Ognuno di noi oggi forse intuitivamente pensa di saper riconoscere una città, ma non è semplice definirla, ovvero individuare la soglia di parole essenziali per dire che cosa è una città. Di conseguenza non è facile individuare l’essenza del paesaggio urbano e ancora più difficile è fotografarlo.
Che cosa è quindi una città? Che cosa dobbiamo fotografare se vogliamo fotografare una città?
Aristotele descrive il concetto di città come un insieme di famiglie che compongono un villaggio, e un insieme di villaggi compongono una città. I Romani distinguevano la parte umana (civitas) da quella costruita (urbs), ovvero fisica. Con la formazione dei Comuni e di conseguenza con le autonomie cittadine, a fare la città non erano più le pietre, ma i cittadini, che venivano chiamati cives, ovvero i cittadini che risiedevano all’interno di una cinta muraria. Le mura nel medioevo aiutavano a definire il concetto di città, erano l’oggetto che permetteva ad un individuo di concepire quel luogo come una città. La città era nettamente separata dalla campagna sia fisicamente che come modello di vita.
Oggi non abbiamo più certezze di questo tipo. Se pensiamo al solo aspetto fisico e alla possibilità di fotografare la città avendo come punto di riferimento la contrapposizione con la campagna allora dobbiamo tener presente che la campagna non è più l’elemento che si contrappone in modo netto alla città: non è l’altro, non è il fuori. Milioni e forse miliardi di persone sono transitate dalla campagna alla città nel secolo appena trascorso. Le città hanno abbattuto le mura, le hanno sostituite con ampi viali, le periferie come le acque di un fiume in piena hanno esondato e i loro anonimi edifici hanno cancellato gran parte delle campagne. Dopo tale migrazione poi, milioni di individui hanno poi deciso di abbandonare le città e di ritornare in campagna ma con nuove abitudini, nuovi stili di vita. La campagna ha subito cioè una sorta di urbanizzazione almeno a livello di stili di vita. Città e campagna non appaiono più due realtà antitetiche. Il paesaggio urbano, soprattutto nel mondo occidentale, e quello agricolo oramai differiscono in gran parte solo per densità di elementi e non per tipologia di edifici o per stili di vita.
Cosa definisce la città come tale? Esiste qualche cosa che possiamo definire la sua essenza? Musil ne L’uomo senza qualità così si esprime: “Non diamo particolare importanza al nome della città. Come tutte le metropoli era costituita da irregolarità, avvicendamenti, precipitazioni, intermittenze, collisioni di cose e di eventi, e, framezzo, punti di silenzio abissali, da rotaie e da terre vergini, da un gran battito ritmico e dall’eterno disaccordo e sconvolgimento di tutti i ritmi; e nell’insieme somigliava a una vescica ribollente posta a un recipiente materiato di case, leggi, regolamenti e tradizioni storiche” (Robert Musil L’uomo senza qualità, torno, Einaudi, 1982 p. 10). La città quindi è una dimensione dell’essere estremamente complessa, inafferrabile con le parole, in sé anonima e quindi non identificabile con l’attribuzione di nomi che non riescono a coglierne l’anima. Wittgenstein usa l’immagine della città per descrivere la complessità dei concetti come quello del concetto di linguaggio. Non esiste un’essenza che consente di individuare un grumo comune di elementi, ma un groviglio di fattori come un groviglio sono i quartieri della città che si intrecciano: “Il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: Un dedalo di stradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade diritte e regolari, e case uniformi.”(Ricerche filosofiche parte prima 18)
E se vogliamo fotografare una città cosa dobbiamo andare a cercare? Fotografare la città è quindi molto difficile a meno che non si ricorra agli stereotipi a uso e consumo dei turisti per i quali la città coincide con i centri storici e i loro monumenti più noti. Senza tale identità, ciò che accomuna le città moderne è l’anonimato. Per tale motivo oggi fotografare la città sembra possibile solo fotografando i monumenti storici, le piazze famose, i palazzi lasciati in eredità dal passato, perché solo tali materiali sembrano consentire alla città di uscire dall’anonimato a cui lo sviluppo industriale prima e quello postindustriale poi l’hanno condannata. Ma tali oggetti sono stati fotografati e rifotografati e risultano indecenti come le parole appaiono a Hofmannsthal nella sua Lettera a Lord Chandos, indecenti perché inadeguate, inadatte, incapaci di cogliere con la loro staticità una realtà disomogenea, instabile, in perenne trasformazione. Possiamo trovare le fotografie dei monumenti che dovrebbero consentire di assegnare una specifica identità a ciascuna città ovunque, su libri, nella rete. Ma allora il fotografo è condannato alla ripetitività, un po’ come accade per la lirica che ripropone continuamente la stessa storia con variazioni solo degli aspetti collaterali, i costumi, la scenografia, gli allestimenti. Esiste una strada di uscita? Forse, e per salvarsi può darsi che si debba lavorare sui particolari, sui dettagli, sul contesto per mettere in relazione un soggetto che cerca di esprimere, descrivere e definire ciò che vede e un essere che continuamente gli sfugge, si modifica, gioca a nascondino.
Gli aspetti identitari delle città sono oramai stati fotografati in tutti i modi possibili. Sembra che oramai rimangano da fotografare solo i residui e tali residui sembrano senza identità, ma forse non è così. I residui possono essere elementi importanti per l’identità delle città se non vissuti come scarti, come rifiuti inutili. Sono le tracce che l’essere lascia dietro di sé. Partendo da tale presupposto esistono quindi delle possibili vie di fuga. Almeno tre.
La prima di queste vie presuppone l’aver stabilito con quella città un forte legame emotivo, positivo o negativo, ma comunque in grado di costituire una sorta di filo rosso da cui farsi guidare nella scelta di cosa fotografare. La fotografia non è più in questo caso la foto della città ma l’evocazione del legame emotivo che lega il fotografo con la città. È questo il caso ad esempio della Milano di Basilico, una legame che Basilico stesso ha sottolineato nella sua “Lettera alla mia città” (pubblicata in Interrupted City/La ciudad interrmpida, Actar, Barcelona, 1999 e in Abitare la metropoli, Contrasto, Roma, 2013).
“Io vivo in questa città.
Amo questa città come si può amare qualcuno a cui ci lega un vecchio rapporto di familiarità e di amicizia. È la città nella quale sono cresciuto. Ha dato forma alle mie passioni, alle mie speranze, alle mie angosce.
Ammiro le parti belle e le parti e le parti misere del suo corpo, dai quartieri alle case, ai muri, ai selciati.
Ha una sua bellezza e una sua bruttezza, esterne, misurabili, che sono l’incarnazione della sua storia, che si esprimono nei suoi caratteri fisici e che acquistano maggiore senso nel confronto con altre città.
Questa città è simile ad un essere vivente, è un organismo che respira e si dilata sopra di noi, attorno a noi, come un mantello protettivo che ci avvolge e ci confonde nello stesso tempo.
Negli anni è diventata per me come un porto di mare, un luogo privato dal quale partire per altri mari, per altre città, per poi ritornare e quindi ripartire. Un porto, cioè un luogo fermo, stabile, dove accumulare reperti e impressioni di luoghi lontani.
Immagini che si depositano nella memoria, come una sostanza che la città sa far propria e trattenere, ma che sa restituire metabolizzata in altre immagini, ricomponendo presente e passato, vicino e lontano, a piacimento, secondo le pulsazioni del cuore.
Questa città mi appartiene e io le appartengo, quasi fosse un frammento fluttuante nel suo immenso corpo.
Mi ossessiona un bisogno costante di conoscenza della sua fisicità, un bisogno di rileggerne di nuovi tratti, le parti nascoste ma anche i luoghi noti e le sembianze più conosciute.
Tra noi c’è un varco aperto che permette uno scambio continuo di percezioni e un punto di vista speciale.
Talvolta l’impressione che si manifesti in modo più nitido, all’improvviso dinanzi agli occhi, che mi informi del suo ingombro, della sua consistenza, della sua materia della sua fisicità.
La città mi investe mi abita.“.
E la fotografia di Gabriele Basilico è proprio una fotografia che cerca questa fisicità, addirittura cancellando quasi totalmente la presenza umana e apparentemente anche il trascorrere del tempo. È una fisicità fatta di palazzi, edifici, fabbriche, strade che da alla città una sua autonomia rispetta coloro che la abitano. È un rapporto che forse per altri può sembrare astratto, freddo. Da un certo punto di vista può venir fuori una Milano verso la quale Eugenio Montale nutre un sentimento opposto tanto che alla domanda se poi a Milano oggi ci si vive bene, risponde “Sì, ignorandola“.
Il legame che Basilico rivela con la sua città e molto diverso anche da quello di un fotografo come Doisneau con Parigi, fotografo che cerca di far emergere un mondo “dove stavo bene, dove la gente era gentile e dove trovavo la tenerezza di cui avevo bisogno. Le mie fotografie volevano dimostrare che un mondo del genere poteva esistere.” Un rapporto che viene meno con la trasformazione della città: “il fascino delle città – eccoci al punto – e come quello dei fiori, sta in parte nel tempo che scivola loro addosso. Il fascino ha bisogno dell’effimero. Niente di più indigesto di una città museo consolidata da protesi di cemento. Parigi non corre il rischio di diventare una città museo, dinamismo e l’avidità degli investitori ne sono la migliore garanzia. La loro frenesia di buttare giù tutto è meno riprovevole della goffaggine nel costruire complessi abitativi sbagliati che funzionano solo grazie a continui ed energici interventi della polizia.
Tutte quelle agenzie bancarie, quegli edifici di vetro, quelle facciate a specchio sono il segno di un’architettura del riflesso. Non si vede più quel che succede nelle case degli altri e si ha paura dell’ombra. La città diventa astratta, riflette solo se stessa. In questa prospettiva urbana della gente sembra quasi un elemento di disturbo. Prima della guerra c’erano dei recessi dappertutto, adesso si cerca di eliminare l’ombra, si squadrano le carreggiate, non si ha più il diritto di farsi un ripostiglio senza l’autorizzazione personale del ministro della cultura.
Ma mio nonno aveva costruito un piccolo immobile. Accanto c’era la tettoia di un patronato, più avanti una ditta di imbiancatura con i materiali riposti sotto i teloni. Ognuno aggiungeva il suo pezzo a quello dell’altro, tipo telescopio, come una specie di gioco. Si vedevano muratori in tuta blu, imbianchini con la gamba nella biacca, carpentieri in giacca di velluto… Guardi cos’è diventato il Faubourg Saint-Antoine: gli artigiani vengono fatti sloggiare dalle agenzie pubblicitarie dalle gallerie di design. Il terreno è talmente caro che solo le grosse imprese possono costruirvi e, perché renda, costruiscono “in grande”. Cubi, quadrati, rettangoli tutto rigorosamente squadrato. Il disordine bandito. E invece un po’ di casino ci vuole, è lì che si annida la poesia. Non avevamo nessun bisogno che gli investitori ci offrissero generosamente cosiddetti “spazi ludici”, ce ne inventavamo da soli. Oggi al minimo tentativo di “fai-da-te” ti piomba addosso la commissione urbanistica. La spontaneità è bandita. La vita spaventa.”
La Parigi di Doisneau è una città delle persone, della dimensione umana che forse stimola per chi le guarda oggi l’ambiguo sentimento della nostalgia più che il sentimento della partecipazione, della condivisione di una forma di vita. Rimane comunque guida della fotografia il sentimento che lega il fotografo con la città. Verso questa idea della città sembra indirizzarsi anche la fotografia di Gianni Berengo Gardin, che cerca nella sua Venezia o anche nella stessa Milano una dimensione diversa da quella di Basilico. La Milano di Basilico sembra un’altra Milano rispetto a quella di Gianni Berengo Gardin (Gente di Milano); quella di Berengo Gardin è una Milano fatta soprattutto di persone, di atteggiamenti, di sguardi, di istanti colti nel fluire del tempo.
A metà tra la Milano di Basilico in cui prevale la dimensione fisica della città e la Milano di Berengo Gardin c’è la Milano di di Uliano Lucas, una Milano in cui la dimensione fisica incide profondamente sulla dimensione umane, una Milano estranea, senza un’anima in cui le geometrie ordinate degli edifici rivelano la solitudine il distacco tra l’uomo e la sua città. Una città che non riesce più a distinguersi dalle tante altre metropoli postmoderne sparse per il mondo e che si rivela estranea alla dimensione umana che cercava Doisneau; in cui la fisicità rende impossibile quella fotografia. Ancora però è il legame sentimentale che guida, anche se ancorato ad una visione ampiamente critica e pessimistica, tesa a cogliere l’inquietudine di un’estraneità più della aderenza a ciò che viene sentito come proprio. La prospettiva di Lucas pone alla fotografia basata sul sentimento un enorme problema: è ancora possibile fotografare la città attraverso l’amore verso essa, senza cadere nella nostalgia, nella rievocazione di un passato che forse non c’è mai stato?
Un secondo modo di guardare la città è quello della scoperta di punti di vista inusuali in grado di sconfiggere in qualche modo l’omologante pressione sulla città da parte della società globale. Un tentativo del genere lo rintraccio nelle fotografie di Irene Kung e le sue città invisibili. Foto che basano sul senso di straniamento prodotto dal contrasto tra la rappresentazione di monumenti simboli di quella città e della sua identità e l’oscurità in cui sono collocati. La prospettiva che li separa la loro immagine turistica per restituirli ad una nuova originalità che permette di accostarsi a loro con l’occhio curioso di colui che scopre qualcosa di nuovo. Seguendo un po’ un’idea simile, Basilico ha fotografato Roma. La Roma di Gabriele Basilico è una Roma vista dal fiume, dal Tevere. Sono foto che offrono uno sguardo su una Roma rivelata con un occhio attento alle caratteristiche dell’esplorazione, della scoperta. Uno sguardo ancora più accattivante perché guidato da una luce in cui manca la solarità della cartolina, una solarità che oramai ostacola la possibilità di altri sguardi. Viene fuori una Roma autunnale simile alle città del Nord. Il fiume è come una strada che guida alla scoperta della città sulla spinta della corrente che scorre da nord verso sud. Ancora la notte che crea un mondo trasfigurato, nuovo. O ancora l’improvviso apparire di qualcosa di inaspettato che sconvolge l’abitudinario e rende la città cornice, spettatrice in grado di spingere sullo sfondo il noto e di mettere in primo piano il nuovo e l’inatteso, di rompere uno stato di quiete e di avviare la ricerca di un nuovo equilibrio visivo in grado di attribuire nuovi significati alle cose. È una prospettiva che ha un suo interesse e un suo fascino ma che non mi convince, che rischia di spostare l’attenzione sugli effetti fotografici più che sugli oggetti o i soggetti della fotografia. Gianni Celati dice: “In ogni racconto la cosa più importante è la soglia d’intensità che viene scelta per narrare le cose. Se l’intento è il voler vedere (o descrivere) l’eccezionale, la soglia di intensità dovrà essere alta, e quasi normalmente bisognerà ricorrere a temi sensazionali: ad esempio nelle foto, ad aggressioni visive, a fatti insoliti, vedute artistiche, orrori seducenti e spesso fuori luogo.” (“Finzioni a cui credere” in Geografie del narrare, Diabasis, 2004)
Infine la terza possibilità è quella suggerita da Ghirri e dall’interrogarsi su come rappresentare mediante la fotografia il paesaggio antropizzato delle città e delle campagne della nostra società. La risposta viene dal il suo interesse verso fotografi come William Eggleston e altri che si proponevano di registrare con le loro foto lo scorrere uguale delle giornate nelle città e negli agglomerati dell’America, di indagare le trasformazioni prodotte dalla mano dell’uomo sul paesaggio americano alla ricerca ricerca di un senso della fotografia che metta da parte il concetto di bello predeterminato da celebrare come avevano fatto Ansel Adams o Edward Weston, per sostituirlo con la rappresentazione dell’incongruenza delle forme e degli strati, in una prospettiva che rievoca un po’ l’Adorno della Teoria estetica, il saggio con il quale si propone che lo scopo dell’arte non sia ricercare la bellezza ma piuttosto mettere sotto gli occhi di tutti le contraddizioni della società capitalistica che si tenta di cancellare proprio per mezzo di quella patina dolciastra in cui si vogliono immergere tutti i prodotti necessari a perpetuare l’ordine economico e sociale dato. Ghirri aggiunge alla prospettiva che tende a negare la ricerca della bellezza in campi scontati il tentativo di rinnovare lo stupore di fronte al mondo, l’amore per le cose semplici, una nuova estetica dell’ovvio. La sua idea di fotografia si materializza nel progetto “Viaggio in Italia”, un progetto realizzato in collaborazione di altri fotografi come Cresci, Guidi, Basilico, Chiaromonte, Tinelli, un progetto che vuole essere alternativo al viaggio degli intellettuali europei dell’epoca moderna che venivano in cerca di rovine e opere d’arte e a quello dei moderni turisti di massa che sono guidati dagli stereotipi di quelle bellezze e di quelle rovine che avevano attratto per secoli i i grandi pensatori, i poeti, gli artisti. Arturo Carlo Quintavalle vedeva nel progetto “Viaggio in Italia”, uno dei progetti cui Ghirri, aveva dedicato gran parte del suo lavoro agli inizi degli anni Ottanta, “una ricerca dell’Italia dei margini, dell’ambiguità, del finto, del doppio, dell’Italia sostanzialmente esclusa, dell’Italia che però è anche la sola che noi conosciamo”
Ghirri è meravigliato e attratto dagli oggetti anche se sono quelli del quotidiano e scrive:
“In fondo in ogni visitazione dei luoghi portiamo con noi questo carico di già vissuto e già visto, ma lo sforzo che quotidianamente siamo portati a compiere, è quello di ritrovare uno sguardo che cancella e dimentica l’abitudine; non tanto per rivedere con occhi diversi, quanto per la necessità di orientarsi di nuovo nello spazio e nel tempo”. (Paesaggio italiano, 1989).
“La sguardo è memoria, è immaginazione, è percezione di nuove possibilità, tutte ugualmente importanti, tutte ugualmente diverse. Lo sguardo non riesce a delimitare il reale. Ci prova, ma si aggroviglia. Cerca l’essenza perdendosi nella nebbia. Trova lo stupore su una spiaggia qualsiasi. Intravede la fine e ritorna all’origine. Fino all’inizio del mondo.”
“Pensieri, atti, gesti, visioni, suoni, parole, oggetti, etnie ed echi provenienti da ogni luogo, in maniera evidente e massiccia, trasformano e marchiano la modernità. Nelle nostre esistenze diventa cifra epocale questo senso di sradicamento, questo dover continuamente ritrovare il filo conduttore, dipanarlo tra miliardi di piccoli snodi e incroci, fisici e mentali, un continuo ritrovarsi per perdersi subito di nuovo”. (Luigi Ghirri, Lo sguardo inquieto, un’antologia di sentimenti, 1988).
«Forse alla fine i luoghi, gli oggetti, le cose o i volti incontrati per caso, aspettano semplicemente che qualcuno li guardi, li riconosca e non li disprezzi relegandoli allo sterminato supermarket dell’esterno. Forse questi luoghi appartengono più al nostro esistente che alla modernità e non solo ai deserti o alle terre desolate […]. In tutto questo mi sembra di leggere, soprattutto, una sorta di stato di necessità affinché il paesaggio di cui parliamo, luogo del presente, si trasformi e non rimanga luogo di nessuna storia e di nessuna geografia».
Questi tre punti di vista possono costituire delle linee guida, dei filtri per lo sguardo curioso e indagatore che altrimenti rischia di essere sommerso dalla caoticità uniforme dello spazio urbano e di rimanere quindi intrappolato dallo stereotipato sguardo del turista. Sono filtri costituiti da altre immagini, da parole messe in fila da scrittori che sono riusciti a individuare un filo conduttore, un senso nel caos che rende invisibile la realtà. Personalmente sono incuriosito soprattutto dall’idea di Ghirri perché mi sembra suggerisca anche una risposta per l’interrogativo emerso di fronte al primo modo di fotografare la città, quello basato sul legame emotivo “È ancora possibile fotografare la città attraverso l’amore verso essa, senza cadere nella nostalgia, nella rievocazione di un passato che forse non c’è mai stato?“. Sì forse è ancora possibile trasformando la nostalgia in riconoscenza per il passato, per ciò che può darci e in ricerca attenta e appassionata l’attenzione sul presente, una ricerca guidata dal senso del possibile, dal rifiuto della dittatura del presente e dalla speranza, se non è più possibile usare il termine utopia.
Ancora Celati dice che le foto di Ghirri sono volutamente a bassa intensità per poter dare risalto alle sfumature, ai profili delle cose e soprattutto a un modo particolare di pensare-immaginare l’esterno: “Perché a questo punto le apparenze, che sono il supporto della rappresentazione esterna, ci stanno a cuore più d’ogni interpretazione complessiva del mondo: infatti sono tutto ciò che abbiamo per orientarci nello spazio” (“Finzioni a cui credere” in Geografie del narrare, Diabasis, 2004). Per Celati le apparenze disperse caoticamente nel mondo organizzate in un racconto diventano lo strumento per organizzare l’esperienza e dar sollievo. Lo sforzo della vita, di ciò che fa la gente dalla mattina alla sera è quello di trovare un possibile racconto dell’esterno. Un racconto è una finzione, ma una finzione in cui è necessario credere per non cadere nel disprezzo di ciò che ci circonda.
Si può fotografare una città se si cerca con la fotografia di costruire una trama, un racconto che dia senso a ciò che vediamo attraverso la fotografia. E oggi questo racconto non può giocare solo sulla nostalgia di un passato che appartiene solo ai ricordi. Abbiamo bisogno di un racconto che ricomponga la trama che unisce passato, presente e futuro.
massimocec 2017
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