La fotografia nella narrativa di Tabucchi

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Il fotografo mi guardò e mi parve che sul suo viso aleggiasse nuovamente un’aria ironica. Teneva una terza fotografia infilata fra le dita come una carta da poker, ma non me la mostrò. Mi disse solo: mi lasci filosofeggiare, perlomeno su quest’ultima foto, mi viene in mente che qualcuno ha detto che la fotografia è la morte perché fissa l’attimo irripetibile. Si passò la fotografia fra le dita, proprio come se fosse un gioco di carte, e continuò: ma poi mi chiedo ancora: e se invece fosse la vita?, la vita con la sua immanenza e la sua perentorietà che si lascia sorprendere in un attimo e ci guarda con sarcasmo, perché è lì, fissa, immutabile, e invece noi viviamo nella mutazione, e allora penso che la fotografia, come la musica, coglie l’attimo che non riusciamo a cogliere, ciò che siamo stati, ciò che avremmo potuto essere, e contro questo attimo non c’è niente da fare, perché ha più ragione di noi, ma ragione di che cosa?, forse ragione del cambiamento di questo fiume che scorre e che ci trascina, e dell’orologio, del tempo che ci domina e che noi cerchiamo di dominare. Fece un’altra delle sue piccole pause, tirò una boccata di fumo e continuò: la vita contro la vita, la vita nella vita, la vita sulla vita?, forse, è un enigma che lascio a lei che guarda questa fotografia”.

Antonio Tabucchi, Immagine (da Per Isabel)

Foto di Michele Tabucchi (Vecchiano 1981)

Il rapporto tra scrittura e immagine, e in particolare il rapporto tra scrittura letteraria e immagine, è un rapporto molto complesso, caratterizzato da una varietà di possibilità e di esiti: talvolta la parola è supporto dell’immagine, didascalia, più spesso l’immagine svolge il ruolo di conferma, di prova, di illustrazione di quanto scritto, altre volte ancora vi sono solo rapporti di coesistenza, di vicinanza spaziale. Poche volte tale rapporto giunge a forme di integrazione autentica, di scambio simbiotico, di relazione all’interno della quale un linguaggio necessita dell’altro. Uno scrittore in cui tale rapporto è particolarmente evidente è Antonio Tabucchi, che ammette questa dipendenza in modo netto ed esplicito quando afferma “Di immagini sono stato avido, lo ammetto, e quante più potevo catturarne più ne ho ospitate nelle mie rètine. E della rosa stessa, quando essa non è nient’altro che una rosa, e delle immagini lasciateci da coloro che rappresentando la rosa cercarono di vedere cosa ci fosse «oltre»” e ancora quando ammette che i suoi racconti “gli giungono soprattutto attraverso gli occhi, più che attraverso le orecchie”. Le immagini di cui parla Tabucchi sono sia immagini statiche, fotografie e dipinti, sia immagini dinamiche, film. Non a caso Thea Rimini, autrice di un saggio sull’uso dell’immagine nelle opere di Tabucchi (Album Tabucchi, Palermo, Sellerio, 2011) afferma che nella casa ideale di Tabucchi dovrebbero esserci, oltre alla libreria, anche una pinacoteca e una cineteca. In Tabucchi  è però particolarmente importante il rapporto tra scrittura e una particolare tipologia di immagini, l’immagine statica derivata da processi tecnologici, la fotografia. Riferimenti alla fotografia si possono trovare in quasi tutti i testi di Tabucchi; la narrativa tabucchiana non si limita ad utilizzare la fotografia come oggetto del contenuto narrativo ma ne integra forme e struttura per realizzare un contesto narrativo che coincide con una particolare concezione dell’esperienza, della vita, dell’esitenza, anzi dell’impossibilità di raccontare l’esistenza, anche se è necessario dire che tale ruolo è condiviso con il cinema e le tecniche del montaggio filmico.

Prima di parlare dell’uso che Tabucchi fa della fotografia nei suoi testi è forse utile cercare di analizzare come viene intesa la fotografia, quale idea della fotografia viene utilizzata da Tabucchi. Come primo elemento è necessario sottolineare che Tabucchi si pone esclusivamente nella posizione di chi guarda le fotografie, del lettore o dello spettatore che usa l’immagine come oggetto che si presenta davanti a lui già definito. La prospettiva di colui che produce immagini, prospettiva che, ad esempio, è presente in Calvino ne L’avventura di un fotografo o in Pirandello nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, è assente nella narrativa dell’autore di Sostiene Pereira e di Notturno indiano. Tabucchi usa la fotografia come fa Barthes in Camera chiara quando dice “non sono un fotografo, troppo impaziente per esserlo: io ho bisogno di vedere subito quello che ho prodotto”.

Come secondo elemento è opportuno sottolineare che Tabucchi appare interessato soprattutto ad un aspetto della fotografia, quello che Roland Barthes chiama punctum.  Tabucchi è cioè interessato al contenuto emotivo che la fotografia riesce ad afferrare, a trasmettere, a far rivivere in chi la guarda. Trascura lo studium, la dimensione della fotografia come prodotto artigianale o artistico, come realizzazione ottenuta attraverso l’esercizio di specifiche competenze che consentono di congelare nell’immagine la dimensione culturale ed estetica che circondano chi ha fatto le fotografie e chi le guarda. Tabucchi rivolge invece il suo sguardo soprattutto al contenuto per così dire emotivo e involontario della fotografia, perché in esso vede una sorta di motore che può alimentare la narrazione, la capacità di produrre senso, anche se tale senso non coincide con la costruzione di un ordine razionale e cronologico, di una riflessione speculare del reale così come è. Le foto che Tabucchi usa nei suoi testi sono soprattutto istantanee, foto che per lo più possono essere parte all’abum di famiglia, foto in cui è sempre presente la figura umana. Solo in Notturno indiano la fotografia che viene inserita nel testo è una foto che fa parte di un libro di fotografie. In qualche altro caso vengono utilizzate da Tabucchi le cartoline. La figura umana comunque ha un ruolo di primo piano. Le persone nelle foto di Tabucchi sono raffigurate solo in parte, sono sfocate, talvolta seminascoste o prese di spalle, persone che non si rivelano nella loro interezza e non si presentano mai come immagine nitida. Narrazione e fotografia, personaggi e persone fotografate rimangono avvolte da ambiguità, mistero che rimandano alla percezione del limite, della precarietà dell’esistenza, della sua casualità, e della frammentarietà dell’esperienza e della percezione del reale.

Il terzo elemento che emerge dall’uso della fotografia nella narrativa di Tabucchi è la concezione della fotografia come oggetto ambiguo, che lascia ampi spazi all’immaginazione, al non visibile, a ciò che sta fuori della cornice. La fotografia non è registrazione del reale, non è la riproduzione fedele dell’istante in cui un certo avvenimento è accaduto, ma è una traccia, un indice. L’apparente oggettività del meccanismo di registrazione dell’immagine, l’inesorabilità della funzione di cattura della luce emanata di oggetti da parte dell’obiettivo e della pellicola del sensore della macchina fotografica, non producono un risultato certo, inequivocabile, neutro e oggettivo. L’ambiguità alimenta le domande, i dubbi, la curiosità, il bisogno di sapere. Talvolta la macchina fotografica  ha la funzione di elemento che unisce due spazi, quello visibile che viene raffigurato nell’immagine prodotta dal fotografo e quello invisibile che sta alle spalle del fotografo. Nel momento in cui la fotografia viene guardata si crea un legame attraverso l’oggetto visibile con lo spazio invisibile. Chi guarda può andare oltre e grazie alle tracce lasciate nella parte visibile, immaginare, vedere cosa c’è nella parte invisibile, nello spazio che sta alle spalle del fotografo. In altri testi la fotografia mette in relazione anche altri due mondi, quello presente di chi guarda la fotografia è quello passato del momento in cui la fotografia è stata scattata. Il legame tra i due mondi è affidato all’immagine registrata grazie alla luce a agli inchiostri fissati su un pezzo di carta.  La fotografia, nonostante i suoi evidenti confini fisici determinati dai bordi della carta, dalla cornice, è uno spazio aperto all”immaginazione che può entrarvi e iniziare agire come una talpa, scavare gallerie, aprire percorsi, creare vie di comunicazione tra vari punti apparentemente lontani l’uno dall’altro senza però arrivare ad una conclusione, ad una fine che racchiude il tutto.

L’ambiguità però può diventare menzognera, quando ad esempio si usa la tecnica dell’ingrandimento che esalta i dettagli ma mette in ombra l’insieme, il tutto; o quando il limite dei bordi non viene superato e la realtà viene imprigionata in uno spazio angusto che esclude la percezione affidata alla varietà dei sensi, alla vastità dell’orizzonte. La foto quindi è anche menzogna, una caratteristica che contrasta con l’idea diffusa che la fotografia sia lo strumento per la cattura della realtà così come è. È questo costituisce il quarto elemento della concezione della fotografia che troviamo in Tabucchi. La falsità è connaturata con la fotografia. Steichen diceva “Ogni fotografo è un falsario dall’inizio alla fine, essendo praticamente impossibile una fotografia puramente impersonale e non manipolata.” E Ansel Adams, il fotografo dei paesaggi naturalistici americani, sottolinea il fatto che “La realtà è solo un elemento nel processo di produzione di una fotografia”. Tabucchi quindi coglie l’aspetto manipolativo, illusorio, menzognero della fotografia e lo inserisce nei suoi racconti e romanzi come elemento naturale, non soggetto a condanna, ma anzi rivelatore del  modo con cui costruiamo il nostro rapporto con la realtà.

Il quinto elemento riguarda invece la funzione della fotografia. La fotografia non narra, evoca, stimola la narrazione, richiama il passato ma non fissa una volta per tutte ricordo di ciò che è stato perché non può farlo, non è nella sua natura, anzi spesso è la parola che narra a diventare fotografia, a costruire una rappresentazione visiva. L’ immagine fotografica conserva le tracce di ciò che era presente in un dato momento del passato. Il lettore deve interpretare quelle tracce, decifrarle per poter ricostruire quel passato e in tale opera però non può fare a meno di ricorrere al ricordo, alle emozioni, all’immaginazione, di creare una storia che però procede a balzi. La fotografia, come strumento che determina il congelamento di tracce di un certo istante che, grazie ad essa, viene estrapolato dal flusso del tempo, può diventare strumento per mezzo del quale si lotta contro l’azione demolitrice del tempo. È un oggetto che rallenta l’azione del tempo e rafforza la memoria, la alimenta. La fotografia però a causa del suo statuto precario, non funziona senza l’intervento della parola, della narrazione. È stimolo della memoria e non deposito di essa.

A Tabucchi non sfugge neppure un altro elemento della fotografia, il sesto, la sua natura violenta, il fatto che essa afferra elementi personali, elementi che appartengono a dei soggetti, per consegnarli ad altri soggetti estranei e lontani nello spazio e nel tempo, per trasformare dei soggetti, delle persone in oggetti della curiosità altrui. Anche un ‘altra forma di violenza viene esplicitamente citata, quella che vede nell’immagine soltanto un prodotto da vendere, uno scopo che annulla ogni limite, ogni resistenza, ogni pudore, un uso diffusissimo nella nostra società, una società in cui l’uso dell’immagine è una pratica diffusa e la quantità di immagini in circolazione è oramai stratosferica.

A partire da tali immagini della fotografia Tabucchi la usa come componente importante in molti dei suoi racconti, come strumento narrativo. All’interno del testo narrativo, talvolta Tabucchi fa ricorso a immagini reali, ma più spesso a descrizioni di fotografie prodotte dall’immaginazione dello scrittore, immagini mentali tradotte in parole. Remo Ceserani nel suo recente libro, L’occhio della medusa. Fotografia e letteratura (Torino, Bollati Boringhieri, 2011) elenca alcuni degli usi che Tabucchi fa della fotografia nei suoi racconti.

“Sono fotografie che determinano lo scatto della memoria dando origine alla trama narrativa, fotografie che ritagliano e sezionano la vita delle persone, “stupidi rettangoli di carta” che rinchiudono la vita “senza lasciarla uscire dai loro stretti confini”; fotografie da decifrare, come le impronte lasciate da uomini e donne delle case, dentro i vestiti, sugli arredi, nel cuore delle persone amate e nelle loro memoria, nell’eco improvvisa della loro viva voce, che, in Forbidden Games “muore appena detta, così come l’immagine muore non appena l’obiettivo ha scattato”; fotografie che sostituiscono voci e cose dell’altro mondo e si mettono a dialogare con i viventi come in Sostiene Pereira; fotografie che, a seguito di tali ingrandimenti, cambiano totalmente significato, come quelle scattate dalla foto-reporter di Notturno indiano (1984).”

L’importanza che Tabucchi dà alla fotografia all’interno dei propri racconti però va oltre il mero uso dell’oggetto fotografia come elemento della narrazione. Tabucchi usa la fotografia come modello, come elemento che dà forma alla sua narrazione perché le caratteristiche dell’immagine fotografica sono congeniali alla prospettiva che anima il suo narrare, alla parola che racconta storie come quelle contenute in Piccoli equivoci senza importanza, Il gioco del rovescio, Si sta facendo sempre più tardi, Tristano muore o Il filo dell’orizzonte.

È in molti di questi racconti che la scrittura diventa fotografia, e lo diventa perché la sua forma, le sue proprietà sono congeniali alla creazione di uno specifico scenario, di uno specifico punto di vista. È possibile, ad esempio, leggere Lettera da Casablanca, un racconto de Il gioco del rovescio in cui il protagonista ripercorre la sua storia personale segnata da una vicenda traumatica mai rivelata al lettore che ha determinato la distruzione della sua famiglia e l’allontanamento dalla sorella, come una sorta di album fotografico realizzato mediante la scrittura. Il racconto si apre con una immagine che è una descrizione che evoca una sorta di riproduzione fotografica. È la descrizione della palma che era nel giardino della casa dove abitava da bambino Ettore, il protagonista, e che poi fu abbattuta per ragioni burocratiche nonostante le motivate richieste della madre di salvarla per ragioni sentimentali. Tutto il racconto è costruito come se il narratore – protagonista, Ettore, descrivesse immagini elaborate attraverso la parola, immagini di luoghi e di persone che li animano. È presente anche il riferimento a due foto, due foto descritte, e la loro funzione in un caso è quella di sollecitare la memoria, di far rivivere il ricordo, nell’altro quella di mostrare agli altri una realtà alternativa a quella attuale, una realtà basata sul rovescio delle cose, della propria identità sessuale, della propria età. Quando l’oggetto fotografia è un elemento di stimolo per la memoria, come nel caso della prima foto della Lettera da Casablanca che riproduce la madre di Ettore ritratta sotto la pergola di casa in occasione di una visita di amici, spesso  le persone appaiono poco nitide, talvolta raffigurate per caso, catturate dall’obiettivo solo perché in quel momento stavano passando di lì. È così che appare nella foto la madre di Ettore ma è anche quello che accade nella foto su cui lavora il protagonista de Il filo dell’orizzonte, Spino, il giovane che lavora nell’obitorio e che si dà da fare per cercare di rintracciare l’identità e la storia del cadavere che si è trovato di fronte, scoprendo poi che in realtà sta interrogandosi sulla propria identità.

Proprio il tema dell’identità è al centro della seconda fotografia utilizzata in Lettera da Casablanca. È la foto che Ettore vuole sulla propria tomba nel caso in cui muoia in seguito a qualcosa che si percepisce come pericoloso ma che, anche questa volta, non viene svelato. Ettore vuole sulla sua Tomba l’immagine di quando aveva sei anni, di quando era accanto alla madre, nel periodo della sua infanzia felice. Sotto la fotografia non vuole date o altre scritte, ma solo il nome della palma, Giosefine, nome che aveva preso lui stesso dal momento in cui aveva cambiato la sua esistenza, dal momento in cui si era trasformato in una cantante e aveva cominciato ad esibirsi nei locali. Non sono capricci, ma dichiarazioni di essere e sentirsi altro, di sentire la propria identità come doppia, come indefinita, frantumata, dispersa. La fotografia è il mezzo scelto da Ettore, uno dei mezzi insieme al nome, per andare oltre l’identità pubblica, unica, stabile che alla fine si delinea sulla tomba con le date che indicano la durata della propria vita, la fotografia del volto abbastanza vicina all’immagine del voto poco prima di morire, il nome, talvolta il luogo di nascita e di morte. Ettore cambia gioco, insinua qualcosa che potremmo definire senso della possibilità, senso già richiamato dall’uso della maschera, del trucco per diventare donna nel momento in cui imprime una svolta nella sua vita. Al senso del reale si contrappone il senso del possibile e si introducono il dubbio e l’incertezza come elementi  centrali che caratterizzano l’esistenza. La fotografia e la parola, il nome in questo senso diventano elementi della maschera attraverso cui realizzare il possibile, andare oltre il reale. Viene affermato come elemento portante dell’identità la molteplicità dell’io, la sua frammentazione, il suo allontanamento dall’idea di identità come unità e coerenza.

Per tornare al tema della fotografia come sollecitatrice di memoria, in Lettera da Casablanca il ricordo della madre che riemerge grazie alla prima foto si rivela più potente e più nitido della fotografia, ma essa è lo stimolo del ricordo e quindi è il punto di partenza della narrazione. Tra foto e ricordo si instaura una sorta di gioco di rimpallo, un gioco in cui i ricordi e le immagini costituiscono i veicoli che mettono in relazione il presente e il passato, senza mai però arrivare a descrivere nella loro interezza né l’uno né l’altro, creando così un alone di mistero e di ambiguità che non sparisce mai dallo sfondo durante tutto il racconto. La fotografia è una sorta di antidoto nei confronti del tempo che scorre  e demolisce ogni cosa. La fotografia riduce tale effetto perché è in grado di muoversi nel senso inverso a quello del flusso del tempo o almeno di rallentarlo. Il tempo nel suo scorrere in un’unica direzione svolge un’azione di cancellazione che corrompe gli oggetti. La memoria e la fotografia resistono a tale azione. La memoria è senza dubbio lo strumento più importante in tale lotta e trova un alleato nella fotografia che però non registra il passato in modo fedele.  C’è bisogno della collaborazione del soggetto che guarda la fotografia e della sua memoria affinché la fotografia possa svolgere il suo ruolo. Ma anche la memoria ha i suoi limiti, è menzognera e il passato si deforma, diventa indistinguibile dal presente.

Anche in un altro racconto de Il gioco del rovescio, I pomeriggi del sabato, la storia di un ragazzino che ha perso il padre e vive con angoscia quello che appare una sorta di superamento del lutto da parte della madre grazie alla presenza di un misterioso uomo in bicicletta che il sabato si presenta intorno alla casa, c’è un’immagine da cui partono ricordi, i ricordi del ragazzino che rievocano il padre e la madre in vacanza. Anche in questo caso la fotografia è punto di partenza per la memoria che diventa narrazione. L’immagine e la successiva narrazione sono stimoli per andare oltre la realtà presente, per cercare nel passato ciò che manca nel presente, ma che non restituisce comunque la presenza, un passato che rimane contraddistinto dall’assenza che si riflette sul presente, senza alcuna funzione consolatoria. I ricordi rimangono parziali, incompleti, limitati ai dettagli, ai particolari; manca l’unità, il filo che consente di ricostruire l’ordine, la successione ordinata e, quindi, la catena delle relazioni, la spiegazione. Ne I pomeriggi del sabato è presente una seconda fotografia, è una foto del padre e della madre a Venezia che viene ricordata quando il protagonista si rende conto del mutamento nel comportamento della madre. In quel momento egli vede la madre attraverso una vecchia fotografia che la vede ritratta insieme al padre; la fotografia però in qualche modo svanisce e riprende forza la figura reale della madre e il suo inquietante comportamento agli occhi del figlio. Il passato, il ricordo rimane un dettaglio che non spiega, non consola, ma contribuisce a creare un senso di mistero, di ambiguità, di incompletezza che si riflette sull’esperienza, sul presente vissuto come evento senza cause visibili, spiegazioni di ciò che accade.

La staticità della memoria fotografica è quindi solo un punto di partenza, e lo è perché la fotografia diventa ciò che Barthes nel suo testo Camera chiara chiama punctum, la componente della fotografia, il dettaglio, il particolare non voluto, non calcolato dal fotografo ma percepito da chi guarda la foto, in grado di sollecitare emozioni, di dar vita al gioco del ricordo vivo, del ricordo emotivo. La fotografia nello stesso tempo è precaria, è insufficiente e ha bisogno della parola per trasformare il ricordo in un’immagine più nitida. La parola, la narrazione superano i limiti della fotografia, il ritaglio dell’inquadratura, i contorni della stampa. I limiti delle inquadrature, dello scatto, della cornice, della nitidezza dell’immagine sono avvertiti come limiti da superare attraverso elementi che sono contenuti nella fotografia sotto forma di particolari, di tracce, di accenni come un gesto o lo sguardo delle persone rappresentate, elementi che innescano altri processi che a loro volta mostrano i loro limiti.

La fotografia non è solo precaria, talvolta è anche una falsaria che spaccia attraverso l’immagine una conoscenza non autentica della realtà. Il concetto della fotografia come elemento che falsifica la realtà lo troviamo ad esempio in Notturno indiano quando il protagonista – narratore arriva in India in cerca dell’amico scomparso e, dopo aver abbandonato un primo tassista che voleva portarlo in un Hotel di sua scelta, sale su un risciò motorizzato e si infila nel traffico di Bombay: “Il “Quartiere delle Gabbie” era molto peggio di come me lo ero immaginato. Lo conoscevo attraverso certe fotografie di un fotografo celebre e pensavo di essere preparato alla miseria umana, ma le fotografie chiudono il visibile in un rettangolo. Il visibile senza cornice è sempre un’altra cosa. E poi quel visibile aveva un odore troppo forte, anzi molti odori”. La fotografia condivide la natura di falsaria però con la scrittura, come viene sottolineato in Stanze, un racconto della raccolta Piccoli equivoci senza importanza dalla narratrice – protagonista: “Pensa come è falsa la scrittura, con quella sua prepotenza implacabile fatta di parole definite, di verbi, di aggettivi che imprigionano le cose, che la candiscono in una fissità vitrea, come una libellula restata in un sasso da secoli che mantiene ancora la parvenza di libellula che non è più una libellula. Così è la scrittura, che ha la capacità di allontanare di secoli il presente e il passato prossimo: fissandoli. Ma le cose sono diffuse, pensa Amelia, e per questo sono vive, perché sono diffuse e senza contorni e non si lasciano imprigionare dalle parole”. Nonostante la cooperazione, fotografia e parola non consentono di afferrare la realtà perché condividono gli stessi limiti, pretendono di fissare ciò che è mobile, di descrivere la vita incastonandola in pietre trasparenti che la modificano, la falsificano.

Alla falsificazione della realtà contribuisce anche il modo con cui la fotografia può essere usata, la possibilità di ingrandire dettagli, di evidenziare particolari, strumenti che normalmente vengono utilizzati per afferrare il reale ritenuto ancora più reale, quello che l’occhio nudo non riesce a cogliere. Tale operazione per Tabucchi invece falsa l’esperienza, come viene detto nella parte finale di Notturno indiano quando la fotografa incontrata dal protagonista in giro per l’India in cerca dell’amico scomparso gli parla del suo libro di fotografie:

“Qualche anno fa ho pubblicato un libro di fotografie», disse Christine. «Era la sequenza di una pellicola, fu stampato molto bene, come piaceva a me, riproduceva anche i denti della pellicola, non aveva didascalie, solo foto. Cominciava con una fotografia che considero la cosa più riuscita della mia carriera, poi gliela manderò se mi lascia il suo indirizzo, era un ingrandimento, la foto riproduceva un giovane negro, solo il busto; una canottiera con una scritta pubblicitaria, un corpo atletico, sul viso l’espressione di un grande sforzo, le mani alzate come in segno di vittoria: sta evidentemente tagliando il traguardo, per esempio i cento metri ». Mi guardò con aria un po’ misteriosa, aspettando una mia interlocuzione.

«Ebbene? », chiesi io, «dov’è il mistero?».

«La seconda fotografia », disse lei. «Era la fotografia per intero. Sulla sinistra c’è un poliziotto vestito da marziano, ha un casco di plexiglas sul viso, gli stivaletti alti, un moschetto imbracciato, gli occhi feroci sotto la sua visiera feroce. Sta sparando al negro. E il negro sta scappando a braccia alzate, ma è già morto: un secondo dopo che io facessi clic era già morto ». Non disse altro e continuò a mangiare.

«Mi dica il resto», dissi io, «ormai completi il racconto».

«Il mio libro si chiamava Sudafrica e aveva un’unica didascalia sotto la prima fotografia che le ho descritto, l’ingrandimento. La didascalia diceva: Méfiez-vous des morceaux choisis». Fece una piccola smorfia e continuò: «niente pezzi scelti, per favore, mi racconti la sostanza del suo libro, voglio sapere il concetto».

«C’è qualcosa che non mi torna nel suo libro», disse Christine, «non so bene cosa, ma non mi torna».

«Lo credo anch’io», risposi.

«Senta», disse Christine, «lei è sempre d’accordo con le critiche che le faccio, è insopportabile».

«Ma ne sono proprio convinto», affermai, «davvero. Deve essere un po’ come quella sua fotografia, l’ingrandimento falsa il contesto, bisogna vedere le cose da lontano. Méfiez-vous des morceaux choisis».

L’insistere sul particolare, sul dettaglio ingrandendolo crea un’altra potente relazione tra fotografia e narrativa tabucchiana, la relazione che si stabilisce grazie alla tecnica dell’ingrandimento. Possiamo leggere i racconti di Tabucchi, oltre che come successione di immagini istantanee, anche come il prodotto di ingrandimenti operati su un tessuto reale di vita, operazioni che mettono in primo piano alcuni elementi e nascondono l’insieme, l’ordine che la veduta d’insieme crea. I racconti di Tabucchi non consentono di vedere le cose da lontano perché funzionano grazie all’uso continuo della tecnica dell’ingrandiento dei particolari, dei dettagli e tale tecnica diventa il modo con cui Tabucchi parla dell’esperienza, della vita dei suoi personaggi, una vita, una realtà che rimane avvolta dall’ambiguità, dal non detto, dal mistero. Enigmatico allora rimane l’invito a diffidare dei dettagli, quasi come se si volesse invitare il lettore porre la sua attenzione ai limiti della narrazione, ai limiti del linguaggio, di qualsiasi linguaggio, che sono forse, come nella prospettiva del Tractatus di Wittgenstein,  anche i limiti del mondo, del mio mondo.

Oltre all’uso della fotografia come fonte opaca, sfocata della memoria, all’uso dell’ingrandimento come elemento che produce menzogna, anche un altro elemento della fotografia svolge un ruolo importante nella narrativa di Tabucchi, il suo essere istante congelato del passato che trasforma la continuità del tempo in un assemblaggio di unità discontinue. L’uso che Tabucchi fa della fotografia come reperto del passato è tale che essa non costituisce mai una rappresentazione oggettiva del tempo nel suo fluire, ma piuttosto in una congelamento dell’istante che viene estratto dal flusso del tempo, che viene trasformato in unità discreta che seziona il tempo. In un breve racconto della raccolta Racconti con figure, Una lettera ritrovata, una lettera che Tabucchi presenta come lettera d’accusa di Hippolyte Bayard, inventore di un nuovo procedimento fotografico, al fisico e astronomo dell’Accademia di Francia Arago perché costui aveva favorito Daguerre, che aveva scoperto un procedimento simile, viene descritta la fotografia come strumento che scompone il fluire continuo del tempo ed estrae da esso minuscoli e silenziosi istanti:

“C’è un mezzo, tuttavia, che può cogliere per un attimo la musica della vita. Ma di questa musica esso non coglie il suono, coglie il silenzio. Perché la musica, come Lei saprà, non è un suono continuo, cosa che non potrebbe essere. Essa è fatta anche di silenzi: minuscoli intervalli o pause tra un suono e l’altro, fra una nota e l’altra; interstizi incommensurabili durante i quali la vita si ferma per riprender immediatamente il suo pulsare che a noi sembra un continuo. Ecco, della musica della vita il mezzo magico di cui parlo coglie l’intervallo fuggevole, l’interstizio invisibile a occhio nudo, il silenzio già svuotato del prima e già colmo del dopo. E lo rende eterno. Questo mezzo è la fotografia, e io lo conosco bene perché ho scoperto il procedimento per renderlo più efficace e visibile. Ma Lei me lo ha rubato per darlo al Suo amico Daguerre. Lei ha causato la mia disperazione mortale. Ma la mia disperazione sarà anche il Suo rimorso, che qui Le invio sotto forma di due fotografie.

Nella prima mi vede davanti alla mia umile casa di campagna nella posizione esatta in ho lasciato le mie sembianze umane. Poi sono sceso verso il ruscello dove d’estate andavo a fotografare i fiori e le fragili libellule che si posano per un attimo sul pelo dell’acqua. Sono entrato nel ruscello e mi sono abbandonato al suo abbraccio. Ho lasciato il mio cadavere sulla porta, esattamente come mi ero fotografato cinque minuti prima e sono andato a fotografare il mio corpo etereo, che intanto era volato fra le stelle.”

La struttura fotografica della narrativa di Tabucchi gli consente quindi di destrutturare il tempo di trasformarlo in un contenitore di istanti distinti che possono essere mischiati, ordinati in modi diversi. Passato, presente, futuro possono entrare in relazioni differenti. L’immaginazione, la finzione trovano nella narrativa fotografica un’altra breccia, oltre a quella della memoria sfocata dell’immagine fotografica e a quella dell’ingrandimento dei dettagli, la breccia del tempo discontinuo, manipolabile, che non ha una direzione univoca. La fotografia non è un documento trasparente del reale come è stato, non certifica l’esistenza del mondo e delle cose, ma è strumento per mostrare l’alternativa all’esperienza ordinaria, entrare in altri mondi, e la destrutturazione del tempo è uno strumento per compiere tale operazione. Tale operazione è realizzata non solo grazie all’uso della fotografia, ma anche a quello della tecnica del montaggio cinematografico, del flash back.

La riduzione del flusso del tempo a immagini visive che corrispondono a istantanee, a sequenze di fotogrammi, talvolta a ingrandimenti di istantanee o a zoomate, produce un senso di frammentarietà dell’esperienza. La lettura di La lettera da Casablanca come un album che viene sfogliato corrisponde quindi a una percezione possibile dell’intima struttura della narrativa di Tabucchi, la riduzione della storia ad una serie di immagini che la parola produce. Narrazione, parola, immagini, memoria si alimentano a vicenda per creare uno spazio che si colloca al confine tra realtà e finzione, tra ricordo e presente, tra sogno e concretezza. Lo stesso Tabucchi nelle ultime pagine di autobiografie altrui evoca tale spazio come elemento fondamentale della sua poetica. La narrazione fotografica come quella utilizzata da Tabucchi permette di rendere il tempo discontinuo, di poter giocare con la discontinuità, di poter collocare attimi isolati fuori dall’ordine temporale. La fotografia è in tale prospettiva l’istantanea e la ricostruzione del flusso dell’esistenza è affidato alla rievocazione di tali istantanee che rendono il tempo non più un flusso lineare ma un insieme di istanti autonomi. Il passato, il presente, il futuro si intrecciano e viene destrutturata la continuità temporale. Tabucchi usa abbondantemente questa possibilità per costruire la propria idea di senso, il significato dell’esistenza e dell’identità affidati a una memoria e a una coscienza che funziona come una macchina fotografica o un album fotografico, per grandezze discontinue e con un ordine non vincolante, un ordine che genera una realtà sfuggente, labirintica, ambigua fino a diventare misteriosa.

Anche il racconto Stanze contenuto in Piccoli equivoci senza importanza si basa sulla stessa struttura. La ricostruzione della propria esistenza attraverso le foto e che trasformano il flusso della vita in istanti racchiusi in un contenitore verso il quale si condensano sentimenti ed emozioni. Il lettore percepisce il sentimento di ostilità che la sorella piano piano lascia trapelare nei confronti di un fratello mentre rievoca i momenti della loro vita raffigurati in alcune fotografie conservate in casa. Si intuisce che la sorella prova risentimento nei confronti del fratello che sembra averla risucchiata nella sua vita e che ora, ammalato, la costringe a stargli vicino in attesa della morte. Ma tutto ciò non viene mai rivelato in modo esplicito. Come negli altri racconti tutto ciò non è detto, è lasciato all’intuizione del lettore. La narrativa di Tabucchi condivide con la fotografia anche questo aspetto. Ogni documento visivo offre una descrizione intuitiva del mondo rappresentato e non la rappresentazione speculare di esso; ogni fotografia è un istante della realtà colto attraverso tracce che non rendono speculare e quindi certa la rappresentazione. La narrativa di Tabucchi costruisce un mondo alternativo al mondo mimetico, presenta un mondo frammentario e incerto come quello che può scaturire da una raccolta confusa di fotografie. L’immagine fotografica non offre nessuna soluzione ai rebus della vita, alla frammentarietà e incertezza del mondo perché non è strumento di prova, non ha un valore documentario certo. Tutto il mistero contenuto nella natura ambigua della fotografia rimane insondabile come un’indagine non risolta, un paradigma indiziario non completato.

Con un’operazione molto sottile, Tabucchi usa la natura di indice della fotografia, la sua natura di traccia lasciata dalla luce che colpisce gli oggetti e catturata da un obiettivo e da una pellicola, per trasformarla in icona, in immagine portatrice di significato proprio per la precarietà legata alla natura di indice della fotografia. In quanto indice la fotografia fornisce un materiale visivo precario che il testo narrativo trasforma in icona, in portatore di significati che vanno al di là della traccia lasciata dal reale durante il processo di produzione dell’immagine fotografica. La natura di indice però riprende il sopravvento e la traccia non può venire inserita in un ordine razionale, in una spiegazione esaustiva. La natura di indice della fotografia comporta che elementi di realtà possono rimanere intrappolati nell’immagine, senza che chi scatta ne abbia consapevolezza. Spesso i soggetti così catturati appaiono sfuocati, tagliati, mancanti di parti. Tutto ciò diventa alimento per l’immaginazione ma non per la conoscenza razionale che ha bisogno di individuare i legami, le relazioni non solo dal punto di vista del possibile ma soprattutto da quello del reale, di ciò che si è realizzato. La fotografia rivela la sua precarietà come mezzo di prova, come strumento documentario. Spetta al lettore ricostruire le parti mancanti, rendere nitide le parti sfocate, ma il lettore delle fotografie utilizzate da Tabucchi non è il medico, l’investigatore, lo storico, padrone di strumenti professionali, scientifici, è l’uomo comune che utilizza il suo ricordo e la sua immaginazione. È infatti il ricordo che si occupa di riempire i vuoti, aprendo però le porte all’immaginazione, alla finzione. La conoscenza della vita non è neppure una forma di sapere debole come quello indiziario.

Nei racconti di Tabucchi c’è quindi il rifiuto della funzione mimetica, di pura registrazione del dato, della fotografia e viene invece affermata la sua funzione euristica, la funzione di mezzo per stimolare la ricerca, per costruire altre possibilità, altri mondi, in un contesto però che non è quello della costruzione di una sapere omnicomprensivo, simile a quello del narratore esterno che vede tutto ciò che accade. Il narratore di Tabucchi è un narratore interno e in tale prospettiva la fotografia è sì un oggetto da decifrare, ma è anche un oggetto indecifrabile. Il protagonista de Il filo dell’orizzonte, Spino, cerca di arrivare alla soluzione del suo caso, la ricerca dell’identità del morto che gli hanno portato nell’obitorio e della propria identità, attraverso il tentativo di decodifica dell’immagine che il morto gli ha consegnato involontariamente. La fotografia su cui Spino lavora è una foto ambigua che può parlare solo se le si pongono domande, è una foto che come tutti gli oggetti della ricerca si oppone alla rivelazione di ciò che contiene, di ciò che in essa è racchiuso. Tabucchi però non usa la foto come modello epistemologico, come strumento del sapere indiziario, come lo chiama Carlo Ginzburg, ma come occasione per attivare una molteplicità di comunicazioni, dai soggetti fotografati all’osservatore per finire con il dialogo che si apre tra Spino e la sua identità.

Particolarmente importante poi per comprendere il ruolo della fotografia nella narrativa di Tabucchi e la sua concezione della fotografia è il piccolo saggio Storia di un’immagine contenuto in Autobiografie altrui. Una parte del testo è dedicata ad una vicenda che ha al suo centro un fotografo e una fotografia, Doisneau e la celebre fotografia del “Bacio davanti all’Hotel De Ville”, una foto, scattata nel 1950 di una coppia di ragazzi che si baciano lungo le vie di Parigi, presentata dal suo autore come prodotto del caso, dell’istante decisivo così caro a Cartier Bresson. Tabucchi accenna alla vicenda legata alla denuncia di baro rivolta nei confronti del fotografo in quanto il bacio sarebbe stato il prodotto di un contratto tra il fotografo e i giovani che si baciano e quindi una messinscena. Tabucchi usa l’accenno alla vicenda per riflettere sul rapporto finzione-realtà e per introdurre poi la storia della sua foto. Se fosse vera l’accusa, si chiede Tabucchi, la foto sarebbe allora meno autentica? È una domanda complessa che chiama in causa il concetto stesso di fotografia, o almeno quel concetto di fotografia che vede tale pratica come una sorta di caccia agli istanti irripetibili che casualmente ci passano di fronte, ai momenti unici che vengono congelati e trasformati in oggetti di altrettanto unici dal punto di vista dei contenuti dell’immagine, anche se non da quello della sua riproducibilità. In tale ottica Doisneau sarebbe un baro e la sua fotografia, senza spontaneità, non avrebbe valore. Se si pensa però alla fotografia come atto comunicativo, come icona, come strumento per evocare sensazioni, stati d’animo, come incognita da cui far scaturire domande e narrazioni, allora la fotografia, anche se non spontanea, mantiene il suo valore e la sua autenticità. E questa sembra anche la posizione di Tabucchi.

La vicenda che poi Tabucchi racconta, dopo aver parlato di Doisneau e dell’accusa di baro rivolta nei suoi confronti, è una vicenda legata ad una fotografia da lui acquistata su una bancarella e scelta successivamente come copertina della sua raccolta di racconti Si sta facendo sempre più tardi. Nella foto sono raffigurate due persone, un uomo una donna. L’uomo abbraccia in un modo strano la donna avvolgendola completamente mentre lei è immobile e di spalle. Non si vedono né il viso dell’uomo e né quello della donna perché coperti da un cappello. Lo sfondo è costituito solo da un cielo grigio, un orizzonte vuoto. Tabucchi afferma di essere stato colpito dal mistero dell’abbraccio, dalla impossibilità di capire il significato di quell’abbraccio, dal dubbio su chi possono essere le due persone raffigurate nella foto, un dubbio che solo il fotografo poteva sciogliere. Tabucchi riesce a ritrovare il fotografo e la sua risposta. I due sono sposi che avevano divorziato e si erano risposati. Ma anche questa risposta non è soddisfacente. Rimane il dubbio se il fotografo sia veramente il fotografo della foto o un personaggio che si è spacciato per tale. E non finisce qui perché Tabucchi viene a conoscenza  anche di un quadro di Munch simile alla fotografia. Viene il sospetto che il fotografo si sia ispirato al quadro e quindi che la fotografia sia costruita come la foto di Doisneau, sia una messinscena. Inoltre Tabucchi viene a sapere che Munch si ispirava alle fotografie per i suoi quadri, anzi che costruiva delle messinscena che poi fotografava per ricavare da esse i dipinti. Si apre quindi una catena di ipotesi basata su una catena di citazioni che alla fine non trovano una risposta. La ricerca quindi non ha fine, il “per filo e per segno”, la precisione della raffigurazione del reale non sono possibili. La ricerca del fondamento, delle ragioni segrete non fornisce alcuna certezza ma solleva soltanto altri dubbi. In crisi viene messa la pretesa di tracciare confini esatti tra le cose tra realtà e finzione, una pretesa cui si contrappongono sia la narrativa che la fotografia.

La risposta ad una domanda ne comporta un’altra, e la soluzione, la verità si allontana come si allontana il filo dell’orizzonte a mano a mano che ci muoviamo per avvicinarsi a tale limite che vediamo come punto di arrivo.

Tabucchi nello stesso saggio introduce anche un altro tema in cui la fotografia gioca un ruolo di primo piano, il tema del rapporto tra il testo e ciò che lo circonda, il ruolo dell’extratestualità, degli elementi che stanno intorno al testo. Tabucchi si interroga sul rapporto tra testi e copertina e, in particolare per la fotografia della copertina del suo libro, se non sia stata la fotografia trovata per caso sulla bancarella a Parigi a creare, a stimolare le narrazioni che stanno sotto di essa. In effetti in altri romanzi di Tabucchi la copertina non è una scelta casuale o esteriore. In Tristano muore, ad esempio, la copertina contiene una fotografia che svolge un ruolo importante annunciato già nell’ultima pagina del racconto, quello di raffigurare il momento iniziale della vicenda, il momento in cui il padre di Tristano si avvia a sposare quella che diventerà la madre di Tristano e quindi a rendere possibile la sua esistenza, l’esistenza del protagonista che racconta la sua vicenda. La fotografia fissa quel momento e gli consente di uscire o almeno di rallentare l’azione demolitrice del tempo, di aiutare la memoria e la narrazione a sopravvivere alla morte del padre e di Tristano. La fotografia come parte fondamentale della copertina ha quindi un rapporto fondamentale con il testo in quanto “La copertina di un libro, oltre che una “soglia”, può essere una tromba delle scale nella quale si precipita ignari.”

massimocec aprile 2012