Le due foto a fianco sono fotografie del Liceo Pellegrino Rossi di Massa, Liceo di cui sono stato preside per cinque anni prima di andare in pensione dal 2015 al 2020. Guardando le due foto rivedo in esse non solo la storia del liceo ma anche vicenda della cultura del nostro paese e forse anche del mondo occidentale. La prima foto è stata scattata negli anni Trenta, periodo in cui l’edificio che ospita liceo è stato costruito. La storia del liceo è però una storia assai più lunga in quanto l’istituzione massese è sorta nel 1860 con l’Unità d’Italia. In quegli anni gli studenti erano una sessantina, una scolaresca poco numerosa ma selezionata, come ha continuato ad essere fino agli anni Settanta; il corpo insegnante era costituito da 10 Professori ordinari per il Liceo e 5 per il Ginnasio, in genere provenienti da altre città dopo aver vinto i relativi concorsi nazionali; la sede era nell’oratorio annesso all’ex- Collegio Gesuitico, in Via Palestro, nel centro storico di Massa. “La scuola fu dotata di una cappella con sacrestia, una sala del Preside, una sala dei Professori, tre aule, un Gabinetto di Fisica, uno di Chimica uno di Storia Naturale e anche di una sala adibita a Biblioteca, contenente numerosi testi dei Gesuiti, ad oggi uno dei nuclei più importanti del Fondo Antico della Biblioteca dell’Istituto” (dalla presentazione della Prof.ssa Luisa Passeggia presente sul sito del Liceo Rossi).
È il liceo in cui hanno insegnato Giovanni Pascoli, Manara Valgimigli (filologo, esegeta e narratore) e lo storico Luigi Staffetti . Nel corso degli anni ha cambiato diverse sedi fino a quando non è stato collocato nell’edificio che si vede nella prima foto, nell’attuale via Democrazia, il nome che prende la via Aurelia quando attraversa il centro di Massa. Nella foto appare come un edificio aristocratico sperduto mezzo ai campi, circondato da case di contadini, un edificio che ospitava la cultura con la C maiuscola in uno spazio circostante che era realmente vuoto. Possiamo però chiederci se quel vuoto reale corrisponde anche ad un vuoto della dimensione culturale in cui quel liceo svolgeva la sua funzione oppure se quel vuoto che sembra rappresentare la realtà non è, come spesso accade nella foto, una sorta di illusione ottica, perché visto dall’interno di quella cultura che non era in grado di dialogare con il mondo che la circondava, un mondo invisibile dalle finestre del liceo tanto da sembrare inesistente. In altre parole se ciò che vediamo nella foto era anche rappresentazione di ciò che non vediamo e non possiamo vedere.
L’edificio era in mezzo ai campi, quasi un’isola immersa in un altro mondo. Una sorta di acropoli disposta in pianura che ben si distingueva da tutto il resto. Nella seconda foto vediamo che oggi è circondato, per non dire sopraffatto, da una grande quantità di edifici moderni che lo soffocano, lo nascondono; a stento si riesce ad individuarlo. Lo stesso destino ha subito quella cultura di cui era l’emblema? Sembra di sì. Ma anche se ciò è vero, possiamo chiederci se tutto ciò sia un bene o un male, se la fuoriuscita all’isolamento abbia dato vita al processo di diffusione e quindi di democratizzazione o non sia avvenuto semplicemente un processo di imbarbarimento, di invasione come è accaduto alla dimensione fisica, al territorio, all’ambiente. Non so dare delle risposte precise, penso che entrambi fenomeni convivano. Il vecchio liceo era il luogo in cui si praticava e si trasmetteva l’idea elitaria della cultura, l’idea che la conoscenza della letteratura, della filosofia, dell’arte, sia qualcosa da destinare a pochi, a quei pochi destinati a loro volta a diventare classe dirigente. Era il liceo pensato da Gentile, protetto da tutta una serie di sbarramenti istituzionali e sociali. Era anche indice di un modello di cultura cui prevalevano l’aspetto della conformità rispetto ad un canone omologante e predefinito. Aspetti che in parte sono sopravvissuti anche nel nuovo liceo e che mi hanno sempre messo in difficoltà quando dovevo affrontare problemi legati da un lato alla gestione dei conflitti interni, soprattutto tra studenti docenti, e dall’altro alla gestione della comunicazione verso l’esterno finalizzata a sottolineare l’identità del liceo o, come si dice oggi con un’orrenda parola, la sua “mission”.
Sarà per la mia simpatia per gli eretici e per la dissonanza, per l’importanza che secondo me hanno nella società e nella cultura il dissenso lo spirito critico, la personalità divergente quando il contesto tende a diventare monolitico, a trasformare la tradizione, i legami sociali, culturali e politici in vincoli finalizzati esclusivamente alla replicazione dell’esistente, come ben ricorda un recente libro, “Eretici” Tomaso Montanari, che spesso mi sono trovato per affrontare la contraddizione tra ciò che chiedeva il mio ruolo di preside e la simpatia istintiva per chi aveva il coraggio di criticare, di proporre, di chiedere di cambiare soprattutto quando queste richieste erano rivolte a tentare di migliorare o più semplicemente a cercare di capire perché determinate regole, determinati aspetti dovevano essere rispettati senza che chi chiedeva tale rispetto fosse anche in grado di motivarlo, di spiegarne il senso. È per questo che dobbiamo chiederci se tutti quei palazzi che circondano il vecchio liceo sono veramente il segno di un imbarbarimento o indicano una via che deve essere percorsa in una società che semplicemente è così perché le cose cambiano senza chiederci l’autorizzazione o il consenso, cercando di individuare tracciati che possano condurre ad una contaminazione che può arricchire entrambi i soggetti, il nuovo e la tradizione.
So bene che evocare la simpatia per l’eresia non è sufficiente per dare delle risposte a interrogativi del genere. L’eresia, come tutte le parole che contrassegnano concetti complessi, rimanda ad ambiguità. Montanari definisce l’eretico come termine che “viene da un verbo greco, che significa scegliere. Gli eretici sono coloro che scelgono con la propria testa. Non si accontentano di quella che tutti dicono essere “l’opinione giusta”, l’ortodossia. Per scegliere, pagano un prezzo e se noi oggi possiamo ancora scegliere ogni giorno della nostra vita, lo dobbiamo agli eretici.” Ma non basta ragionare con la propria testa. L’eresia può trovare parentele con l’eccentricità, con il culto della propria personalità, con l’amore per la semplice dissonanza. L’opinione personale deve essere un’opinione sostenibile, motivata e perciò entra in gioco la dimensione sociale e cooperativa della conoscenza, l’idea della conoscenza come impresa collettiva che apparentemente sembra contrastare con l’idea di eresia come motore del sapere. dico apparentemente perché eresia e cooperazione sono componenti complementari e non antitetiche della conoscenza. Inoltre l’eresia può anche essere il primo passo verso nuove forme di monolitismo, di ortodossia intollerante. L’eresia non è una categoria univoca ontologicamente ben definita ma uno stato che si struttura nel suo significato in relazione ad altri stati, ad altre situazioni. Ancora una volta è in gioco l’equilibrio instabile come elemento decisivo, un elemento che rimanda alla complessità come struttura permanente della nostra forma di vita. E anche in questo caso la scuola ha un ruolo decisivo ma con strumenti che riguardano l’importanza del rigore, del rispetto delle regole metodologiche, dell’accettazione di opinioni diverse e contrastanti con la nostra.
Sono anche convinto che quel liceo collocato nel centro della città di Massa, conosciuto e apprezzato da gran parte dei massesi, soprattutto dai massese che appartengono alle categorie sociali più in vista, non può neppure essere il modello per le altre istituzioni scolastiche. Se lo fosse, noi condanneremmo molti adolescenti ad odiare la scuola; dobbiamo partire dalle differenze e rispettarle per dare a tutti opportunità che possono tradursi in parità di chances, per poter innescare processi di cambiamento che siano autentici strumenti di depotenziamento delle differenze sociali che hanno conseguenze negative sulla crescita delle persone. Per far ciò la scuola deve presentarsi non come una struttura uniforme ma come una rete non finalizzata a catturare ma a permettere di scegliere propri percorsi in uno spazio non strutturato, una rete che consente di spostarsi da un nodo all’altro una volta che si è entrati in quel particolare labirinto che non ha solo una via di uscita, ma ne ha molte e ha molte strade per arrivare a trovare una delle tante uscite possibili. Come dice Umberto Eco (Prefazione a P. Santarcangeli, Il libro dei labirinti, Sperling & Kupfer editori, Milano) dobbiamo pensare a un’idea nuova di labirinto per comprendere il nuovo:
“Il primo è il labirinto detto «unicursale»: a vederlo dall’alto sembra un intrico indescrivibile e a percorrerlo si è presi dall’angoscia di non poterne mai più uscire, ma in effetti il suo percorso è generabile con un algoritmo molto semplice, perché altro non è che un gomitolo a due capi, e chi vi entra da una parte non potrà che uscire dall’altra. Questo è il labirinto classico che non avrebbe bisogno di filo d’Arianna perché è il filo d’Arianna di se stesso. Per questo al centro ci dovrà essere il Minotauro, per rendere l’intera faccenda meno monotona. Il problema posto da questo labirinto non è «da quale parte uscirò?» bensì «uscirò?» ovvero «uscirò vivo?» Questo labirinto è l’immagine di un cosmo difficile da vivere, ma tutto sommato ordinato (c’è una mente che lo ha concepito). Il secondo tipo di labirinto è quello manieristico: se sfilate il labirinto classico unicursale vi trovate tra le mani un filo, ma se riuscite a dipanare il labirinto manieristico non vi trovate tra le mani un filo, bensì una struttura ad albero, con infinite ramificazioni, il novantanove per cento delle quali porta a un punto morto (solo un corno di un solo dilemma binario porta all’uscita). Labirinto difficile, perché può accadervi di tornare all’infinito sui vostri passi, e che impone calcoli complessi per trovare una regola che consenta di individuare l’uscita. In teoria la regola c’è, perché il labirinto manieristico, anche se ha un interno assai complesso, ha un dentro e un fuori. Terzo viene il rizoma, o la rete infinita, dove ogni punto può connettersi a ogni altro e la successione delle connessioni non ha termine teorico, perché non esiste più un esterno o un interno: in altri termini, il rizoma può proliferare all’infinito. Inoltre potremmo immaginarlo come una palla di burro, senza confini, all’interno della quale posso perforare senza troppa fatica una parete che separa due condotti creando per ciò stesso un nuovo condotto. Il che equivale a dire che nel rizoma anche le scelte sbagliate producono soluzioni e insieme contribuiscono a complicare il problema. Se anche una Mente può aver pensato il rizoma, non ne avrà però pensata e stabilita in anticipo la struttura. Il rizoma è come un libro in cui ogni lettura cambi l’ordine delle lettere e produca un nuovo testo. E se l’idea di rizoma è molto recente, quella di un libro simile è molto più antica, tanto che la troviamo nella tradizione cabalistica (anche se per i cabalisti rimaneva ferma la fede in una struttura finale del libro, che avrebbe dovuto adeguare il progetto iniziale della creazione). Ora possiamo dire che tutto il Pensiero della Ragione, dalla Grecia sino alla scienza ottocentesca, si è proposto come pensiero di una Legge di un Ordine che dovrebbe ridurre la complessità del Labirinto. Il Labirinto veniva evocato dall’immaginazione, mentre il Pensiero della Ragione cercava di rimuoverlo. […] Una caratteristica di molto pensiero contemporaneo è invece quella di elaborare tecniche di Ragionevolezza per muoversi nel Labirinto, senza rimuoverne l’immagine, senza volerlo ridurre a un ordine definitivo e tuttavia senza abdicare alla necessità di disegnarvi percorsi praticabili. Agli opposti ideali dei Distruttori del Labirinto e delle Vittime (magari complici) del Labirinto, possiamo contrapporre una scienza media che si propone di convivere umanamente col e nel labirinto”.
Il rizoma, piaccia o non piaccia, è il mondo in cui viviamo. La scuola è chiamata ad aiutare i giovani a muoversi nel rizoma, in una struttura in cui è difficile creare delle porte d’ingresso, e per i giovani trovarle, ma anche tracciare percorsi laddove non esistono. Occorre la cooperazione del soggetto che deve compiere il percorso perché il percorso stesso diventi possibile. La foto di liceo oggi quindi è semplicemente la foto di ciò che c’è, di un edificio che rappresenta un modello culturale che non è più l’unico, isolato nella campagna, nel deserto ma uno dei tanti edifici e la presenza dei tanti può comportare sia la scomparsa del vecchio liceo e di tutto ciò che di positivo rappresenta sia l’armonizzazione con il nuovo grazie alla capacità di costruire relazioni, integrarsi nel nuovo contesto. È una sfida aperta, una sfida all’interno della quale il liceo parte in svantaggio sia perché tutto il resto è più potente, più aggressivo, più invitante sia perché il liceo non sempre riesce a trasformare le sue potenzialità in strumenti, a liberarsi di quegli aspetti della tradizione che diventano vincoli, fardelli. Gli studenti, i giovani sono immersi in questo caos dove c’è chi spinge da un lato chi spinge da un altro. La scuola deve dare di strumenti per poter uscire all’essere semplicemente spintonati e per farlo deve partire dall’ascolto e dallo spazio da lasciare all’eresia. Troppo spesso la scuola parte dal “tu devi”. Se questo tu devi non si aggancia né ad una dimensione razionale di senso, e ciò è difficile perché non c’è un filo di Arianna predefinito, né ad una dimensione affettiva di entusiasmo, di passione, il tu devi non funziona e l’edificio verrà sommerso da tutto ciò che lo circonda, anche da quei brutti di orrendi palazzi che rappresentano le dimensioni più negative della cultura della nostra società. Una scuola che si lega troppo strettamente alla tradizione, che basa la sua identità prevalentemente sulla memoria del suo passato rischia di non essere utile ai giovani studenti così come la scuola che insegue solo le mode, che dà ai giovani solo ciò che vogliono, che non sa diventare anche lo strumento con cui si afferma il senso del limite, della responsabilità, una scuola che trasforma la tolleranza in indifferenza, la comprensione in giustificazione di ogni comportamento.
massimocec marzo 2021
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