Il mio primo ricordo di Sant’Anna di Stazzema risale alla mia infanzia. Mia nonna aveva un’amica che abitava Valdicastello Carducci, vicino a Pietrasanta. Ogni tanto andavamo a trovarla. Visto con i nostri occhi, gli occhi del 2022 abituati a viaggi intercontinentali e alla velocità della rete, quel viaggio era breve.
Per quei tempi e per me il viaggio da Pisa a Valdicastello era un viaggio vero e proprio, una sorta di avventura. Non avevamo l’automobile e mio padre non aveva la patente e quindi dovevamo prendere prima il treno da Pisa a Pietrasanta e poi il pullman da Pietrasanta a Valdicastello. Dormivamo a casa di quest’amica di mia nonna un paio di notti. Ricordo che avevano in casa un plastico che occupava quasi un’intera stanza per il trenino elettrico, con stazioni e gallerie. Ero innamorato di quel plastico che, tra l’altro, mi ricordava il Natale perché a Pisa, in una via del centro, in via Rigattieri, un venditore di giocattoli montava nella vetrina del negozio un plastico simile durante il periodo natalizio.
Ma quello che lega questo ricordo a Sant’Anna è il racconto, se così si possono chiamare le poche parole che disse, che mio padre mi fece una volta dell’eccidio di Sant’Anna in una sera limpida di primavera, durante uno di quei soggiorni a Valdicastello, mentre stavamo passeggiando di fronte alla casa di Carducci. Ricordo che mi indicò un punto luminoso nel buio della notte su un monte davanti a Valdicastello e mi disse che lì erano state uccise dai tedeschi durante la guerra 393 persone. Non aggiunse molto altro perché penso che anche per lui quel ricordo di un fatto ancora relativamente recente fosse ancora troppo doloroso, anche perché suo padre, mio nonno, era morto colpito da una cannonata durante il passaggio del fronte. Mi raccontò anche che i cadaveri di quelle persone erano stati sepolti proprio dove si vedeva il punto luminoso. Quel racconto lasciò in me una forte inquietudine. Maturai quasi un rifiuto nei confronti del luogo dell’eccidio, forse dovuto alla presenza lì sotto di tutti quei cadaveri, anche se non sapevo cosa in realtà ci fosse dove splendeva quel punto luminoso, forse immaginavo la presenza ancora di tracce visibili, evidenti di quella tragedia assurda. Da piccolo ero molto impressionabile, ricordo che quando andavamo a Montenero a visitare il santuario, frequente gita domenicale familiare con percorso in funicolare, dove sono raccolti tutti gli ex voto, piccoli dipinti che rappresentavano incidenti di tutti i tipi, volanti di auto accartocciati e altre cose del genere, la sera non riuscivo a dormire.
La strage di Sant’Anna è ricomparsa tra le mie esperienze molti anni dopo, quando sono andato a insegnare nelle scuole prima di Ponte Stazzemese e poi di Pietrasanta. Ho scoperto in quegli anni che quella che consideravo l’immagine scontata di ciò che era successo in realtà era una memoria locale che animava contrasti politici e ricostruzioni contrapposte. Devo dire che per me, comunque, la strage di Sant’Anna è rimasta quello che era quando ero piccolo. Un evento tragico, incomprensibile e inaccettabile sul piano umano, che può destare solo pietà e raccapriccio. Non ci sono giustificazioni per una strage del genere in cui centinaia di persone inermi, donne, bambini e vecchi vengono uccisi senza nessuna colpa, anche se esistono possibilità di comprenderlo all’interno di una logica che esclude la dimensione umana, una logica che depura la ragione dalle passioni, dai sentimenti, la logica della guerra che prende il sopravvento fino a giungere alla cancellazione di tutto il resto. Certo anche tale logica fa parte dell’essere umano, del manifestarsi di ciò che è umano, ma una forma di umanità spinta verso il basso, verso la dimensione brutale dell’animalesco, anzi più in basso dell’animalesco perché gli animali uccidono per sopravvivere e per difendersi non per il gusto di uccidere. L’uomo che abbandona la sua dimensione umana arriva anche oltre l’animalesco e questo è il tragico dell’umano, la sua possibilità di negarsi semplicemente affermando una sua possibilità di essere umano. Di fronte a ciò, dobbiamo chiederci che cosa scatena tale possibilità e che cosa può ostacolarla. Qual è il ruolo di contesti come quelli creati dalla guerra e di terreni quali quelli determinati da ideologie come quella nazista e fascista.
Durante la mia permanenza a Pietrasanta, anche per doveri scolastici, ho rimosso la mia ripugnanza nei confronti del luogo della tragedia e sono riuscito ad andare, con le mie classi, a visitarlo. Ricordo che la prima volta che sono arrivato a Sant’Anna ho provato la sensazione di entrare quasi in una chiesa dove, anche se non credenti, si è invasi dal bisogno di qualcosa che si avvicina al raccoglimento, al rispetto, al silenzio.
Leggendo le pagine del libro Era un giorno qualsiasi di Lorenzo Guadagnucci, nipote di Elena Guadagnucci, morta il 12 agosto 1944 nella strage di Sant’Anna, figlio di Alberto, uno dei bambini scampati all’eccidio, libro in cui l’autore, oltre a ricostruire l’eccidio attraverso le memorie del padre, cerca di ravvivare la memoria della strage, ho rivisto le immagini che sono comparse davanti ai miei occhi la prima volta che sono stato a Sant’Anna.
“Sant’Anna di Stazzema non è uno di quei paesi come piazzetta, la chiesa e le case raccolte attorno al campanile. Nell’alta Versilia, sulle colline che risalgono verso la quale, i luoghi così ce ne sono a bizzeffe. Se ne vedono parecchie anche dal mare. Sant’Anna è diversa. E quasi irraggiungibile, posta come una specie di insenatura naturale dalla quale partono i picchi di alcune montagne, il Monte Ornato, Il Gabberi, il Lieto. (…). Sant’Anna non è un paese fra tanti, ma tanti paesi in uno. È diviso in frazioni, separate una dall’altra da rilievi e ciglioni. Argentiera, Sennari, Colle, Vaccareccia, Coletti, Il Pero, Franchi e altre ancora: ogni frazione è in realtà solo un gruppo di case, poche famiglie unite dalla comune sorte. A legare una frazione all’altra c’erano mulattiere sentieri e i suoni della campagna – grida, colpi, richiami, muggiti, scampanii – perché la vista anche nel ‘44, quando i campi erano coltivati e l’area boschiva era meno vasta di oggi, non consentiva di cogliere con lo sguardo Sant’Anna nel suo insieme. (…). A tenere unito il paese, a livello mentale oltreché materiale, c’era la chiesa dedicata Sant’Anna, con la piazzetta adiacente. La chiesetta del baricentro alle sparpagliate frazioni, punto di incontro domenicale, il luogo unificante del paese. Oggi ancora più vero di allora. Le frazioni sono tutte abbandonate quasi. L’inverno intuito Sant’Anna vivono fra le 20 e le 30 persone.”
Questo scenario si ripresenta ogni volta che vado Sant’Anna, accompagnato sempre da quel bisogno di silenzio, di raccoglimento.
Le foto della galleria inserite in questa pagina sono le foto di quello che può essere considerato una sorta di pellegrinaggio laico nel luogo del martirio, vissuto quasi come una Via Crucis da un gruppo di amici in una giornata di un maggio di un anno del secondo decennio del XXI secolo. A guidarlo c’era Lorenzo Guadagnucci. Come la Via Crucis, anche il nostro percorso lungo il sentiero che va da Valdicastello a Sant’Anna è stato la ricostruzione e la commemorazione di una vicenda dolorosa e tragica, con tappe nei luoghi materiali in cui avvenne la strage e letture di brani del libro di Gadagnucci. È stato quasi un tuffo emotivo in quel momento, tra gli spari, le grida, il fumo, gli odori. Qualcuno non è riuscito a trattenere le lacrime.
A Sant’Anna, nella piazza di fronte alla chiesa, ho provato di nuovo il bisogno di silenzio, di raccoglimento, di ascoltare solo qualche tenue parola di condivisione e di conforto, ma niente di più. Addirittura mi sembravano stonate le poche bandiere che qualcuno aveva portato con sé.
A Pietrasanta c’è una via per commemorare l’eccidio, via martiri di Sant’Anna. Non credo che i morti di Sant’Anna siano martiri perché martiri sono coloro che muoiono per difendere un ideale, una fede. I morti di Sant’Anna sono vittime innocenti che non avevano scelto la loro sorte in nome di qualcosa da difendere. Sono i difensori involontari dell’umanità, di ciò che è umano, profondamente umano, della vita. Virginia Woolf nel suo testo Le tre ghinee parla delle fotografie che il Governo spagnolo, durante la Guerra civile, inviava “Tra quelle arrivate stamani ce n’è una in cui si vede il corpo di un uomo, o forse di una donna, non si capisce bene; è così mutilato che potrebbe benissimo essere anche il corpo di maiale.” Il corpo umano mutilato senza vita perde la sua umanità, come fa notare Susan Sontag nel suo breve saggio Davanti al dolore degli altri, e la perde a causa della disumanità che l’ha ridotto in quel modo. E la vita non è un ideale, una fede, è la condizione essenziale per il manifestarsi di ciò che è umano. Togliere la vita non è solo delitto contro la persona ma è un delitto contro l’umanità.
Che i morti di Sant’Anna non siano martiri lo testimonia anche il ricordo di Alberto, il padre di Lorenzo Guadagnucci.
“La guerra sembrava lontana ma ogni tanto c’erano delle sparatorie nei monti vicini o verso la valle. Erano scontri fra tedeschi e partigiani, eppure non eravamo preoccupati e nemmeno i grandi lo erano: ci sentivamo al sicuro dalla guerra e dai pericoli che comportava. Sant’Anna era un luogo periferico, raggiungibile con fatica, un vero rifugio in giorni e settimane che correvano invece con ritmi febbrili nel fondovalle e lungo la costa, con l’esercito tedesco in ritirata, la linea Gotica in perenne costruzione, gli Alleati pronti a lanciare l’attacco decisivo. Certo in montagna c’erano i partigiani, ma anche loro facevano parte di una vicenda che non sembrava riguardarci”
Non ci sono immagini della strage, chi l’ha compiuta ha cercato di non lasciare tracce. Ci sono soltanto i resti di quelle case e le immagini tradotte in parole dei pochi sopravvissuti, quasi sempre dei bambini. Perché a Sant’Anna erano quasi tutti vecchi, donne e bambini. Era un bambino di 10 anni Enrico Pieri che scampò alla morte nascosto in un sottoscala mentre la sua famiglia veniva trucidata a pochi metri; aveva 7 anni Enio Mancini che si è salvato perché il soldato tedesco che doveva giustiziarlo lo fece scappare dopo aver sparato dei colpi in aria. Aveva 6 anni Mario Marsili che si salvò perché la mamma, Genny Bibolotti, lo nascose dietro una porta, poi tirò uno zoccolo contro il tedesco che stava per scoprire dove era nascosto il figlio e per questo fu trivellata di colpi. Era un bambino di 10 anni Alberto Guadagnucci il 12 agosto 1944.
“La mattina presto del 12 agosto -un sabato – eravamo da tutti in piedi quando qualcuno arrivò correndo e gridando: “I tedeschi! i tedeschi! “. Di lì a poco sentimmo i passi cadenzati della colonna di soldati che stava arrivando dalla parte di Monte Ornato. (…) Ad un certo punto Il nonno decise che rischiavamo d’essere coperti scoperti e così ci inoltrammo nel bosco, fino a trovare riparo in una delle tante grotte nascoste nella boscaglia intorno a Sant’Anna. La raffiche di mitra e le esplosioni continuavano, io e Arnaldo eravamo impauriti e tremanti e ci rendevamo conto, insieme ai nonni, che stava accadendo qualcosa di terribile. Restammo fermi nella grotta fino alle prime ore del pomeriggio, senza mangiare né bere. (…) Lungo il sentiero trovammo una vacca morte e altri animali fucilati polli, conigli, pecore. Arrivati alla casa vedemmo una stalla crollata per l’incendio, tra le macerie spuntavano carcasse umane ancora fumanti. Ricordo in particolare una cassa toracica che affiorava fra i calcinacci. C’era un insopportabile odore di carne bruciata. (…) Trovammo la mamma distesa per terra vicino alla fontana. Era pienamente cosciente. Aveva una ferita alla coscia sinistra, fasciata alla meglio. Le avevano costruito un riparo con dei rami di castagno per proteggerla dal sole. (…). Ritornammo alla Vaccareccia , io e l’Angiò, accompagnati da alcuni uomini. La mamma era ancora lì, adagiata sotto il riparo di rami di castagno, ma non respirava più. L’Angiò mi prese mentre urlavo come un disperato e non so se gli uomini che erano con noi la seppellirono o la lasciarono così. (…) Tante volte ho ripensato a quella giornata che ha cambiato la mia vita e distrutto quella della mamma. So di essermi salvato grazie a un episodio piccolo piccolo: la decisione di seguire Arnaldo e nonno Pasquale, disobbedendo alla mamma. Lei mi voleva tenere con sé, quella mattina, ma io non ero il tipo da obbedire subito a qualsiasi ordine.
Forse, se fossi stato un bambino timoroso, attaccato alle gonne della madre, sarei rimasto con lei e avremmo condiviso la stessa sorte: l’incolonnamento, la chiusura dentro la stalla della Vaccareccia, le bombe a mano, i colpi di mitra, l’incendio. Le sono sopravvissuto grazie a una decisione presa d’istinto quel sabato mattina, al limitare fra l’aia e il bosco. Da una parte lei che mi diceva ‘Alberto resta qui, dall’altra Arnaldo che si incamminava sulle orme del nonno: ‘Dai, andiamo anche noi’.”
Questi ricordi sono ciò che rimane di quella orrenda strage. Immagini indelebili una volta scolpite nella mente grazie alle parole dei testimoni, anche se mai viste da chi ascolta. La forza della testimonianza sta nell’aver vissuto un’esperienza e nella sua narrazione. Le immagini reali non avrebbero avuto lo stesso effetto. Ha ragione Susan Sontag quando afferma che “le fotografie non possono creare una posizione morale”. Possono tuttalpiù rafforzarla quando essa esiste già o consolidala se è in via di formazione. Le fotografie, secondo la Sontag, mobilitano le coscienze se sono legate ad una situazione storica specifica e se esiste un contesto appropriato a sentirle come stimoli. Oggi quel contesto sta sparendo. Sono passati oltre settanta anni dal 12 agosto del 1944. Tra i giovani liceali di oggi e la fine della Seconda guerra mondiale c’è la stessa distanza che c’era noi liceali degli anni Sessanta – Settanta e l’eccidio di Milano guidato dal generale Bava Beccaris. Il tempo agisce sulla memoria togliendole carica emotiva, trasformando tutto in fatti storici. Favorisce la conoscenza ma anche la perdita della carica emotiva e ciò comporta però l’incapacità di generare indignazione, rabbia, pietà, elementi necessari per far sì che quel fatto sia anche un agente attivo della storia, un mobilitatore di coscienze. Del resto ci si può chiedere se esiste qualcosa come la memoria collettiva, se esiste una memoria oltre quella fisiologica dei singoli individui. Se è così, allora con la morte dei singoli individui muore anche la loro memoria. Ciò che rimane sono le tracce sempre più labili lasciate nelle memorie di chi ha ascoltato i testimoni e gli scritti o le immagini di quel determinato evento che hanno una durata più lunga, ma che hanno bisogno di un contesto per poter funzionare come mobilitatori di coscienze. Come tenere vivo quel contesto? Come rendere stimoli in grado di agire con le loro peculiarità le parole e le immagini? È sufficiente la ricostruzione storica?
La presenza di un luogo come Sant’Anna di Stazzema, del sacrario, dei simboli disseminati in quel luogo, delle case abbandonate che conservano le tracce dell’eccidio raggiungibili attraverso sentieri e strade sterrate, delle lapidi possono costituire stimoli per ravvivare le memorie individuali sempre che ci siano persone disposte a visitare quei luoghi, permeabili al ricordo.
Ma non è il caso di dimenticare? Si può pensare che la dimenticanza sia il presupposto per fare pace, per arrivare ad una riconciliazione. Riconciliarsi con chi? Con gli autori della strage oramai quasi tutti morti o novantenni? Con i neofascisti o i neonazisti che tutto vogliono tranne la riconciliazione? Con chi crede nella violenza, nell’uso della forza come strumento per gestire sia le relazioni sociali sia quelle personali? Con i negazionisti che sostengono che i genocidi sono invenzioni e falsità? Con chi altro? In casi come quello dell’eccidio di Stazzema non si tratta di sfuggire alla pressione dei conflitti del presente che deforma la memoria, come al limite potrebbe essere la Resistenza, a sostegno della propria parte, ma di salvaguardare dei valori, i valori che caratterizzano ciò che è umano rispetto a ciò che è disumano. Eccidi come quello di Sant’Anna, Marzabotto, le Fosse Ardeatine, tenuto conto delle differenze legate alle dimensioni, sono come la Shoah, la tratta degli schiavi, l’eccidio degli armeni, i massacri nei Balcani negli anni Novanta, la strage dei Tutsi e tante altre tragedie, sono delitti contro l’umanità che non vedono una parte contro l’altra da riconciliare. Si potrebbe obiettare che anche la malvagità è una dimensione dell’umano, che anche i nazisti autori della strage erano esseri umani. Certo, ma dobbiamo distinguere la natura umana intesa come elemento dato, partorito dall’essere e la natura umana come prodotto della cultura all’interno della quale non tutto è sullo stesso piano, dove è possibile distinguere la cose sul piano etico, dove è possibile fare delle scelte. E si può scegliere anche di disubbidire di fronte a ordini che senza ombra di dubbio spingono a entrare nel baratro del disumano. Noi siamo natura e cultura e perciò possiamo scegliere da che parte stare senza farci guidare dagli istitinti o dalle passioni senza la mediazione della ragione e ancor più con la facoltà di dire no quando ci viene chiesto di compiere atti come quelli che hanno compiuto i tedeschi a Sant’Anna, ancor più quando la ricerca storica mette in luce che non sono state compiuti all’interno dell’esercito tedesco rappresaglie nei confronti di chi si è rifiutato di uccidere i civili, come è accaduto per il comandante dell’attentato di via Rasella a Roma che si rifiutò di eseguire la rappresaglia senza subire conseguenze; semplicemente furono chiamate le SS ad eseguire ciò che l’ufficiale si era rifiutato di fare.
Per inciso anche la Resistenza è una memoria che non può essere ridotta alla memoria di una parte. Fascismo e antifascismo, atto di guerra e rappresaglia contro la popolazione, dittatura e democrazia non sono sullo stesso piano. Anche in quel caso c’è un mondo di valori a confronto che non può essere ridotto a una posizione di una parte contro l’altra. Però, a fianco di tale dimensione etica, ce ne sono altre che possono essere affidate alla storia, a cominciare dalla natura della Resistenza, oltre che di guerra di liberazione nazionale contro un invasore e di guerra di classe, di guerra civile per lungo tempo negata dalla parte vittoriosa, per continuare con il ruolo della Resistenza passiva, con le diverse motivazioni di chi ha scelto di andare in montagna, con i comportamenti discutibili dei partigiani in molti contesti territoriali, con le questioni etiche sollevate di fronte ai rischi di rappresaglie cui venivano esposte le popolazioni, tenendo però sempre presente che una cosa è sul piano etico ad esempio la responsabilità delle conseguenze dell’attentato di via Rasella e un’altra è la responsabilità della strage delle Fosse Ardeatine. Il tema della memoria condivisa spesso evocato necessariamente deve confrontarsi con entrambi questi aspetti: il riconoscimento della storia come immagine intersoggettiva della Resistenza, e quindi ad esempio, il riconoscimento della Resistenza anche come guerra civile o come guerra non combattuta soltanto con le armi, e il riconoscimento della non equiparabilità dei valori in gioco. Tutto ciò è estremamente difficile che accada perché l’idea di memoria condivisa è diversa per ciascuno dei soggetti coinvolti, per gli uni significa il riconoscimento della dignità dell’avversario quando questi si è macchiato di crimini orrendi, della responsabilità della dittatura e della guerra, per gli altri il riconoscimento del fatto che la Resistenza ha generato le strutture fondamentali del nostro patto di convivenza e ha cancellato una dittatura indifendibile. Si si può riconoscere dignità a chi si è macchiato di stragi come quella di Sant’Anna? Possono riconoscere la Resistenza come elemento fondante del patto di convivenza della Repubblica coloro che ancora vedono nel fascismo un tratto fondamentale della loro identità politica?
Susan Sontag dice che ricordare è un atto etico e non un atto cognitivo. Non sono del tutto d’accordo in quanto penso che la dimensione cognitiva niente tolga all’eticità del ricordare? Aggiungerei che il ricordare è un momento della costruzione della propria identità, il momento in cui si scelgono i propri valori, e tale scelta è rafforzata non indebolita dalla conoscenza. Le celebrazioni invece talvolta offuscano la dimensione etica del ricordare quando assumono una dimensione cerimoniosa e rituale. Sant’Anna non ha bisogno né di cerimonie né di pacificazioni. Occorre semplicemente che il ricordo della strage non si spenga perché ancora ne abbiamo bisogno come comunità e come individui e che la conoscenza dei fatti conviva con la dimensione etica del ricordare. La condivisione della memoria molto probabilmente sarà il frutto del trascorrere del tempo e della lontananza emotiva e passionale da quegli eventi. Ma ciò significherà molto probabilmente che saremo entrati in un altro contesto, in un altro mondo popolato da nuovi soggetti e alimentato da altre memorie.
massimocec gennaio 2022