Montesquieu nel 1728 dice di Livorno “È una gran bella città, molto popolata e ben fortificata. Le vie sono larghe, dritte, ben tracciate. La piazza è molto grande, e la città ridente. Ci saranno 40.000 abitanti di tutte le razze: Greci, Armeni, Cattolici, Protestanti; ma gli Ebrei arrivano a 6.000 o 7.000, e sono fortemente protetti dal governo. … Il mare penetra nella terra e fa come una specie di golfo, ed è lì che hanno fatto il porto di Livorno, mediante una gettata o molo.”.
Qualche decennio dopo, alla fine dell’800, Henry James scrive di Livorno “A Livorno il fatto che più mi ha colpito, ed è naturale che così accada all’inizio, è che, pur essendo in Toscana, essa ne è apparentemente estranea. Il viaggiatore alla ricerca del colore locale deve accontentarsi dell’azzurro intenso e disteso del Mediterraneo. Le strade lontane dalle banchine sono moderne, eleganti e si incrociano ad angolo retto; potrebbero essere quelle di Liverpool, se non fosse per gli stucchi dai colori chiari e sbiaditi dal solo. … Di architettura interessante, frutto del proprio modo di vivere, o quanto meno dei suoi agi, Livorno è singolarmente povera. Non possiede né una chiesa degna di una qualche attenzione, né un palazzo municipale, né un museo ed inoltre si distingue, unica città italiana, per essere priva di opere pittoriche. In un angolo poco in vista nei pressi dei moli c’è la statua di uno dei primi granduchi di Toscana, il cui ricordo si affida ai posteri per aver egli compito imprese oramai sbiadite, prima fra tutte quella di aver reso tributari certi mori. Quattro negri colossali, in pessimo bronzo, sono incatenati alla base del monumento che costituisce in tal modo un gruppo scultoreo abbastanza fantasioso…”. Già Stendhal nel 1814 aveva detto che a Livorno non c’è “niente che sia degno di nota” se non strade organizzate in modo razionale, larghe e diritte, un mare triste perché come uno stagno finisce finisce contro una terra più alta.
Dickens a sua volta aveva detto nel 1845 che Livorno “è una città prospera, industriosa e concreta, dove l’ozio è spazzato via dal commercio. I regolamenti che vi vengono osservati, per quanto riguarda i traffici e i mercanti, sono illuminati e liberi: e la città, naturalmente ne beneficia.” Poi aggiunge però: “Livorno gode di cattiva fama per via degli accoltellatori e ad onor del vero bisogna riconoscergliela, perché non molti anno fa, c’era un circolo di assassini, i membri del quale non portavano rancore a nessuno ma pugnalavano la gente (a loro perfettamente sconosciuta) nelle strade di notte, per il piacere e l’eccitazione che procurava loro.” L’ultima parte del resoconto di Dickens ha per me qualcosa di familiare, legato alla presenza fino a qualche tempo fa del mercatino americano, avvolto da un velo di mistero e di illegalità (non si sa se vera o frutto di leggende metropolitane). Ad ascoltare i racconti di chi lo frequentava vi si poteva comprare tutto a poco prezzo, con un accenno talvolta velato altre volte esplicito al fatto che la presunta provenienza della merce fosse avvolta da forme vere o presunte di illegalità (furti, contrabbando).
Livorno è questo: il mare, il porto, una città senza un passato medievale da condividere con tutte le altre città della Toscana e quindi niente mura, niente stradine, niente torri, niente chiese monumentali. E poi i bagni Pancaldi, l’Accademia della Marina, Le ville liberty dell’Ardenza, piazza della Repubblica, la fortezza vecchia, la terrazza Mascagni.
Per me da piccolo inoltre era un dei luoghi prescelti dai miei genitori per la gita domenicale. Partenza in treno, visita allo zoo (il Parterre), all’acquario, passeggiata al porto, terrazza Mascagni e rientro in serata. In particolare mi ricordo dello zoo con i leoni, l’orso, le scimmie, le caprette, i pappagalli, i pavoni, le oche. Era una tappa quasi obbligatoria perché era vicino alla stazione, era all’aperto e consentiva di lasciarci liberi come in un parco. È lì che ho iniziato a fare le prime fotografie con una macchinetta analogica che richiedeva una lunga preparazione e attese (acquisto di rullini, dosaggio dei soggetti da fotografare per non sprecare gli scatti, attesa per vedere come erano venuti) tanto che poi ho rinunciato a proseguire con questo gioco e mi sono per molto tempo anche dimenticato di averlo praticato.
Ma la tappa più frequente era Montenero. Ad aspettarci lì per portarci sopra la collinetta dove c’è il santuario c’era la funicolare, un viaggio brevissimo ma entusiasmante per un bambino di campagna per l’originalità del mezzo. Appena arrivati sul piazzale si poteva gettare uno sguardo dall’alto a Livorno, al suo mare, al porto. Talvolta era possibile intravedere lungo l’orizzonte le quattro isole (Capraia, Gorgona, Corsica ed Elba). Ma Montenero era anche la visita al santuario, e lì iniziava per me una sorta di inquietudine che mi accompagnava fino al rientro a casa. La causa di questa inquietudine erano tutti gli ex voto che si trovano nell’edificio religioso, quadretto di incidenti stradali, volanti d’auto rotti, stampelle, vesti di bambini. Mi si insinuava una sottile angoscia che rimaneva fino a quando a casa non riuscivo a prendere sonno. Del panorama non rimaneva niente, solo questi oggetti mi restavano impressi
Poi ho scoperto il quartiere Venezia con i suoi canali, le barche, la sua storia. Livorno alla fine del Cinquecento era costituita da un gruppo di case abitate da poco più di 500 abitanti, un gruppo di case circondate da territori paludosi e malsani. Nel 1609 gli abitanti erano oltre 5.000 grazie ad esenzioni e privilegi cocessi dal Granduca Ferdinando I°. Furono chiamate maestranze da Venezia e furono adottate tecniche costruttive all’avanguardia per popolare la zona dei canali, da lì, dal nuovo paesaggio urbano il nome di Venezia Nuova. Nacque lì il centro commerciale della città che durò fino all’Unità. Furono scavati fossi, costruiti scali e punti d’approdo, banchine portuali, si creò un centro di vita pulsante e intensa. Oggi di tutto ciò rimangono solo poche tracce, il piano dell’acqua è occupato solo da barche e da magazzini chiusi da pesanti saracinesche. I livornesi che frequentano questi moli sono quasi esclusivamente pazienti pescatori.
Infine Livorno è diventato il luogo della partenza per alcune delle mie più belle vacanze, quelle nell’isola di Capraia, della partenza della nave, del periodo avvolto dal fascino dell’essenziale, del minimo indispensabile per la sopravvivenza, del risveglio sul mare con il richiamo dei gabbiani che sorvolano la torre nel cielo non ancora limpido, delle camminate per sentieri deserti, assolati per raggiungere baie abitate solo da aggressivi gabbiani. E Livorno è diventato anche il luogo del melanconico ritorno serale alla normalità, del saluto ai compagni di quelle brevi avventure.
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