ubriacavano e legavano fazzoletti rossi alle piante. San Giuliano e Asciano erano zone rosse e sono rimaste una roccaforte per le sinistre anche nel dopoguerra. Intorno a San Giuliano la piana era zona agricola, mentre San Giuliano era centro industriale e quasi tutti lavoravano nelle cave, le Terme avevano poco personale , anche il Comune aveva pochi dipendenti. Intorno alle cave lavoravano anche altre persone: prima i barrocciai, poi i camionisti. Nella  stazione di San Giuliano sono arrivati ad esserci anche un centinaio di vagoni tra lo scarico di carbone e il carico di calce e di pietrisco. Il periodo di maggior lavoro era maggio-giugno, la stagione della calce bianca, che serviva per imbiancare, per le cartiere, ma soprattutto per ramare (gran parte dei vagoni carichi di calce erano diretti ai vigneti dell’Emilia). C’era inoltre la calce da costruzione, che veniva ricavata dalla pietra estratta dal monte e poi cotta nei forni. Il lavoro dei minatori era molto duro: prima con il piccone, poi con il martello pneumatico, legato ad una corda il minatore doveva bucare i pietroni della parete del monte per introdurvi la polvere, dopo aver bene individuato quale poteva essere il punto migliore dove piazzare l’esplosivo in modo da ottenere maggiore quantità di materiale possibile dallo scoppio. Sempre in tema di divisione del lavoro all’interno delle cave Moriani ricorda i fornaciai, che dovevano cuocere la calce e dice che era un lavoro difficile, per questo la loro paga era la più alta. Infine, rammenta gli spaccapietre e i manovali e l’esistenza di mulini per macinare le pietre.

Il modo di lavorare nelle cave non è cambiato molto nel dopoguerra rispetto al periodo fascista: la meccanizzazione è arrivata negli anni Sessanta, ma fino a quel momento c’erano ancora i barrocciai e i cavalli. Moriani dice che il periodo dello sciopero fu un periodo difficile e i sacrifici da parte delle famiglie dei cavatori in lotta furono molti. A San Giuliano c’era una cooperativa costruita negli anni Venti, nel 1924 o nel ‘25, con il lavoro volontario degli iscritti e con il materiale regalato dai proprietari delle cave. La cooperativa era gestita dai soci e chi era socio poteva comprare a credito; anche gli altri commercianti facevano credito e non respingevano nessuno. Così, ricorda Moriani, si tirava avanti, ma era duro e si andava in monte a raccogliere legna per venderla, si raccoglievano pine e si pescava, ci si dava da fare molto per comprare a pena un pacchetto di sigarette o per andare a bere un caffè. I proprietari delle cave, sostiene Moriani, avevano aderito al regime ed erano abbastanza influenti. Berti era riuscito ad evitare il confino ad un barrocciaio che lavorava per lui e che , in un momento di collera, aveva insultato Mussolini davanti ad alcune autorità. Gli altri proprietari di cave erano: Cristiani, Del Punta, Fogli, Favilla, Bechelli; in tutto si potevano contare una dozzina di aziende; ma le più grandi erano quelle di Berti e di Cristiani (sulla strada che va ad Asciano), l’azienda di Del Punta era però la più importante. Nella cava di Cristiani producevano anche il marmo, c’era una fabbrica per la produzione di mattonelle. Nel 1930 furono fatti venire da Carrara due o tre operai specializzati nella lavorazione del marmo che rimasero a lavorare lì (l’ospedale di Livorno è costruito col marmo di San Giuliano). Moriani si sofferma sulla crisi delle cave e dice che quella di Cristiani è stata l’ultima cava a chiudere, nel 1982, le prime a sparire sono state le più piccole, quelle che non avevano il mulino per macinare la calce e che dovevano venderla in zolle. La crisi delle cave si è verificata, secondo Moriani, a causa della minor richiesta di calce (nell’edilizia sono cambiati i materiali da costruzione: mentre prima si usavano calce e pietre dopo è stato introdotto il cemento). Da parte dei proprietari è mancato il tentativo di rinnovamento tecnologico; si è parlato a lungo di un consorzio tra i proprietari delle cave per costruire un cementificio, ma non è mai stato raggiunto un accordo. La crisi è iniziata negli anni Sessanta e c’è stata solo una breve ripresa tra il 1970 e il ‘75. Il periodo di maggiore attività è stato quello dell’immediato dopoguerra, in cui si raggiunse il livello più alto di occupazione (300-350 lavoratori delle cave più l’indotto (carrettieri, autisti, facchini alla stazione). Il livello tecnologico era basso, si spaccavano i pietroni con le mazze e si caricava il pietrisco sui vagoni con la forca); i padroni non avevano interesse ad introdurre le macchine.

Per finire questa lunga chiacchierata chiediamo a Moriani se ci furono scioperi durante il fascismo e lui risponde: no, non ce ne furono; mio padre, anche lui minatore, ricordava di uno sciopero avvenuto nel 1921 e i vecchi cavatori durante il lungo sciopero del 1947-’48, nei momenti di maggior sconforto, dicevano: si fa la fine del’21; anche loro furono sconfitti.

Gli chiediamo se i giornali quotidiani di allora avevano seguito la loro lotta e Moriani risponde: allora non circolavano molte notizie e non leggevamo i giornali, per cui noi avevamo solo la nostra immagine dello sciopero.

Moriani chiude la sua testimonianza parlando della solidarietà ricevuta durante lo sciopero e dice: fu totale, specie nei primi tempi: i contadini venivano a manifestare con noi portandoci dei viveri (carne, grano, frutta); poi subentrò la stanchezza e cominciarono a diminuire anche gli aiuti.

odellac settembre 2015