Fotografare Massa, almeno per me, non è facile. È una città che si sottrae al mio sguardo, che non vuole rivelarsi, che confonde le acque. Quello che per ora vedo è un centro storico piccolo, forse poco vissuto, solo transitato o usato. Un centro circondato da una periferia estesa, caotica informe, in parte degradata.
Qualcuno mi ha parlato in modo entusiastico e retorico della presenza a Massa di Pascoli durata circa tre anni, tra il 1884 e il 1887, prima di partire per Livorno, una presenza dovuta all’incarico di docente presso il locale Liceo Classico Pellegrino Rossi. La curiosità mi ha spinto a cercare tracce e a leggere qualche testo per capire come il Pascoli aveva vissuto la sua esperienze, simile alla mia, di immigrato.
Era il 18 settembre 1884 quando a Giovanni Pascoli ricevette la notizia che avrebbe insegnato al Liceo Pellegrino Rossi di Massa. Avrebbe lasciato Matera e sarebbe andato a vivere nella città che si affaccia sul mar Tirreno protetta dalle Alpi Apuane, la città dove si diceva che gli orti circondassero ogni casa, dove il freddo, se c’è, è asciutto e il cielo azzurrissimo.
C’è una poesia dedicata a Massa che forse rivela come Pascoli, a differenza di quanto è successo a me, anch’io ospitato da questa storica scuola come preside (non riesco a definirmi dirigente scolastico) dal 2015 al 2020, sia invece riuscito a “vedere” tutte queste qualità di Massa, a trovare una sorta di filo conduttore che scorre tra le case, gli orti, gli aranceti e le persone che io non riesco a scorgere:
MASSA
Siede Massa tra lucida verzura
d’aranci, a specchio del tirreno mare;
vedi tagliente dietro lei spiccare
come un zaffiro immenso la Tambura:
verdeggiante e declive in una pura
chiarità d’alba il Belveder t’appare;
sola, in disparte sembra minacciare
nubi passanti la Brugiana oscura.
Mi sveglia il canto delle capinere
tra le magnolie, e m’assopisce un lento
ronzìo di ruote e romba di gualchiere.
Come bimbo cullato io m’addormento;
e allor fugge, allor vola il mio pensiere,
ed in Romagna accanto a voi mi sento.
Una fotografia che stento a riconoscere come una possibile immagine di questa città. Ogni tanto mi capita di vagare a piedi per le periferie alla ricerca di indizi di quel luogo di cui parla Pascoli che porta a svegliarsi al canto delle capinere e ad assopirsi trasportato in altri luoghi importanti per la tua esistenza, accanto a persone assenti vissute come presenti. Trovo invece campi non coltivati. Edifici rurali semidiroccati sommersi da villette costruite senza identità. E ancora una zona industriale semiabbandonata che ha cancellato e reso quasi non più riconoscibile la precedente zona agricola, se si eccettua qualche rudere sopravvissuto tra i campi e gli edifici industriali. Non riesco a trovare il filo conduttore che può unire tutte queste immagini incoerenti, a rintracciare una narrazione che chiami all’ascolto visivo del senso che si ricompone.
Ancora un’immagine, quella della casa di Pascoli vista con gli occhi di una delle sorelle.
“Si arrivò a Massa il 3 maggio sul mezzogiorno, aspettati alla stazione con una comoda carrozza dal buon prof. Agnoloni, che ci accompagnò fino alla casa messa su da Giovannino con tanto amore e tante pene.
La casa, anzi la villa, era a metà di una grande chiusa (uno dei più begli “orti” massesi), in parte coltivata a viti e ortaggi e in parte ad aranceti e limoneti. Ne era affittuario un bravo contadino con numerosi figli tra cui quel Fiore ricordato nella poesia “Il Lauro” delle “Myricae ”. La villa aveva ai lati, da una parte un ’alta siepe di bosso, dall’altra una folta macchia di rose borraccine, allora in piena fioritura.”
Sono stato in quel giardino proprio in occasione di una rappresentazione teatrale che ricostruiva il periodo della vita di Pascoli a Massa. Era una rappresentazione associata alla protesta contro il progetto di trasformare quel giardino in un parcheggio. Da un lato uno scempio e dall’altro una retorica invadente e stonata. Per fortuna la vista dell’orto con il suo ombroso vialetto, le statue grigie e coperte dal muschio, eco di un mondo scomparso, il muro scalcinato sono ancora lì a consolare lo sguardo che rischia di perdersi nel vuoto dello spazio omologato, pur non riuscendo a cancellare la sensazione di una mancanza, di qualcosa che c’era e ora non c’è più.
IL LAURO
Nell’orto, a Massa – o blocchi di turchese,
alpi Apuane! o lunghi intagli azzurri
nel celestino, all’orlo del paese!
un odorato e lucido verziere
pieno di frulli, pieno di sussurri,
pieno de’ flauti delle capinere.
Nell’aie acuta la magnolia odora,
lustra l’arancio popolato d’oro –
io, quando al Belvedere era l’aurora,
venivo al piede d’uno snello alloro.
Sorgeva presso il vecchio muro, presso
il vecchio busto d’un imperatore,
col tronco svelto come di cipresso.
Slanciato avanti, sopra il muro, al sole
dava la chioma. Intorno era un odore,
sottil, di vecchio, e forse di vïole.
Io sognava: una corsa lungo il puro
Frigido, l’oro di capelli sparsi,
una fanciulla … Ancora al vecchio muro
tremava il lauro che parea slanciarsi.
Un’alba – si sentia di due fringuelli
chiaro il francesco mio: la capinera
già desta squittinìa di tra i piselli –
tu più non c’eri, o vergine fugace:
netto il pedale era tagliato: v’era
quel vecchio odore e quella vecchia pace:
il lauro, no. Sarchiava lì vicino
Fiore, un ragazzo pieno di bontà.
Gli domandai del lauro; e Fiore, chino
sopra il sarchiello: Faceva ombra, sa!
E m’accennavi un campo glauco, o Fiore,
di cavolo cappuccio e cavolfiore.
E questo togliere, tagliare i segni che animano la memoria, i ricordi, le piccole passioni per fare spazio a ciò che serve a creare questo vuoto di identità? Togliendo, togliendo lo sguardo non riesce più a riconoscere, a vedere? Non so, la nostalgia è un sentimento insidioso da guardare con sospetto. Di fatto però le fotografie scattate in spazi vuoti di memoria, di simboli, di evocazioni continuano a rimanere episodi isolati. Manca un legame che consenta di vedere queste vie, che consenta a queste case di mostrare ciò che non è immediatamente visibile. La sensazione è quella di uno spaesamento che rende difficile ascoltare narrazioni. Visivamente tutto ciò si traduce nell’eterogeneità delle immagini che non riescono a comporsi in una trama.
Io vivo forse nello smarrimento dell’immigrato, ma comunque anche Pascoli, nonostante il suo riuscire a vedere ciò che io non riesco a far emergere, incontrò qualche difficoltà con i massesi. Dopo l’arrivo delle sorelle si sparse subito un chiacchiericcio che lo fece molto infuriare. Si diceva “che quel professorino se la passasse […] allegramente, visto che in casa aveva una specie di harem. E che quelle due ragazze che teneva con sé le avesse addirittura rapite”. Sembra che il chiacchiericcio poi sia terminato e che il Pascoli abbia superato le sue furie. La vita di Pascoli a Massa doveva essere piuttosto appartata. Si dice che raramente si facesse vedere in città, però sembra che gli piacesse riunirsi con pochi amici nell’orto di qualche trattoria a bere un buon bicchiere di vino. Nonostante ciò, forse per le bellezze naturali che Pascoli era riuscito a “vedere”, o forse proprio per quella vita monotona che era una della caratteristiche della vita massese, Pascoli tornò alla poesia, riuscì cioè ad abbandonare lo spaesamento dell’immigrato che spesso si traduce nel silenzio dell’anima. E i massesi sono fieri di aver contribuito a questa rinascita. Per questo si sono opposti allo sciagurato progetto del parcheggio nel giardino dove questa rinascita ebbe luogo. Perché se realizzato, porterebbe via un pezzetto della loro memoria, un mattone della loro identità.
massimocec febbraio 2012