Un legame particolare mi unisce alle Alpi Apuane. Su queste montagne ho sperimentato le mie prime avventure da incauto alpinista, ho giocato a fare l’esploratore grazie alle prime traversate da rifugio a rifugio, ho costruito le prime relazioni, le prime amicizie basate sulla condivisione di una impresa comune, di momenti di difficoltà, di reciproco sostegno. Ero un ragazzone timido e impacciato e queste prime gite estive con pochi amici furono per me non solo la scoperta della montagna, ma anche di me stesso, dell’amicizia, del piacere giovanile di sentirsi parte di un gruppo. Partire la mattina senza avere un’idea di che cosa ti stesse aspettando, sapendo però che potevo fidarmi dei miei amici, della loro conoscenza di quei luoghi.
In quelle camminate ho scoperto l’emozione che si prova di fronte ad improvvise scoperte visive, il piacere sentirsi immerso in uno spazio visivo che ti avvolge e ti coinvolge, che ti affascina, ti emoziona. Scenari improvvisi che appaiono davanti agli occhi dopo essere arrivato ad un valico, dopo aver affrontato la salita impervia, dopo una brusca svolta del sentiero. Boschi ombrosi, canaloni, dirupi, ferrate, prati fioriti, anfratti, ruscelli, crinali. Scenari che l’immagine fotografica non riesce a riprodurre, che rende banali. Incosciente e felice, come andare sulla Pania senza attrezzatura con la neve la prima volta che sono andato in montagna, o ancora sulla Pania in una giornata di pioggia.
Ho un amico che conosce i luoghi che ho fotografato palmo a palmo come se fossero le strade del paese in cui ha sempre vissuto fin dalla nascita. Ha settant’anni, è un uomo piccolo, magro, senza una mano che ha perso a causa dello scoppio di una mina quando faceva il cavatore e continua a scorrazzare per questi monti, da solo o guidando gli altri. Spesso capita che racconti le sue avventure e le sue parole incantano chi è preso dal fascino della montagna. Le fotografie sbiadiscono di fronte alle sue parole. Mi ricorda un’altra persona della quale non riesco più a visualizzare i lineamenti. Era anche lui un settantenne e ci accompagnò, un gruppetto di giovani esuberanti incoscienti, per alcuni giorni sui sentieri intorno al Monviso. Aveva fatto lì la guerra e conosceva tutto di quella montagna. Al mattino partiva insieme a noi e ci seguiva silenzioso col suo passo lento e monotono mentre ci allontanavamo veloci. Noi lo lasciavamo indietro, scorrazzavano qua e là senza però mai perderlo di vista. Non era per paura che potesse accadergli qualcosa ma perché era la nostra guida, senza di lui ci sentivamo persi. Quando arrivava la sera e ci avvicinavamo alla meta, lui era sempre il primo ad arrivare, puntuale all’ora che aveva previsto. Anche i suoi racconti la sera nei rifugi, dopo aver cenato, ci incantavano. La parola in questi casi ha una potenza espressiva che la fotografia non riesce a raggiungere. La macchina fotografica è utile per cercare altro, per scoprire le relazioni tra gli oggetti che l’occhio non è in grado di vedere con l’ingenuo sguardo sottomesso alla forza delle emozioni, uno sguardo che si lascia trasportare dal fascino del luogo di cui ci si sente parte. Per fotografare occorre un certo distacco, una riflessione che è possibile solo se si torna più volte nello stesso posto. L’emozione del fotografo è quella che prova per il suo oggetto, per il suo prodotto, per la fotografia. La montagna è il pretesto per catturare la preda, l’immagine fotografica, ma la fotografia non può prendere il posto dell’emozione della scoperta, del trovarsi di fronte alle cose.
Oggi non vado più in montagna come facevo tanti anni fa. Lo sguardo che rivolgo a queste cime è diverso, è uno sguardo che parte dal basso e non dall’alto, uno sguardo esterno, prospettico, non filtrato dalle emozioni della conquista del luogo, dal piacere di sentirsi all’interno di esso. È uno sguardo fotografico, più monotono, meno coinvolgente sul piano emotivo, ma capace comunque di mantenere vivo l’interesse verso la montagna. Non sono un vero fotografo, non riesco a prendere le distanze dalle cose per poterle vedere come oggetti fotogenici. Il mio è comunque uno sguardo che attraversa stati d’animo, emozioni che trovano nei ricordi il loro alimento. La fotografia per me in questo caso è uno strumento per rafforzare il legame con la memoria e non il frutto di una ricerca estetica che si alimenta delle tracce che gli oggetti lasciano attraverso la luce che li colpisce. Non so fino a che punto le mie fotografie sono anche un strumento per esplorare gli stessi luoghi della memoria da un altro punto di vista, per dilatare le possibilità di comprendere visivamente ciò che abbiamo di fronte. Queste montagne sono infatti anche un luogo del presente, destinatario di una relazione che può arricchirsi anche attraverso la rappresentazione fotografica in grado di cogliere aspetti che talvolta lo sguardo umano non riesce a cogliere. Un esempio di quest’uso della fotografia è nelle foto scattate da Carlo Delli. Nelle sue foto la fotografia diventa uno strumento di ricerca visiva, di esplorazione di una realtà multiforme, complessa, quasi scoperta grazie al mirino nei suoi aspetti fantastici, improbabili. Ma io non sono ancora riuscito a prendere la giusta distanza che mi permette di usare la fotografia in quel modo.
Oggi debbo affrontare anche un altro problema, quello dell’età. Jean Marie Schaeffer nel suo testo L’immagine precaria sottolinea che la fotografia è una traccia lasciata a distanza grazie alla presenza di un medium, alla luce; la distanza è un elemento fondamentale per la creazione dell’immagine fotografica, e il fotografo è alla ricerca della distanza giusta per ottenere ciò che vuole dalla sua macchina. Nel mio caso però, nel mio rapporto con queste montagne, la distanza non è quella che il fotografo cerca, la distanza giusta, ma una distanza subita, una distanza legata al fatto che non mi avventuro più su quei sentieri. Ho l’impressione che le fotografie di queste montagne siano un po’ come le fotografie di paesaggio, quelle stupende fotografie in cui però si ha la sensazione che non accadrà più nulla, come succede guardando le foto di Ansel Adams. È come se le montagne fossero estratte dal flusso degli eventi e fissate in uno spazio asettico, immobile, senza tempo. Una sensazione che si affianca a quella che provo quando penso alla montagna come luogo in cui le persone vivono, un mondo che mi sembra fuori dalla storia, un mondo preistorico che comunica con il presente attraverso i ruderi di una civiltà che sopravvivono solo nella loro versione turistica. La fotografia registra questa morte e quella anche di interventi di modernizzazione che hanno lasciato sul terreno reperti che oramai possiamo considerare quasi reperti di archeologia industriale, tracce di un’epoca che si è esaurita. Alcune delle mie foto forse documentano ciò e sono le foto della diga di Isola Santa e soprattutto della conca di Campocatino. La prima volta, durante le mie traversate giovanili, che arrivai a Campocatino mi sembrava di essere in un paesaggio surreale, fuori dallo spazio umano, un luogo che solo i pastori con il loro gregge potevano avere abitato. Oggi sul prato che una volta costituiva una sorta di lago verde incantato circondato da ruderi disabitati che ispiravano l’immaginazione e il mistero, gruppi di vacanzieri in costume da bagno urlano, giocano con i loro ridicoli cani, cuociono enormi bistecche nei giardini di case trasformate in residenze per la villeggiatura, rubando all’anima di quel posto e alla nostra una parte dei suoi beni.
massimocec aprile 2012