GALLERIA
Sono partito per Venezia con un’intenzione ben precisa: fotografare il Ghetto.
Una volta arrivato, mi sono guardato intorno. Non sapevo cosa fotografare. Non riuscivo a vedere quelle differenze che potevano in qualche modo far riconoscere il luogo, distinguere i “campi” del Ghetto dagli altri che popolano Venezia, le viuzze, le case del Ghetto dalle altre case di Venezia. Non riuscivo cioè a trovare quello che qualcuno ama definire l’essenza di un oggetto, in questo caso di un luogo.
Con molta curiosità ho quindi acquistato il libro di Ferdinando Scianna “Il Ghetto di Venezia 500 anni dopo”. Volevo capire come aveva risolto il problema dell’essenza un fotografo della dimensione di Scianna. Sfogliando il libro le mie perplessità sono rimaste. Neppure nel libro di Scianna le singole foto non mi sembrano in grado di comunicare l’essenza di ciò che chiamiamo Ghetto. Gli edifici fotografati sono edifici. Le persone fotografate non consentono di riconoscerle come persone del Ghetto. È vero, vi sono alcuni ebrei riconoscibili per il loro abbigliamento e le loro barbe. Leggendo le didascalie però si viene a sapere che questi ebrei così facilmente riconoscibili in realtà sono dei turisti. I ragazzi che giocano presso uno dei tre pozzi del Ghetto nuovo sono invece come tutti i ragazzi di Venezia. I pozzi del Ghetto si riconoscono come tali solo perché c’è la didascalia o perché si conosce lo stemma della famiglia Da Brolo, “antica proprietaria di quel luogo”.
Inoltre qualche modo ci si affida a degli elementi come i vestiti indossati, le barbe, copricapo per dire che siamo in quel luogo; sembra che solo le persone siano in grado di consentire il riconoscimento del Ghetto. Che cosa accade se si prende una foto come “Meditazione notturna in ghetto nuovo”. L’uomo affacciato alla finestra che sembra fumare potrebbe essere dovunque, in qualunque vecchio stabile di una qualsiasi città. Ma potrebbe essere anche in campagna. Anche gli ebrei che stanno pregando potrebbero essere in qualsiasi luogo. In sostanza senza l’ausilio della parola le fotografie non comunicano alcune specificità del loro contenuto. Solo la presenza di un contesto, in questo caso del libro, ma potrebbe anche essere una mostra o qualsiasi altra cosa del genere, consente di attribuire un significato alle foto e di riconoscere l’essenza del luogo, se proprio si vuol parlare di un essenza e se si pensa che un luogo abbia una sua essenza. Il libro è qualcosa di simile ad una cornice, all’insieme delle regole entro le quali ciascuna fotografia diventa portatrice di un significato.
Inoltre il libro, oltre ad essere una cornice, è anche lo strumento che consente di entrare in un gioco più ampio, quello della comunicazione culturale.
Le mie foto del Ghetto sono foto del Ghetto non perché io ho fotografato il Ghetto ma perché sono entro un contesto, perché sono in un gioco all’interno del quale il Ghetto diventa ciò che è e solo così le foto del ghetto possono rappresentarlo, possono trasmettere un significato. È necessaria la presenza di qualcosa che trasformi la curiosità in un arco e in una freccia. Inutile cercare l’essenza di un oggetto, cercare la foto che colga quello che fa sì che l’oggetto fotografato sia quello che è. La foto parla solo se inserita in un contesto in cui in qualche modo è possibile usarla o in cui viene usata. Non so che cosa fotografare del Ghetto perché nel momento in cui mi propongo di fotografarlo fuori da un gioco, ho l’impressione di trasformarmi in uno dei tanti turisti che sparano scatti solo perché si trovano lì, spinti dalle sollecitazioni pubblicitarie che vedono i viaggi e i luoghi solo come fonte di guadagno, come occasione di fare affari.
E l’essenza che fine ha fatto? Svanita nel nulla come tutte le astrazioni che funzionano fintanto che sono utili per guidarci nella caoticità del reale ma che diventano fardelli quando pretendono di diventare esse stesse degli oggetti. Ciò che riamane è il piacere di stare in un luogo che senti in qualche modo di riconoscere e di girare con uno stupido e meccanico (oggi elettronico) marchingegno in mano che ti consente di tentare di prolungare quel piacere che ti ha spinto lì. La fotografia non può cogliere l’essenza delle cose perché esse non sono che prodotti di in intelligenza sociale che ci avvolge. La fotografia coglie solo il visibile e ciò che pur non essendo visibile per noi ora è comunque astrattamente visibile, l’inconscio tecnologico di Benjamin. Il rapporto della fotografia con la dimensione concettuale e astratta è estremante complesso. Platone forse condannerebbe la fotografia come la regina delle arti mimetiche, la più ingannatrice tra tutte le arti, ancora più della pittura che in qualche modo consente di allontanarsi dal rapporto con il visibile.
massimocec settembre 2017
Da Ferdinando Scianna: Il Ghetto di Venezia 500 anni dopo
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