Dopo oltre un anno e mezzo di clausura a causa del covid, io e Rosa, mia moglie, siamo tornati timidamente a fare un piccolo viaggio: Bolgheri, Campiglia Marittima, Donoratico, Castagneto Carducci e soprattutto la campagna e le colline dell’Alta Maremma (se così si può chiamare la pianura costiera livornese a ridosso delle colline pisane). Il fascino di questi luoghi è per me legato alle distese di campi interrotte da filari di alberi, da uliveti, al colore del grano tagliato da poco, alle colline dolcemente ondulate e punteggiate da paesini dipinti con il marrone uniforme di una pietra penso locale che conferisce loro un tono caldo, riposante, interrotto ogni tanto da una porta o da una finestra dipinte di azzurro, dalla vivacità ei fiori che spuntano dalle pietre o dalla maglietta gialla di un bambino. E ancora le tracce di un passato di lavoro nei campi, casolari abbandonati, attrezzi arrugginiti inseriti però in un territorio che in qualche modo mantiene ancora il suo legame con quel passato, non ancora del tutto stravolto dall’ondata del turismo estivo e balneare. Alcuni nomi continuamente ci inseguono durante i nostri giri: della Gherardesca, Incisa della Rocchetta, Antinori. Tutti nomi legati titoli nobiliari che mantengono da queste parti un’aura di rispetto, una sorta di riconoscimento delle tracce positive lasciate in questo territorio che ospita i loro possedimenti.
Per me, pisano, il nome della Gherardesca è il nome di una famiglia legata alla storia di Pisa, alla vicenda del conte Ugolino, al ricordo che ne ha lasciato Dante nella Divina Commedia. Qui invece è un nome che fa parte di una rete invisibile fatta di grandi proprietà, castelli, palazzi, iniziative imprenditoriali, una rete invisibile che percorre tutti questi territori lasciando una traccia indelebile. In una delle proprietà di questa rete invisibile, la tenuta di San Guido del marchese Mario Incisa della Rocchetta, una tenuta ricevuta come dote dalla moglie Clarice della Gherardesca, è nata nel 1959, quando Incisa della Rocchetta decise di destinare ad altri scopi la sua riserva di caccia, la prima riserva faunistica acquatica privata. A Bolgheri inoltre nel 1966, nella saletta per della torre che si trova sopra porta d’ingresso di Bolgheri, Fulco Pratesi e il marchese Incisa Della Rocchetta dettero vita alla sezione italiana del WWF.
E poi la valorizzazione di queste terre grazie ai vini: il Sassicaia di Incisa della Rocchetta, l’Ornellaia del marchese Lodovico Antinori. Nel 1930 Mario Incisa sposò Clarice dei conti della Gherardesca e ricevette in dote la tenuta di San Guido, quella che diventerà un’oasi faunistica. Ma non c’erano solo prativi, coltivi, zone paludose e grandi quantità di animali. C’era anche un terreno che al marchese Incisa della Rocchetta, amante dei vini di francesi della regione di Bordeaux, probabilmente ricordava la terra di Graves, la regione vinicola della Francia specializzata nella produzione dei grandi vini di Bordeaux. Graves in francese significa ghiaia, per il terreno sassoso che è presente in quel territorio, così come sassicaia, da noi in Toscana. L’idea era originale e ardita perché fino a quel momento a nessuno era venuto in mente di fare in Maremma, una zona sconosciuta sotto il punto di vista vinicolo, un vino pregiato, anzi un vino “bordolese”. Nella tenuta di San Guido furono importate dalla tenuta del duca Salviati di Migliarino in provincia di Pisa e trapiantate barbatelle di cabernet sauvignon e di cabernet franc e cominciarono i tentativi di produzione di quel vino locale che sarebbe diventato il Sassicaia. Per alcuni anni il Sassicaia fu bevuto solo all’interno della tenuta. Nel 1968 uscì da questi confini trascinando con sé tutta la produzione locale del vino.
Ma il Sassicaia non rimase solo e anche un altro vino con una storia simile si fece avanti nella stessa zona: l’Ornellaia. Anche in questo caso sono coinvolti i della Gherardesca in quanto la sorella di Clarice, Carlotta, nel 1932 sposò Nicolò Antinori portando in dote agli Antinori un’altra tenuta nella zona di Bolgheri. Tra il 1942 e il 1949, in parte quindi durante gli anni della guerra, in quella tenuta furono costruite o restaurate case coloniche, furono creati nuovi poderi, costruite stalle, magazzini per cereali, capannoni per automezzi e macchine agricole, una cantina con tini per mille ettolitri di capacità, quartieri per i dipendenti, strade, scavati nuovi fossi, elettrificate le strutture e le case coloniche, creato un vivaio industriale, messi a dimora grandi quantità di pini domestici e pioppi del Canada, infine furono messi a vigneto altri 21 ettari di terra (Fonte: L. Bezzini, Conti e contadini, 2001). Nel 1981 il marchese Lodovico Antinori, figlio di Carlotta della Gherardesca e di Nicolò Antinori, fondò nei territori della dote portata dalla madre, la Tenuta Ornellaia con il preciso scopo di sfruttare quel terreno per dare origine alla produzione di vini di pregio. E da quell’iniziativa è nato l’Ornellaia, un vino che aggiunge ai cabernet il merlot e il petit verdot.
Si capisce allora perché la rete invisibile che sostiene questo territorio, la rete delle proprietà e delle famiglie proprietarie sia così solida. Ma nel nostro timido riaffacciarsi ad una vita normale, per quel che mi riguarda, il visibile è più importante dell’invisibile, ho bisogno di trovare ciò che si offre all’occhio che si inebria non per vini ma per la vista di paesaggi che ci rimettono in contatto con un mondo che si è allontanato da noi un anno e mezzo fa e che fanno dimenticare che a pochi passi dai prati, dai vigneti, dagli oliveti c’è una schiera di bagnanti provenienti da mezza Europa, di vacanzieri attratti dalle spiagge, dalle discoteche, dai parchi di divertimento, dagli acquapark incredibilmente collocati vicino alle spiagge che costituiscono quasi nuovi territori dello spazio pubblico, nuovi santuari del divertimento e del consumo che prendono il posto delle piazze, dei centri storici, dei luoghi di aggregazione che davano vita a relazioni sociali, a storie condivise, a sentimenti di appartenenza. Non luoghi che si riproducono identici dovunque, che rispondono soltanto alla logica del consumo, tranciando anche i legami tra divertimento, trasgressione, interruzione temporanea del rapporto con la realtà e specifici contesti spazio-temporali entro i quali tali possibilità prendevano vita come ulteriore elemento identitario.
Ma la logica del consumo non ha conquistato soltanto le spiagge e i litorali. Anche Bolgheri, il minuscolo paesino che si trova in fondo al lungo viale scortato dai famosi cipressi di Carducci è stata ingoiato da questa febbre e non riesco più a riconoscerlo. Molti anni fa era arrivato in Bolgheri alla guida di una classe scalmanata verso l’ora di pranzo, quando le case erano immerse nel silenzio più assoluto. Nella piazzetta dove c’è la statua della nonna del Carducci i ragazzi avevano pranzato e si erano messi a giocare, a rincorrersi, a vociare. Dalle finestre socchiuse abitanti invisibili del borgo avevano iniziato a protestare, a chiamarci incivili perché i ragazzi disturbavano il loro riposo pomeridiano. Quel paese non esiste più. Chissà chi c’è oggi dietro quelle finestre che silenziosamente sopportano torme di turisti. Non c’è più un negozio di alimentari, una macelleria, una farmacia, ci sono solo pseudo enoteche, ristoranti, bar, venditori di oggetti ricordo. La sera poi questa torma cresce a dismisura e la mattina sembra che il paese debba recuperare il sonno perso durante la notte. Il risveglio è tardivo e lento come quello degli ubriachi che piano piano, timidamente, riprendono il loro posto nel mondo reale, qualcuno si fa vivo per le strade con una scopa, apre qualche porta, con calma ripristina gli oggetti da esporre ma perché la vita riprenda a pulsare normalmente bisogna aspettare l’ora di pranzo, quando arrivano di nuovo i turisti.
La clausura legata al covid deve essere stato un dramma per Bolgheri perché sono state chiuse dal virus le arterie che lo tengono in vita, le vie del turismo. Pur comprendendo il dramma di tutte queste le persone che hanno scommesso su tale risorsa, viene da chiedersi quanto sia accettabile un paese che si affida esclusivamente ad un’attività che ha qualcosa di parassitario, che vive solo grazie alla ricchezza prodotta da altri e altrove, fino a che punto ci si può affidare al turismo e lasciare da parte di attività realmente produttive sia perché ciò significa mettersi nelle mani di chi detiene le risorse reali, sia perché la pressione necessaria per attrarre turisti mette in campo forze che stravolgono la storia, la natura, la cultura di interi territori rendendoli irriconoscibili, falsi. Certo, anche la presenza di attività produttive di altro tipo esercita pressioni non indifferenti ed è per questo che dovremmo rivedere l’idea che la prosperità del nostro futuro dipenda semplicemente dalla “crescita”. Occorrerà chiedersi quale tipo di crescita, per quali scopi e con quali caratteristiche. Bolgheri non è cresciuta, è stata stravolta, trasformata in una sorta di teatro di se stessa in nome di questa crescita senza limiti, senza attributi. Qualche altro paese della zona timidamente cerca invece di rendere compatibili mutamenti che vanno in direzioni opposte quali quelli che sono legati al turismo e alla trasformazione di alcuni aspetti del territorio e quelli che sono spinti dalla necessità di conservare un rapporto autentico con il passato, con la propria storia, con la propria identità. Ciò è certo più facile a mano a mano che ci si allontana dalla fascia costiera, dall’epicentro del richiamo turistico, dalle forze che spingono alla trasformazione incontrollata.
Il fascino della Maremma per me è collegato alla resistenza che alcune attività produttive esercitano sulle trasformazioni incontrollate che spingono alla trasformazione di luoghi in non luoghi, al mantenimento del valore delle attività produttive diverse dal turismo consumistico, dal divertimento preconfezionato. Nel caso della Maremma è l’agricoltura ad offrire una possibilità del genere. Gli oliveti e la produzione dell’olio, i vigenti e la produzione del vino, le tenute con gli allevamenti, le riserve naturali, le distese di campi coltivati sono lì a testimoniare la resistenza che la Maremma oppone alle pressioni del mutamento caratterizzato dall’edificazione dei non luoghi. Certo le tracce di tali pressioni si vedono anche qui, casolari abbandonati, le villette sorte a fianco dei ruderi, ma c’è qualcosa che tiene insieme il vecchio e il nuovo e forse l’occhio riesce a coglierlo e ad apprezzarlo. Per questo forse il luogo più vivo di Bolgheri è fuori dal centro abitato, nel piccolo cimitero sorvegliato da un vecchio che non sono riuscito neppure a capire quando ha rivolto qualche parola a noi, unici visitatori. E ancor più si percepisce questa vitalità quando si visitano luoghi come le tenute, quando si ascoltano le storie di coppie di cicogne che dopo 200 anni, con l’aiuto di coloro che lavorano in queste tenute, sono tornate a nidificare sui pali della luce della tenuta di San Guido al termine di viaggi durati tempi non calcolabili per tornare ciclicamente dall’Africa in Toscana. Vicende di animali che hanno un nome, una storia, che vivono accadimenti come quelli degli esseri umani, coppie che si separano, forse in conseguenza di lutti, e si riformano, che si danno da fare fino alla sofferenza per consentire ai loro piccoli di crescere e prendere il volo.
massimocec luglio 2021
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