Sono due i motivi per i quali San Pellegrino in Alpe, una piccola località sull’Appennino tosco emiliano, ha sollecitato la mia curiosità e mi ha convinto, in una domenica grigia e fredda, ad andarlo a visitare.
Il primo riguarda la possibilità di guardare le Apuane dal retro, dall’Appennino, e in particolare da questo piccolo borgo, il borgo appenninico più alto di tutta la catena, con la curiosità non solo di cambiare la prospettiva ma forse con il desiderio di vedere cosa c’è dietro, quasi fosse possibile guardare un quadro, una fotografia dal retro e vedere ciò che non è visibile. Sono abituato a vedere Apuane da diversi punti di vista, dal mare, da nord, da sud. Vedo spesso da Pisa quasi tutta la catena. Riconosco immediatamente la Pania della Croce con il suo ampio versante meridionale che sembra quasi uno scivolo che porta verso il Monte Forato. Affascinanti sono le immagini della Pania mentre si percorre l’autostrada nei pressi di Vecchiano o i profili che appaiono sullo sfondo della costa da Marina di Pisa a Viareggio. Mi capita anche di vedere le Apuane dalla Lunigiana con in primo piano il Sagro e il Pizzo d’Uccello, oltre naturalmente a tutti gli scorci che appaiono quando da Massa si guarda verso le montagne. Sono spettacoli diversi in ogni stagione. È sempre e comunque lo stesso volto di queste bellissime montagne, quello rivolto verso il mare e il sole, quello più arido, più scosceso, più pietroso. Sul retro so che vi sono i boschi, i sentieri ombreggiati, le nevi che, almeno fino a qualche tempo fa, rimanevano adagiate sui prati fino a maggio inoltrato e un altro profilo, a me meno noto. Altra gente, i garfagnini, forse influenzati dalla minor asperità dell’Appennino, dalla sinuosità delle loro creste e delle loro vette, sotto le quali sorgono borghi ordinati, pieni di fiori, di antichi palazzi, almeno è questa l’immagine che ho io della Garfagnana. Di qua, sul mare, i paesi sono come le montagne, più asciutti, più arroccati, più scoscesi, più duri, circondati come sono dalle pietraie, dalle ferite aperte dalle cave. Da dietro, in una domenica grigia e fredda, si vedono la Apuane come un profilo continuo che annulla i particolari, le valli, le distanze e che sollecita a riconoscere e a nominare ciascuna vetta, a richiamarne l’immagine opposta come se così fosse possibile ricavare una sorta di rappresentazione doppia e sovrapponibile di tutta la catena.
Il secondo motivo invece riguarda la via Vandelli che a San Pellegrino in Alpe scavalca la catena appenninica per passare dall’Emilia alla Toscana. Via Vandelli è un toponimo che mi incuriosisce fin da quando ho iniziato a girovagare per le Apuane, forse perché essa è in grado di far dialogore due mie passioni, quella della storia e quella della montagna. La via Vandelli è una via lunga oltre 150 km (170 se si parte da Modena) costruita nella prima metà del Settecento dall’abate ingegnere Domenico Vandelli per collegare Modena al mare, il mare Tirreno, la costa di Massa. La via è il risultato o forse anche la causa di un matrimonio in cui l’amore non ha avuto nessuno spazio, quello di Ercole Rinaldo, figlio di Ferdinando III d’Este, duca di Modena, con Maria Teresa Cybo Malaspina, duchessa di Massa e principessa di Carrara, un matrimonio che assicurò al duca di Modena il tanto desiderato sbocco sul mare e al ducato di Massa forse un certo sollievo finanziario, visto la situazione disastrosa delle casse del piccolo stato tirrenico. Fu un matrimonio pianificato dalle famiglie perché il duca di Modena costrinse alle nozze il proprio figlio a soli 14 anni. Il matrimonio fu celebrato per procura nel completo disinteresse da parte dello sposo e non ebbe un esito felice perché Ercole Rinaldo subito dopo iniziò a condurre una vita dissennata, tradendo continuamente la moglie dopo averla obbligata a trasferirsi a Modena. Maria Teresa comunque, pur soggiornando a Modena, secondo le fonti consultabili, continuò durante l’estate a tornare a Massa. Molto probabilmente nei suoi viaggi, una volta ultimata, percorreva la via Vandelli, una via che oggi conserva un suo particolare fascino, soprattutto nel tratto che da Resceto sale il passo della Tambura nei pressi della vetta del monte omonimo. Un percorso oggi percorribile solo a piedi, con un dislivello intorno ai mille metri, totalmente sotto il sole, su grandi pietre grigie posate a secco, a tratti dissestato ma nel complesso ancora conservato, con tornanti a strapiombo fino alla Finestra Vandelli, un largo spiazzo ricavato nella roccia con gli esplosivi per creare un’area di ristoro ai viandanti vicino al quale oggi sorge il rifugio Nello Conti.
Superata la cresta, si entra in Garfagnana e si scende nella valle di Arnetola per poi raggiungere un altro luogo affascinante, il lago di Vagli sotto le cui acque, immerso in un lungo letargo, si nasconde il vecchio abitato di Fabbriche di Careggine, abbandonato dal 1947 per far posto alle acque del lago. E da lì si sale a San Pellegrino in Alpe per poi scendere di nuovo verso Modena.
Non ho mai percorso tutto il tragitto della via Vandelli, anche se mi sarebbe piaciuto farlo quando la mia età me lo permetteva. Ogni volta che ne ho percorso qualche tratto come la scalata da Resceto al Passo della Tambura o, in un paesaggio spettrale, quello che resta di ciò che immagino fosse il suo percorso nel centro o nei pressi di Fabbriche di Careggine nei periodi in cui i resti del vecchio villaggio abbandonano il loro letargo ed emergono dal lago perché il bacino viene svuotato per la manutenzione, il piacere del camminare è sempre stato accompagnato dal girovagare del pensiero che si posava su immagini quali il possibile scenario del percorso della strada nel Settecento che si inerpicava lungo i fianchi scoscesi delle montagne, quando lungo il suo tragitto c’erano stazioni di sosta per il cambio dei cavalli, ostelli, casermette per soldati addetti forse alla riscossione dei pedaggi ma anche al presidio del tragitto e alla protezione dei viandanti contro i briganti che popolavano la zona in attesa dei viaggiatori, briganti, raffigurati nell’immaginario popolare come pericolosi personaggi notturni dotati di immancabili lanterne, con cappelli dalle ampie tese e avvolti nei loro tabarri neri, talmente feroci da essere, se presi, immediatamente giustiziati (e si dice, ma non so se sia vero, che lungo la via Vandelli ci siano ancora i fori dei pali che erano serviti per la loro esecuzione).
Non sono solo i briganti i protagonisti dell’immaginario che circonda la Via Vandelli. Altre leggende riguardano invece tragedie occorse ai viaggiatori, una delle quali riguarda una vicenda che sembra sia occorsa lungo questa strada ad una comitiva di mercanti che stava percorrendo la via Vandelli in direzione di Massa. Sembra che la comitiva si sia imbattuta in una bufera di neve. Per ripararsi i mercanti si sarebbero rifugiati in un avvallamento coperto poi da una slavina che ha ucciso tutti i membri del gruppo. Ma secondo la leggenda, lo spirito dei mercanti morti è sopravvissuto e, quando nevica, si sentono ancora i loro lamenti accompagnati dallo scalpitare dei loro animali, cavalli o muli che siano. Ed è qui che rientra in gioco San Pellegrino in Alpe. Per proteggere i viandanti durante il loro cammino veniva invocato in particolare un santo, San Pellegrino, proprio quel San Pellegrino che dà il nome alla località che si trova a cavallo tra Emilia e Toscana e nei pressi della quale transitava la via Vandelli. San Pellegrino era, secondo la leggenda che lo riguarda, un principe irlandese o scozzese che, dopo aver rinunciato alle sue ricchezze e dopo aver effettuato un pellegrinaggio in Terrasanta, sarebbe venuto a morire in Italia sull’Appennino tosco emiliano dopo essersi dedicato, oltre che alla lotta contro il Diavolo e le tentazioni, all’assistenza ai viaggiatori pellegrini che transitavano per quell’impervie montagne gettando le fondamenta dello Spedale che verrà costruito dai frati di San Pellegrino, successivamente nel luogo dove San Pellegrino era vissuto ed aveva operato. Una volta morto San Pellegrino, la sua opera fu portata avanti dal suo discepolo, San Bianco. E proprio a San Pellegrino in Alpe si trova il Santuario all’interno del quale riposano le spoglie dei santi Pellegrino e Bianco.
San Pellegrino in Alpe, oltre che luogo di culto e Spedale per i pellegrini, era in realtà in una posizione strategica perché si trovava non solo fisicamente tra Emilia e Toscana ma anche al confine tra il Ducato di Modena e la Repubblica di Lucca e la via Vandelli, così fermamente voluta dal Duca di Modena, doveva per forza passare nel territorio piccola repubblica toscana per raggiungere il mare. Tra i due Stati non doveva correre buon sangue perché addirittura si dividevano la chiesa dei santi Pellegrino e Bianco. Il Duca di Modena aveva lungo il confine una casermetta con un gruppo di soldati e in territorio lucchese sorgeva l’antico Spedale. Molto probabilmente la Repubblica di Lucca acconsentì a far passare il tracciato della via Vandelli nei suoi territori perché sperava che una via di comunicazione del genere tra il mar Tirreno e la pianura padana avrebbe portato numerosi vantaggi anche alle sue finanze. Non fu così perché le pendenze della via Vandelli rendevano il percorso difficile per i carri più pesanti e la costruzione di altre strade di valico presso l’Abetone, la Foce a Giovo e il passo delle Radici resero secondario il percorso di San Pellegrino che, nell’arco di qualche decennio, perse completamente importanza come valico, pur rimanendo meta di pellegrinaggi, soprattutto nel periodo estivo.
Per questi due motivi, per essere un luogo privilegiato di un altro punto di vista sulle Apuane e per essere la meta di alcuni dei miei viaggi immaginari, San Pellegrino in Alpe rappresenta per me un tassello del mio girovagare, talvolta solo attraverso l’immaginazione e i sentieri delle parole, tra le mie montagne, tra quelle montagne che una volta erano meta fisica e reale delle mie faticose escursioni e oggi sono meta del girovagare per lo più della mia memoria e della mia immaginazione.
massimocec ottobre 2021