La Certosa di Pisa

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Guardando la Certosa di Calci che si avvicina sempre più a mano a mano che si percorre la strada che dalla pieve di Calci porta al monastero, mi viene in mente che da bambino mi inquietavano strane figure bianche che ogni tanto a sera, a due a due, lentamente incedevano sull’argine dell’Arno nei pressi della casa dove abitavamo, a Mezzana, una minuscola frazione del comune di San Giuliano in provincia di Pisa. Mia madre mi rassicurava dicendo che erano monaci della Certosa di Calci, ma lo diceva con una sorta di aria di mistero e insieme di reverenza. Ho scoperto poi che quei monaci stavano, per così dire, praticando lo “spaziamento”, cioè la passeggiata settimanale durante la quale possono parlare tra loro, attività non prevista dalla loro regola negli altri momenti della vita monastica. I monaci camminavano in coppia e ogni tanto cambiavano il compagno, forse una sorta di esercizio di socializzazione per ricordare di non essere soli.

Altra traccia della presenza di questi monaci nella mia infanzia era una bottiglietta di un liquore verde che non mancava mai nella vetrina del salotto, se così si può chiamare la stanza disadorna che era a fianco della cucina della casa dove sono nato in una giornata nevosa di un inverno particolarmente freddo, almeno a sentire i racconti dei miei genitori. Era il Certosino, un liquore ad alta gradazione alcolica prodotto direttamente dai monaci che i miei genitori andavano ad acquistare in bicicletta nella farmacia della certosa, insieme ad altre pasticche contenenti ignote erbe che venivano utilizzate dai miei per curare tutta una serie di disturbi, da quelli digestivi a quelli da raffreddamento.

L’alone di mistero è rimasto e si riaffaccia ogni volta che sento parlare dei monaci, e in particolare dei certosini, e della loro vita. Misteriosa è la scelta della vita eremitica, del silenzio, dell’obbedienza e non solo perché non sono credente ma perché è difficile entrare in una logica così lontana dal nostro modo di vivere. Una lontananza che non crea però rifiuto, ma curiosità mista ad una sorta di fascino.

Recentemente ho rivisto un film sulla vita dei monaci certosini, Il grande silenzio, girato nel 2005 da Philip Gröning in Francia, nel monastero de La Grande Chartreuse, sulle montagne vicine a Grenoble, la casa madre di tutti i monasteri certosini.

Nel rivedere il film mi è sembrato di cogliere, forse, un aspetto del mistero della vita di questi monaci, l’aspetto legato al tentativo di sostituire il nostro modo di pensare il tempo, un tempo pensato come una struttura lineare basata su un prima e un dopo e orientato verso una direzione, il futuro, con modo di pensare il tempo di tipo circolare, ciclico in cui viene annullata la narrazione della propria vita e quindi il prima e il dopo, il futuro. Credo che ciò che conta veramente per i monaci sia il presente, il momento in cui viviamo, magari in una prospettiva che lega il presente a un futuro non collocato nel nostro tempo, un futuro atemporale, un futuro divino. Il tempo circolare diventa ripetizione ciclica delle stesse cose all’interno della ripetizione ciclica dei tempi della natura. Quello della vita eremitica è una sorta di spiazzamento antropologico, uno spiazzamento che in parte ho ritrovato anche in alcuni film di Piavoli come Voci nel tempo e Primo soffio di vento, uno spiazzamento provocato in quei film dalla cancellazione della struttura narrativa a favore della dimensione descrittiva che fa ricorso soltanto alle immagini che si succedono senza concatenarsi una all’altra in una successione necessaria, alle voci indistinte, senza alcun abbozzo di intreccio, senza un commento verbale o musicale, uno spiazzamento, a differenza di quello monastico, laico, legato ad una sorta di abbandono alla natura e ai suoi ritmi.

Certo, il tempo lineare irrompe sia nella vita eremitica che nella descrizione bucolica della vita nel paese di Castellaro del film di Piavoli. Il succedersi delle stagioni, dalla primavera all’inverno, è messo sia nel film di Piavoli che in quello di Gröning sullo stesso piano dello scorrere della vita umana, dall’infanzia alla vecchiaia. Ma mentre le stagioni riprendono il loro ciclo ogni volta, l’essere umano no, l’essere umano nasce e muore come individuo. Anche i monaci non sfuggono a questo destino nonostante il loro tentativo di mimetizzarsi con il fluire della natura attraverso l’anonimato, la cancellazione della loro esistenza anche dalle loro tombe, come testimonia il cimitero che si trova in uno dei cortili della Certosa di Calci. Circolarità e linearità del tempo non costituiscono per gli esseri umani alternative. La consapevolezza della propria esistenza condanna l’essere umano alla dipendenza dal tempo lineare e quindi alla morte. E la morte è una presenza fondamentale anche nella scelta di vita eremitica, perché lo scopo di tale scelta non è il ricongiungimento con il flusso della natura ma la salvezza.

Un altro elemento che emerge della vita dei certosini documentata dal regista tedesco Philip Gröning è il silenzio, un silenzio lontano dal chiassoso rumoreggiare della nostra vita quotidiana, un silenzio rotto dalla preghiera che non è discorso, dialogo, ma ripetizione, circolarità, liturgia, interiorità. C’è un parallelismo ben visibile tra la concezione circolare del tempo e l’organizzazione della vita interno alla Certosa. Sembra quasi che la liturgia sia ritagliata sulla circolarità del tempo della natura, che sia un supporto al tentativo di annullare la linearità del tempo. L’organizzazione del tempo all’interno della Certosa è sia giornaliera che settimanale. Durante i sette giorni della settimana i padri si ritrovano tre volte al giorno in chiesa per tre appuntamenti liturgici: il Mattutino, la messa conventuale e i Vespri. Il resto del tempo lo passano nelle loro celle. Solo per il pranzo si ritrovano nel refettorio dove però non si parla mai, solo il monaco prescelto per tale funzione legge dal pulpito brani di testi sacri.

Un ulteriore elemento che è difficile da comprendere è il rapporto tra comunità e solitudine. Paradossalmente quella dei certosini è una comunità che ha il suo fondamento nella solitudine oltre che nel silenzio, due dimensioni, quella della vita comunitaria e quella della solitudine, che sembrano in contrasto tra loro. Gli eremiti che si conoscono, ad esempio, attraverso l’affresco che si trova nel Camposanto monumentale a Pisa in piazza dei Miracoli di Buonamico Buffalmacco raffigurante i santi anacoreti della Tebaide vivono la loro vocazione in solitudine nel deserto. I certosini invece sono uomini solitari che vivono in comunità. Certo, perché i certosini, chiamati padri perché anche sacerdoti, possano vivere in comunità da solitari hanno bisogno dei fratelli conversi, cioè di coloro che pur seguendo una vocazione monastica, non sono sacerdoti e si dedicano a tutte quelle occupazioni e relazioni affinché i padri certosini possano seguire la loro vocazione senza incombenze che la possano mettere a rischio. I padri in cambio del lavoro danno ai fratelli conversi la loro assistenza spirituale affinché le minacce esterne, inevitabili per i conversi impegnati nel lavoro di sostentamento della comunità, non mettano in pericolo la loro vocazione solitaria. Ci sarebbe quindi tra i padri certosini e i fratelli conversi uno scambio di servizi, spirituali da un lato e materiali dall’altro, che ricorda tanto, per la nostra mentalità laica e moderna, le ideologie elaborate per la giustificazione di un esistente caratterizzato da profonde diseguaglianze, da quella antica di Menenio Agrippa, a quella medievale e moderna della società tripartita di Adalberone di Laon, a quella della mano invisibile di Adam Smith a quella contemporanea del gocciolamento dall’alto verso il basso della ricchezza. Anche in questo caso però si misura una distanza rispetto a noi, quella dell’accettazione volontaria e consapevole di un ordine gerarchico considerato immutabile, scandito dalla distinzione tra clerico e laico, tra padre certosino che è anche sacerdote e fratello converso che sacerdote non è. Una distinzione esplicita anche grazie al linguaggio che chiama i vari posti di lavoro dei fratelli conversi “obbedienze”.

Un ultimo elemento che accresce l’alone di mistero è la convivenza nei monasteri certosini tra il rigore della regola sulla base della quale i padri organizzano la loro vita quotidiana e lo splendore degli edifici che accolgono la comunità. Appena ci si accosta ad una certosa, la prima cosa che balza agli occhi è proprio la bellezza degli edifici, la ricchezza degli interni destinati alla vita comune, in particolare alla preghiera, alle celebrazioni liturgiche. Anche la Certosa di Calci non sfugge a questo impatto. L’edificio centrale che si intravede oltre il muro di cinta ha un aspetto barocco, colpisce subito la vista della parte alta di una facciata candida sovrastata dall’immagine di Maria incoronata. Una volta varcato il cancello ci si trova in un vasto cortile erboso circondato da edifici il cui corpo principale è costituito dalla chiesa cui si accede, dopo aver attraversato un cortile, attraverso un’ampia scalinata a doppia rampa.

Ad accogliere chi entra c’è, sopra l’architrave della porta che conduce al vano principale della chiesa, un Cristo inginocchiato sotto il peso della croce. È un Cristo che sovrasta una parete di marmi policromi. Tutto l’ambiente è affollato da dipinti, affreschi, statue e, in basso, rifinito da un corteo di stalli lignei destinati ai monaci nel momento in cui partecipavano alle funzioni sacre. Anche nella chiesa era prevista la separazione dei padri dai conversi. La parete di marmi policromi serviva proprio a questo.

A fianco della chiesa c’è una sacrestia seguita da una serie di cappelle in cui ogni padre celebrava in solitudine la messa privata quotidiana. Poi si accede a un vasto cortile con al centro una grande fontana ottagonale; in un angolo c’è il piccolo cimitero con le tombe anonime dei padri certosini e ai lati un chiostro all’interno del quale sono dislocate le celle dei monaci, ma più che celle dovremmo chiamarle appartamenti perché costituiti da diverse stanze. Ogni appartamento ha anche un suo giardino. I monaci certosini non sono estinti. È vero che oggi la Certosa è un monumento ma i pochi padri certosini rimasti sono stati ospitati in altri monasteri e quindi è ancora in vita e praticata la loro regola. Parlarne però come se fossero ancora lì in quelle celle mi risulta difficile ed è una difficoltà che forse mette in evidenza anche un’immagine presente nella mia mente e forse anche nella cultura diffusa, l’immagine di un mondo che appartiene al passato. Appare perciò lecito parlare della vita monastica di questi religiosi al passato e così farò. Sulla base delle informazioni a disposizione sappiamo che il tempo quotidiano del padre certosino, oltre al tempo dedicato alla preghiera, era suddiviso tra lo studio della Sacra Scrittura e della teologia e il lavoro manuale. Il loro lavoro consisteva nel tenere in ordine la cella, qualche attività di tipo artigianale come la falegnameria, curare il giardino, eventualmente tagliare la legna per l’inverno. Ma la cella doveva essere soprattutto una sorta di rifugio dove il silenzio, molto probabilmente, diventava il padrone assoluto, un silenzio che doveva favorire il dialogo interiore, la preghiera silenziosa, la riflessione.

La comunità della Certosa di Calci era senza dubbio una comunità ricca, con vasti possedimenti. Una ricchezza che si riflette all’intero edificio e rende esplicita una delle contraddizioni fondamentali del cristianesimo cattolico, quella della convivenza mai negata tra ricchezza, splendore, umiltà e povertà. È una contraddizione esplicita diversa dalla contraddizione che viene occultata dall’ideologia. Una cosa è dire che siamo tutti uguali laddove le differenze sono invece radicate e producono profonde disuguaglianze che sono elemento fondamentale del sistema, un’altra è dichiarare, rendere esplicita la contraddizione e farla propria come accade all’interno della religione cattolica quando la Chiesa predica la povertà dall’alto di altari carichi di opere d’arte e oggetti preziosi. Non c’è in questo caso alcun nascondimento. D’altra parte, nel cristianesimo e sulla croce convivono il Cristo pantocrate e il Cristo sofferente.

I certosini non hanno fatto altro che rinnovare questa contraddizione, mettendola al centro della loro vita religiosa e materiale e tradendo anche in qualche modo la loro origine. Non si può non ricordare lo stupore di Gilberto, abate di Nogentsous-Coucy, che nel De vita sua sive Monodiario, nel constatare intorno al 1116 l’assoluta povertà della chiesa  della Chartreuse di Grenoble, il cui unico arredo era costituito da un calice d’argento, una semplicità che rispecchiava l’idea poi professata e diffusa da uno dei testi fondamentali dell’estetica medievale, l’Apologia ad Guillelmum  di Bernardo di Chiaravalle, che chiedeva un assoluto rigore di vita che doveva trovare un chiaro rispecchiamento sia nella struttura delle chiese sia nelle loro decorazioni per evitare i rischi della concupiscentia oculorum in grado di distogliere i fedeli dal necessario stato d’animo per entrare in contatto con il sacro tramite la preghiera. La vita dei certosini è una vita solitaria basata sul silenzio, sulla rinuncia al tempo lineare in cui noi tutti viviamo, sulla rinuncia al futuro come orizzonte umano, sul rigore austero sul piano personale, sull’obbedienza, sulla meditazione e sulla contemplazione, una vita solitaria e austera vissuta però, almeno a partire da un certo periodo, in ambienti caratterizzati da sfarzo, bellezza, ricchezza ostentata e splendore. Si può dire che il fascino della bellezza era già chiaro ai tempi di Bernardo, anche i moralisti medievali avvertivano l’attrattiva del bello, il fascino degli edifici con le “loro altezze immense”, “le lunghezze smisurate”, “le sproporzionate ampiezze, le superbe lisciature, le pitture curiose” (Bernardo da Chiaravalle Apologia ad Guillelmum), ma lo vivevano come dramma, un dramma che con il tempo si trasforma in un forma di convivenza con la contraddizione in qualche modo risolta dalla scissione tra individuo e comunità  e dal recupero dell’idea che la bellezza, lo splendore costituiscano un sentiero aperto per arrivare a Dio, mentre i moralisti e i rigoristi del Medioevo erano ricorsi all’esaltazione malinconica della bellezza interiore, al potere catartico della fede. È un po’ come se i certosini, mediante la separazione delle sfera individuale da quella comunitaria, il momento della riflessione interiore da quello liturgico, fossero riusciti a conciliare le posizioni di Suger, l’abate che volle ristrutturare la chiesa abbaziale di Saint Denis sulla base delle idee neoplatoniche legate alla metafisica della luce di Scoto Eriugena, che vedeva la casa di Dio come un ricettacolo della bellezza attraverso la quale arrivare a Dio, e quelle di Bernardo.

Anche il tempo della comunità è diverso da quello dei singoli monaci, quello della comunità infatti è un tempo in cui c’è una direzione legata alla crescita progressiva delle risorse per la comunità, al rapporto con il mondo esterno, con le sue vicende e con il rapporto con il potere politico improntato a valori diversi rispetto a quelli dell’obbedienza e del distacco. Tra gli ambienti del monastero c’è un appartamento, la Foresteria Granducale, riservato ai granduchi di Toscana. È vero che, almeno a quanto si può dedurre dagli affreschi del refettorio, i sovrani in qualche modo dovevano sottomettersi alle regole dei monaci, addirittura servirli a tavola, ma qual è il significato dell’atto di ossequio della dama seguita dai paggi che le sollevano lo strascico, attorniata da servi che le porgono le vivande mentre serve il pasto ai cappuccini? C’è un gioco complesso di intersezioni e un intreccio di atti simbolici che rimandano a giochi di potere, a gerarchie esplicite e implicite da cui è difficile uscire. La presenza della Foresteria Granducale con il suo sfarzo che l’avvicina più alla chiesa e alle cappelle dove i certosini celebravano la loro messa giornaliera in solitudine che alle celle dove studiavano e lavoravano, è una sorta di anello che lega la comunità monastica alla società laica e in particolare a chi esercita il potere nella società.

Penso che l’alone di mistero misto alla reverenza che circonda i certosini sia in gran parte legato a questa duplice e contraddittorio modo di vivere volutamente la loro vocazione, una scissione tra il destino individuale e quello comunitario difficilmente comprensibile da parte della logica comune.

Usciti dalla Certosa e ritrovarsi in una minuscola chiesa come la pieve di Santa Giulia a Caprona, a pochi chilometri dal complesso monastico, può provocare un senso di smarrimento legato al contrasto non solo tra i due edifici ma anche alla differenza con cui può essere vissuta la fede. La  pieve è il centro religioso intorno al quale si svolgeva la vita della comunità. Da un lato la fuga dal mondo in cerca della salvezza utilizzando la ricchezza, il potere, lo splendore, la bellezza, dall’altro il gettarsi nel mondo, e il farsi carico del suo peso enorme con il solo supporto della pietra dura, della povertà, della limitatezza, dell’umiltà. Si può continuare a non credere e nello stesso tempo a condividere con chi crede valori, speranze, esperienze così come si può prendere atto della lontananza che ci separa perché la fede è una delle espressioni di ciò che chiamiamo umanità, con tutte le sue contraddizioni, differenze, molteplicità di aspetti. È in sostanza una parte della nostra storia, della nostra identità e, come sappiamo, l’identità non è mai qualcosa di unitario ma è molteplice, contraddittoria, mobile e fragile. Come diceva Wittgenstein “Non come il mondo è , è il mistico, ma che esso è.” E intorno a questo nucleo mistico dell’esistere del mondo e dell’esistere noi nel mondo, nucleo che non consente né di formulare domande né di trovare risposte e  che si incontrano le scelte di vita del certosino che fugge dal mondo per trovare Dio, del francescano che fa della predica e del calarsi nel mondo la sua ragione di vita, del credente laico, del non credente, del musulmano, dell’ebreo, del buddista, del confuciano, dell’induista, dell’animista, del pagano, un incontro che lega la monumentale Certosa alla piccola pieve in quanto luoghi in cui si vive il mistero della vita, in cui si prende contatto con il mistico che avvolge e coinvolge tutti in quanto esseri umani e di fronte al quale ciascuno cerca una propria strada frugando nella storia personale, nella storia della comunità in cui si trova a nascere, nei tentativi di trovare una risposta che altri hanno già elaborato e nelle contraddizioni che inevitabilmente ciascun tentativo ha prodotto. Il problema che però rimane aperto è quello di come arrivare a condividere lo spazio che occupiamo e che non può essere assegnato a ciascuno come una particella personale.

massimocec gennaio 2022