TABUCCHI E LE IMMAGINI
Tratto da: Thea Rimini, Album Tabucchi. L’immagine nelle opere di Antonio Tabucchi, Palermo, Sellerio, 2011. Quarta di copertina donata all’autrice da Antonio Tabucchi
Ho sempre amato gli scrittori che seppero alzare lo sguardo alla volta celeste e, con la medesima intensità, abbassarlo alle nostre «vie d’intorno», dove transita la vita che ci è data da vivere. Sono gli astronomi-realisti, così li chiamo, Natura li dotò di una pupilla regolabile come un obiettivo: aprivano le lenti all’insù e mettevano a fuoco la luna; le stringevano verso il basso e riuscivano a scrutare il selciato del nostro natio borgo selvaggio. Mr. Google-Earth, dall’occhio con lo zoom, li imita male, ché del selciato riesce anche a vedere le fessure fra le pietre ma non riesce a farci sentire, come seppero fare quelli, il fruscio delle vesti che sulle stesse pietre passarono. Mi rendo conto che non riuscendo ad ammirare le stelle il mio sguardo si è posato piuttosto sulle quiete (o meno quiete) stanze che ho attraversato. Stanze che poi sono il mondo in cui viviamo e che commentatori frettolosi oggi vorrebbero così piccolo che potrebbe stare in una noce. A me pare invece vasto come il cosmo, per chi sa che soltanto attraverso le differenti maniere di rappresentarlo, cioè le infinite immagini che di esso abbiamo, possiamo capirne il senso. Altrimenti la realtà significherebbe soltanto se stessa e una rosa sarebbe una rosa una rosa una rosa una rosa. Ma cosa c’è «oltre» la rosa?
Di immagini sono stato avido, lo ammetto, e quante più potevo catturarne più ne ho ospitate nelle mie rètine. E della rosa stessa, quando essa non è nient’altro che una rosa, e delle immagini lasciateci da coloro che rappresentando la rosa cercarono di vedere cosa ci fosse «oltre».
Pittura, fotografia, cinema: il mondo come esso appare a prima vista e il mondo come volontà e rappresentazione, affinché una rosa non sia solo l’impenetrabile immanenza di una rosa, perché non tutto ciò che è reale è razionale, spesso è vero il contrario. La fenomenologia non basta, e anche se l’estetica di Aristotele non fosse andata perduta non risolverebbe il problema: per di più non ci parlava di rose, si tratta dell’errore di un copista che con certosina pazienza ha attraversato i secoli. La scolastica e la botanica sono discipline onorevolissime, e innegabile è l’utilità di Linneo, ma non è attraverso le classificazioni che si capirà il senso del reale: del resto, per quanto possa sembrare strano, anche il pero appartiene alla famiglia delle rosacee, ma fra una pera e una rosa c’è una certa differenza.
Mi è sempre piaciuto pensare che un bel giorno le rose siano spuntate dalla terra affinché Tiziano le mettesse in mano alla Venere di Urbino. Affinché gli antichi, come si vede nella tomba degli Ottavii, le facessero cogliere, gigantesche, ai bambini nei loro campi elisi. Affinché il Botticelli, nella «Primavera», le facesse spargere dal grembo a Flora, che sparge solo rose. Affinché il Pisanello le rendesse quasi più perturbanti della Madonna con la quaglia, o affinché Renoir ne desse due a Gabrielle, una per la mano e l’altra per l’orecchio. Sono loro e altri come loro che hanno dato un senso alla rosa. Antonio Tabucchi
FOTOGRAFIA COME PRIGIONE “Il fiume” in: Si sta facendo sempre più tardi, Milano Feltrinelli 2001
Oppure prendi un album di fotografie, uno qualsiasi di una persona qualsiasi, come me, come te, come tutti. E ti accorgi che la vita è lì nei diversi segmenti che stupidi rettangoli di carta rinchiudono senza lasciarla uscire dai loro stretti confini. E intanto la vita gonfia, impaziente, vuole andare al di là di quel rettangolo, perché sa che quel bambino vestito di bianco con le mani giunte e la fascia della prima comunione al braccio, domani (dico “domani” tanto per dire un giorno qualsiasi) piangerà di nascosto perché si vergognerà di se stesso: una piccola turpitudine? Piccola o grande non ha importanza, perché essa prevede il rimorso, ed è di questo che stiamo parlando. Ma quella feroce fotografia, più severa di una governante, non lascia evadere la vera verità dai suoi pochi centimetri. La vita è prigioniera della sua rappresentazione: del giorno dopo ti ricordi solo tu.
FOTOGRAFIA E SCRITTURA “Stanze” in: Piccoli equivoci senza importanza, Feltrinelli, Milano, 1985 e in Notturno indiano, Sellerio, 1984
Pensa come è falsa la scrittura, con quella sua prepotenza implacabile fatta di parole definite, di verbi, di aggettivi che imprigionano le cose, che la candiscono in una fissità vitrea, come una libellula restata in un sasso da secoli che mantiene ancora la parvenza di libellula che non è più una libellula. Così è la scrittura, che ha la capacità di allontanare di secoli il presente e il passato prossimo: fissandoli. Ma le cose sono diffuse, pensa Amelia, e per questo sono vive, perché sono diffuse e senza contorni e non si lasciano imprigionare dalle parole.
Notturno indiano, Sellerio, 1984 Il “Quartiere delle Gabbie” era molto peggio di come me lo ero immaginato. Lo conoscevo attraverso certe fotografie di un fotografo celebre e pensavo di essere preparato ala miseria umana, ma le fotografie chiudono il visibile in un rettangolo. Il visibile senza cornice è sempre un’altra cosa. E poi quel visibile aveva un odore troppo forte, anzi molti odori.
FOTOGRAFIA COME MEMORIA DELLA VITA “Stanze” in: Piccoli equivoci senza importanza, Feltrinelli, Milano, 1985
Sul cassettone con la specchiera, di fianco alla finestra, ci sono i ritratti. Sono quasi tutti ritratti di Guido e di lei, e uno della mamma da bambina; quelli di mamma e papà insieme ha voluto tenerli in camera sua, sul suo cassettone. Camminando, Amelia guarda quei ritratti pensa come passa il tempo. Come passa il tempo. Nel primo ritratto Guido ha dodici anni, indossa una giacca da uomo, il pantalone di velluto su una mezza gamba, chiusi in fondo con tre bottoni laterali. Porta degli scarponcini alti, con le fibbie, il piede destro è appoggiato su un tronco di cartapesta che il fotografo ha messo sullo nello studio per dare un ambiente rustico. Su un fondale di tela dipinta una balconata incongrua che dà su una specie di Golfo di Napoli, ma senza pini e senza Vesuvio. Nell’angolo destro, trasversalmente, la calligrafia dell’autore ha lasciato il suo nome: Studio Savinelli, Fotografo.
Amelia guarda la fotografia accanto e sono già passati 10 anni. È incorniciata in una cornice d’argento; l’umidità, che ha forse reagito con il metallo, ha disegnato sul bordo una macchia sinuosa come l’orlo lasciato dalle onde sulla spiaggia. Guido è alla sinistra di Amelia e le offre il braccio destro al quale lei si appoggia leggiadramente, come una sposa. Guido ha un vestito scuro e una cravatta ampia, lungo i fianchi regge il cappello per la falda. Lei ha un vestito bianco, leggermente vaporoso, con un nastro in vita. In testa porta un cappello di paglia che le ombreggia il viso, la linea scura le taglia la fronte fino agli occhi, che si scorgono appena: ma il resto del viso è inondato di luce e un sorriso ingenuo e forse felice scopre i denti candidi. È estate. Il pergolato di vite, dietro di loro, disegna pozze d’ombra sul cortile. Sul tavolino di ferro battuto c’è una brocca che qualcuno ha riempito di fiori. Sembrano proprio due sposi, come se la cerimonia fosse appena finita. È il giorno della laurea di Guido, c’è stato un pranzo sotto il pergolato, infatti, Amelia ricorda perfettamente: la mamma è il papà non sono ancora morti, papà ha esagerato col cibo e col vino, ora è seduto all’ombra del portico, il viso lustro, il panciotto sbottonato sulla camicia sotto la quale si vede alzarsi e abbassarsi, con la respirazione, il ventre grande. Papà, pensa Amelia con una nostalgia struggente. Per la mamma no, non ha questa nostalgia: la pensa quasi sempre senza dolore, appena con una lieve pena sbiadita dalla memoria lontana; era una donna silenziosa e pallida, minuta, passava per la stanza in punta di piedi, ha attraversato la vita in punta di piedi. Morì molto presto, prima che Amelia capisse cos’è il vero dolore, lasciando una traccia quasi impercettibile: il ricordo delle sue gonne fruscianti e delle sue mani pallide, il modo di spazzolarsi i lunghi capelli che poi mimetizzava in una treccia arrotolata sulla nuca. Papà invece aveva una voce grossa e il suo passo era sonoro nelle stanze, e riempiva la casa con la sua presenza. E aveva un abbraccio vigoroso che le dava sicurezza e uno strano calore che la faceva arrossire.
Amelia sa che odia quella fotografia. Ha imparato a odiarla molti anni dopo, quando ormai odiarla non aveva più senso. Lo sa e preferisce non sapere il vero perché. Preferisce che di quel lontano momento che la lastra catturò, la infastidiscono particolari insignificanti: il suo sorriso così infantile e quasi stupido, la spalla destra di Guido leggermente cadente che denota forse un lieve imbarazzo: cose così, insignificanti. E poi ci sono altre due fotografie accanto a questa, ma questo non le odia, fanno parte della sua vita vera, quando le scelte oramai erano fatte. Le scelte. Quali scelte?, pensa Amelia camminando…
Nella terza fotografia Guido ha un’espressione solenne come vuole la circostanza: ha la toga, regge in mano un papiro arrotolato e con l’altra mano si appoggia al bordo di una fontana senza l’acqua, nel chiostro dell’Università. L’ultima fotografia è un pranzo ufficiale, il festeggiato è Guido, che siede al centro della tavola. Sono stati ripresi alla fine del pranzo, quando le bevande hanno sciolto sui volti la prosopopea dell’avvenimento rendendoli disponibili e indifesi. Ci sono i letterati e gli artisti, il magrolino in fondo alla tavola è un musicista celebre che lei ha sempre trovato insipido come le sue composizioni. Lei siede alla destra del fratello, nei suoi occhi si legge soddisfazione e contentezza, ma le labbra le si sono assottigliate, rispetto alla fotografia dei suoi diciott’anni: hanno perso generosità e offerta, sono labbra avare, guardinghe, vigilano le parole, i pensieri, la vita.
Com’è strano il tempo.
FOTOGRAFIA COME RICORDO SFOCATO “Lettera da Casablanca” in: Il gioco del rovescio, prima edizione, Il Saggiatore, Milano, 1981
Un’altra cosa che mi resta della mamma è un’immagine, ma la si vede a malapena, è una fotografia che scattò il signor Quintino sotto la pergola di casa nostra, intorno alla tavola di pietra, deve essere estate, seduti a tavola ci sono papà e la figlia del signor Quintino, una ragazzetta magra con le trecce lunghe e un vestito a fiori, io sto giocando con un fucile di legno e faccio finta di sparare contro l’obiettivo, sul tavolo ci sono dei bicchieri e un fiasco di vino, la mamma sta uscendo di casa con la zuppiera, è appena entrato nella fotografia che il signor Quintino ha già fatto clic, c’è entrata per caso e in movimento, per queste è un po’ sfocata e di profilo, si stenta perfino a riconoscerla, tanto che io preferisco pensarla come me la ricordo. Perché io la ricordo bene, quell’anno, dico l’anno in cui fu abbattuta la palma, avevo 10 anni, era sicuramente d’estate, e il fatto successo in ottobre, una persona possiede perfettamente la memoria dei suoi dieci anni, e non potrò mai dimenticare quello che successe quell’ottobre.
FOTOGRAFIA COME STRUMENTO PER COSTRUIRE UN PROPRIO DOPPIO “Lettera da Casablanca” in: Il gioco del rovescio, prima edizione, Il Saggiatore, Milano, 1981
La mamma riposa là. Voglio essere sepolto accanto a lei, e sulla lapide farai ingrandire una fotografia di quando io avevo sei anni. È una fotografia che è restata agli zii, tu l’avrai vista chissà quante volte, siamo io e te, tu sei piccolissima, un bebè steso su una coperta, io ti siedo accanto e ti tengo la mano, mi hanno fatto vestire un grembiule e ho i riccioli legati con un fiocco. Date non ne voglio. Non farai mettere iscrizioni sulla lapide, ti prego, solo il nome, ma non Ettore: il nome con cui firma questa lettera con l’affetto del sangue che te mi lega, la tua Giosefine.
FOTOGRAFIA AL CONFINE TRA REALTÀ E IMMAGINAZIONE “I pomeriggi del sabato” in: Il gioco del rovescio, prima edizione, Il Saggiatore, Milano, 1981
Il ricordo che più mi faceva piangere era un’immagine: io e papà su un tandem, lui davanti e io di dietro, la mamma e la Nena su un tandem che ci seguivano gridando aspettateci, sullo sfondo c’era la pineta scura di Forte dei Marmi e davanti a noi l’azzurro del mare, papà aveva i calzoni bianchi e chi arrivava primo al bagno Balena avrebbe mangiato per primo il gelato di mirtilli. E allora non riuscivo a trattenere i singhiozzi e dovevo tapparmi la bocca con le mani per non farmi sentire dalla mamma, la mia voce repressa era ciangottio sommesso che somigliava al verso di Belafonte quando si rifiutava di essere trascinato al guinzaglio; e la saliva, mischiata alle lacrime, mi inzuppava il fazzoletto che mi infilavo disperatamente in bocca, e allora mi veniva da mordere, le mie mani, ma piano piano, a piccoli morsi, che strano, a quel punto tutto si confondeva e sentivo sul palato, acuto, nitidissimo, con un profumo inequivocabile, il sapore del gelato di mirtilli.
FOTOGRAFIA AL CONFINE TRA REALTÀ E IMMAGINAZIONE “I pomeriggi del sabato” in: Il gioco del rovescio, prima edizione, Il Saggiatore, Milano, 1981
Mi alzai quando sentii lo scricchiolio della poltrona del salotto, fu l’unico rumore, la mamma era veramente silenziosa. Aspettai qualche secondo dietro le persiane, mi accorsi che tremavo, ma certo non di freddo, dovetti stringere i denti affinché non mi battessero. Poi la porta del retrocucina si aprì lentamente e la mamma uscì fuori. Da principio non mi parve neppure lei, che strano, era la mamma di quella fotografia del comò dove lei era sottobraccio papà, dietro di loro c’era la basilica di San Marco e sotto c’era scritto Venezia 14 aprile 1942. Aveva lo stesso vestito bianco con dei grandi pois neri, le scarpe con un buffo cinturino allacciato sulla caviglia e una veletta bianca che le copriva il viso. Sul bavero della giacca aveva una camelia blu di seta e infilata al braccio portava una borsetta di coccodrillo. In una mano, con delicatezza, come se portasse un oggetto prezioso, teneva un cappello da uomo che io riconobbi. Camminò leggera fino all’imbocco del vialetto, fra i coppi dei limoni, con andatura graziosa che non le avevo mai visto, a guardarla così da di dietro sembrava molto più giovane e solo ora mi accorgo che la Nena camminava esattamente come lei, con un lieve dondolio e la stessa posizione le spalle. Scomparve dietro l’angolo della casa e sentii i suoi passi sul terreno. Il cuore mi batteva più forte che mai, ero tutto appiccicato dal sudore, pensai che dovevo prendere l’accappatoio ma in quel momento la pendola batté le due e non riuscii a staccare le mani dal davanzale. Scostai leggermente due stecche della persiana per vedere meglio, mi parve un tempo interminabile, ma quanto resta, pensavo, ma perché non torna; e in quel momento la mamma sbucò dall’angolo, veniva avanti a testa alta, guardava fisso davanti a sé con quello sguardo distratto lontano la faceva somigliare a zia Yvonne, e sulle labbra aleggiava un sorriso. Aveva infilato la borsetta a tracolla, il che le dava un’aria ancora più giovanile. A un certo punto si fermò, aprì la borsetta, ne trasse la scatolina rotondo della cipria con lo specchietto all’interno del coperchio, ne fece scattare il gancio e la scatolina si aprì da sola. Prese il piumino, lo strofinò sulla cipria, e guardandosi nello specchietto si incipriò leggermente gli zigomi. E allora io sentii un enorme desiderio di chiamarla, di dirle sono qui io mamma, ma non riuscii a pronunciare una parola. Sentivo solo un sapore acutissimo di mirtilli che mi riempiva la bocca, le narici, che invadeva la stanza, l’aria, il mondo circostante.
FOTOGRAFIA COME LOTTA CONTRO IL TEMPO in: Tristano muore, Milano, Feltrinelli, 2004
Vorrei farle un altro regalo, la vede quella fotografia sul cassettone?, no non quella sul comò, quella sul cassettone con lo specchio, accanto alla campana di vetro, dove la pendola continua a muovere le lancette, perché le lancette vanno anche quando noi ci fermiamo, gli orologi li abbiamo inventati noi, ma ubbidiscono ad un altro padrone… dico quella nella cornice d’ebano dove c’è un uomo di spalle che cammina lungo il mare… le vede quelle case in fondo?… in quel paese ci abitava mia madre, mio padre sta andando a sposarsi, per questo è così elegante anche se cammina sulla spiaggia, dopo la cerimonia porterà mia madre qui, in questa casa dove sono nato io e che presto sarà in vendita, morta la Frau… È una bella foto, gliela regalo, la metta sulla copertina del suo libro, non è Tristano ma lo è un po’, visto che suo padre… Ci gira le spalle come se ci dicesse addio, che poi è quello che ho fatto in tutti questi giorni con lei, che ora sto facendo per l’ultima volta… Guardi la pendola, che ore sono? Le sembrerà stupido, ma voglio saperlo, è l’ultima cosa che voglio sapere… Comunque domani è un altro giorno, come si dice.
FOTOGRAFIA COME DISCONTINUITÀ “Una lettera ritrovata” in: Racconti con figure, Palermo, Sellerio, 2011
C’è un mezzo, tuttavia, che può cogliere per un attimo la musica della vita. Ma di questa musica esso non coglie il suono, coglie il silenzio. Perché la musica, come Lei saprà, non è un suono continuo, osa che non potrebbe essere. Essa è fatta anche di silenzi: minuscoli intervalli o pause tra un suono e l’altro, fra una nota e l’altra; interstizi incommensurabili durante i quali la vita si ferma per riprender immediatamente il suo pulsare che a noi sembra un continuo. Ecco, della musica della vita il mezzo magico di cui parlo coglie l’intervallo fuggevole, l’interstizio invisibile a occhio nudo, il silenzio già svuotato del prima e già colmo del dopo. E lo rende eterno. Questo mezzo è la fotografia, e io lo conosco bene perché ho scoperto il procedimento per renderlo più efficace e visibile. Ma Lei me lo ha rubato per darlo al Suo amico Daguerre. Lei ha causato la mia disperazione mortale. Ma la mia disperazione sarà anche il Suo rimorso, che qui Le invio sotto forma di due fotografie.
Nella prima mi vede davanti alla mia umile casa di campagna nella posizione esatta in ho lasciato le mie sembianze umane. Poi sono sceso verso il ruscello dove d’estate andavo a fotografare i fiori e le fragili libellule che si posano per un attimo sul pelo dell’acqua. Sono entrato nel ruscello e mi sono abbandonato al suo abbraccio. Ho lasciato il mio cadavere sulla porta, esattamente come mi ero fotografato cinque minuti prima e sono andato a fotografare il mio corpo etereo, che intanto era volato fra le stelle.
FAMIGLIA PESSOA A DURBAN in: Un baule pieno di gente, Milano, Feltrinelli, 1990
L’istantanea ha sorpreso il gruppo di famiglia sulla scaletta del loro cottage di Durban. A destra c’è il comandante Rosa, in borghese, già pingue e maturo, con un faccione burbero eppure bonario, che sorregge il penultimo dei figli. A sinistra la signora Madalena, invecchiata da una precoce canizie, con l’ultimo nato sulle ginocchia; e seduto a metà scala, a fianco della sorellina, ma da lei discosto, Fernando adolescente, un giovanottino esile con le spalle cadenti, le mani intrecciate sul ginocchio, la bocca stretta da un impercettibile piega malinconica e con gli occhi persi oltre l’obiettivo. Ha una positura scomoda, come impaziente, di chi si sente transitorio e fuori posto: non è implausibile leggere sul suo viso la saudade della Lisbona degli anni in cui egli “era felice e nessuno era morto”. Si tratta di una Lisbona che vive dentro di lui nell’immagine incontaminata della memoria infantile: irripetibile e irrecuperabile (ma questo Fernando non lo sa ancora, potrà scriverlo solo molti anni più tardi
FOTOGRAFIA COME OGGETTO DA DECIFRARE in: Il filo dell’orizzonte, Milano, Feltrinelli, 1986
Sara è giunta alle spalle e piegati in avanti si è messa a leggere con la testa vicino alla sua. Si passa una mano nei capelli e in quel gesto c’è comprensione tenerezza. Restano un attimo assorti davanti alla fotografia dello sconosciuto, poi lei si lascia sfuggire una frase che gli provoca una specie di smarrimento. “Con la barba e 20 anni di meno potresti essere tu”, dice.
Lui non risponde, come se fosse un’osservazione senza importanza…
La sua fotografia è stata inviata dagli inquirenti a tutte le questure italiane, ma i suoi connotati non sembrano note negli archivi della polizia… Si suppone che se il giovane avesse fatto parte di un’organizzazione eversiva i suoi compagni si sarebbero in qualche modo manifestati… Allo stato attuale delle indagini non è possibile sostenere con sicurezza che il giovane fosse un terrorista…
Gli indumenti sono nell’armadietto, la scientifica li ha lasciati perché non li considera di interesse rilevante, non si sono neppure curati di frugarlo bene, altrimenti avrebbe trovato una fotografia che aveva nel taschino, la indica, l’ha infilata sotto il vetro della scrivania, è una foto a contatto, di quelle grandi come un francobollo, dev’essere una vecchia foto…
Ha sistemato la carta sul tavolo da pranzo, facendo scorrere fino al massimo il cavalletto dell’ingranditore. Ha ottenuto un riquadro di luce di trenta centimetri per 40 e ha inserito il negativo della fotografia a contatto che ha fatto di fotografare in un laboratorio di fiducia.
Ha stampato l’intera fotografia, lasciando acceso l’ingranditore per qualche secondo in più del necessario perché la foto a contatto era troppo esposta. Nella vasca del reagente i contorni sembrava stentassero a delinearsi, come se un reale lontano e trascorso, irrevocabile, fosse riluttante a essere resuscitato, si opponesse alla profanazione di occhi curiosi ed estranei, al risveglio in un contesto che non gli apparteneva. Quel gruppo di famiglia, l’ha sentito, si rifiutava di tornare a esibirsi sul palco delle immagini per soddisfare la curiosità di una persona estranea, in un luogo estraneo, in un tempo che non è più il suo. Ha capito anche che stava evocando dei fantasmi, che cercava di estorcer loro, con l’ignobile stratagemma della chimica, una complicità coatta, un equivoco compromesso che essi, ignari contraenti, sottoscrissero con un’improvvisata posa consegnata a un fotografo d’allora. Losca virtù dell’istantanee! Sorridono. E quel sorriso è ora per lui, anche se essi non lo vogliono. L’intimità di un istante irripetibile della loro vita ora è sua, dilatata nel tempo e sempre identica a se stessa; e visibile infinite volte, appesa gocciolante a uno spago che attraversa la cucina. Un graffio, che l’espositore ha ingrandito a dismisura, sfregia diagonalmente i loro corpi e il loro paesaggio. È un graffio involontario di un’unghia, l’inevitabile usura delle cose, la traccia di un metallo (chiavi, orologi, accendisigari) con il quale quei visi hanno coabitato in tasche e cassetti? Oppure è il segno volontario di una mano che voleva elidere quel passato? Ma quel passato, comunque, è ora un altro presente, si offre suo malgrado a una decifrazione. È la veranda di una modesta casa di sobborgo, gli scalini sono di pietra, avvolto all’architrave cresce un rampicante stento che ha aperto campanule chiare; deve essere estate: la luce s’indovina abbagliante e fotografati vestono abiti leggeri. Il volto dell’uomo ha un’espressione sorpresa, e insieme indolente. Indossa una camicia bianca con le maniche arrotolate, siede dietro un tavolino di marmo, di fronte a sé ha una brocca di vetro a cui è appoggiato un giornale piegato a metà. Stava certo leggendo, e l’improvvisato fotografo gli ha dato una voce per fargli alzare gli occhi. La madre sta sbucando sulla soglia, appena entrata nella fotografia e non se n’è neppure accorta. Ha un piccolo grembiule a fiori, il volto magro. È ancora giovane, ma la sua gioventù sembra trascorsa. I due bambini sono seduti su uno scalino, ma discosti, estranei l’uno all’altro. La bambina ha due trecce bruciate dal sole, gli occhiali da vista cerchiati di celluloide, gli zoccoletti. Tiene in grembo un fantoccio di pezza. Il ragazzo porta i sandali e i pantaloni corti. Ha i gomiti appoggiati sulle ginocchia e il mento appoggiato alle mani. Ha un viso tondo, i capelli con qualche ricciolo lustro, le ginocchia sporche. Dalla tasca dei calzoni sporge la forcella di una fionda. Guarda davanti a sé, ma i suoi occhi sono persi oltre l’obiettivo, come se stesse seguendo nell’aria un’apparizione, un evento ignoto agli altri fotografati. Guarda leggermente verso l’alto, le sue pupille lo indicano senza possibilità di errore. Forse guarda una nuvola, la chioma di un albero. Nell’angolo di destra, dove il terreno continua in un vialetto lastricato sul quale il tetto della veranda disegna una scala d’ombra, s’intravede il corpo acciambellato di un cane. L’occhio del fotografo, incurante della sua presenza, lo ha colto per caso nell’inquadratura e la fotografia ne lascia fuori la testa. È un cagnetto pezzato di nero che somiglia a un fox, ma certo un bastardo.
C’è qualcosa che lo inquieta in quella placida istantanea di ignoti; qualcosa che pare sottrarsi alla sua decifrazione: un segnale nascosto, un elemento apparentemente insignificante e che pure indovina fondamentale. Poi si avvicina attratto da un particolare. Attraverso il vetro della caraffa, ondulate per l’effetto dell’acqua, le lettere del giornale piegato a metà che l’uomo tiene davanti dicono: Sur. Sente di emozionarsi e si dice: l’Argentina, siamo in Argentina, perché mi emoziono?, cosa c’entra l’Argentina? Ma ora sa cosa stanno fissando gli occhi del ragazzo. Alle spalle del fotografo, immersa nel verde, c’è una villa padronale rosa e bianca. Il ragazzo fissa una finestra con le persiane chiuse, perché quella persiana può socchiudersi lentamente, e allora…
E allora che cosa? Perché sta pensando questa storia? Che cosa sta inventando la sua immaginazione che si spaccia per memoria? Ma proprio in quel momento, non per finzione, ma reale dentro di lui, una voce infantile chiama distintamente: “Biscotto! Biscotto!”. Biscotto è il nome di un cane, non può essere che così.
FOTOGRAFIA E AUTENTICITÀ “Storia di un’immagine” in: Autobiografie altrui. Poetiche a posteriori, Milano, Feltrinelli, 2003
Doisneau è un fotografo che i critici severi hanno sempre giudicato con una certa sufficienza. È considerato “amabile”, se non “pittoresco”: ha colto col suo obiettivo quella Parigi forse stereotipata dove si vedono vecchietti col basco e la baguette sotto il braccio, monelli irridenti, robuste e burbere portiere con i pugni sui fianchi, pittori della domenica, innamorati che si baciano lungo la Senna. Una Parigi che assomiglia a quella di Jacques Prévert e di Edith Piaf e dove, seppure con un tocco di malinconia, la vita è comunque “en rose”.
Probabilmente non sono troppo esigente: a me Robert Doisneau è sempre piaciuto. O meglio, non di rado mi ha dato emozioni, così come ti può toccare una canzone o un’aria di fisarmonica, quella musica, come direbbe Drummond de Andrade, che in certe giornate è più adatta al nostro umore di una sinfonia. Ma quel giorno, più che per la mia simpatia per Doisneau, era entrato nella piccola galleria perché su un noto settimanale era apparsa “l’accusa” di un critico autorizzato il quale, scandalizzando la Francia e tutti gli ammiratori di Doisneau, affermava che molte istantanee del celebre fotografo, in particolare quella degli innamorati felici che si baciano per strada, non erano affatto spontanee, ma una messinscena. In sostanza: Doisneau avrebbe pagato coppie di giovani innamorati affinché si baciassero “spontaneamente” per il suo obiettivo nei boulevards parigini.
Uscendo dalla galleria la mia riflessione circolava intorno al seguente quesito: cos’è naturale e cos’è artificiale”? In altri termini: qual è il confine tra realtà e finzione?… Mi chiedevo: anche ammettendo che il fotografo avesse assoldato questi due innamorati affinché si baciassero, forse che loro bacio non era spontaneo? Quel bacio in più che il ragazzo e la ragazza si scambiavano a pagamento era forse meno vero di tutti i veri baci che abitualmente si scambiavano per le vie di Parigi?
FOTOGRAFIA E NARRAZIONE “Storia di un’immagine” in: Autobiografie altrui. Poetiche a posteriori, Milano, Feltrinelli, 2003
Vidi un’immagine che mi colpì. Era una fotografia formato cartolina e raffigurava un uomo che abbraccia una donna. La donna è ritratta di spalle e indossa un vestito nero scollato a V. Ha in testa un cappello bianco che è contemporaneamente la sua testa e la testa dell’uomo che l’abbraccia, perché esso nasconde i volti. Lui si afferra lei con un abbraccio spasmodico, come un naufrago attaccato una roccia, si direbbe. Il corpo della donna non manifesta alcuna visibile emozione, lei fa solo un piccolo gesto con la mano destra, ma non si capisce bene se è un gesto di protezione e tenerezza per l’uomo che l’abbraccia, oppure si sta semplicemente reggendo la falda del cappello che il vento potrebbe far volar via. Intorno a quei corpi fusi in un abbraccio, il grigio del cielo (era una foto in bianco e nero) e un orizzonte vuoto. Quello che mi colpì non fu solo la forza dell’immagine, cioè un momento di vita rapito da un’istantanea, ma anche il “mistero” di quell’abbraccio. Di che cosa si trattava? Qual era il segreto di quell’abbraccio così drammatico? La foto costava pochi franchi. La comprai…
E durante tutti questi anni non ho mancato di porre il quesito che quell’immagine contiene a chi mi era vicino: mia moglie, i miei figli, amici di vari paesi. Di che cosa si tratta, secondo te? Di un addio? Di un ritorno? E che è ritornato, o chi sta partendo, lui o lei? Oppure: e se invece questo disperato abbraccio nascondesse una sciagura? Se, supponiamo, si trattasse di un padre e di una madre (dai corpi si capisce che sono mature) e lui avesse saputo di una disgrazia che li riguarda; sua moglie è a una festa, ignara, sta bevendo un cocktail in un giardino, chiacchiera con gli altri invitati, e all’improvviso lui arriva, l’abbraccia, il loro figlio è morto in un incidente, lui lo sa, ma come si fa a dire ad una donna che sta bevendo un cocktail in un giardino che suo figlio è appena morto?…
Nel febbraio del 2001 l’editore Feltrinelli mi chiese se avevo suggerimenti per la copertina di Si sta facendo sempre più tardi che stava per uscire. Senza sapere bene perché pensai che la fotografia che avevo portato con me per tanto tempo avesse qualcosa a che vedere con il libro che avevo scritto. L’editore riuscì a rintracciare la casa editrice che possedeva i diritti, e l’immagine poté essere utilizzata per la copertina.
E il Kuligowski [il fotografo che aveva scattato la fotografia] con la sua aria imperturbabile, ormai sulla porta: “Un remariage, c’était un remariage”. Probabilmente legge sul mio viso la sorpresa e allora precisa: negli anni settanta, lui di professione faceva il fotografo di matrimoni, battesimi e cerimonie del genere, quei due erano una coppia che aveva divorziato anni addietro e poi, passato, aveva deciso di risposarsi. “Succede , sa?”.
Il signor Kuligowski, se era il signor Kuligowski, non si è più fatto vivo….
“C’è una stampa di Munch”, mi dice, “che credo sia il prototipo di un tema celebre, il bacio di due amanti, del quale poi Munch ha fatto infinite variazioni, perfino con allusioni vampiresche”. Pausa. “I due corpi così drammaticamente allacciati, quasi fusi in un unico corpo, hanno una posa talmente simile alla fotografia del tuo libro che ho pensato che il fotografo si sia ispirato al quadro di Munch. Insomma, potrebbe essere una fotografia ‘costruita’, come quando i fotografi mettono in posa i soggetti. …”
Davide Benati mi disse che molte opere dell’artista norvegese [Munch] non nascono direttamente dalla sua immaginazione, ma sono mediate da una fotografia, arte che Munch amò moltissimo e che coltivò come dilettante (…).Ebbene, mi disse Davide, spesso Munch convocava degli amici, li disponeva in una posa che aveva in mente (nel senso che “costruiva” una scena, ad esempio un abbraccio) e poi li fotografava. E sulla fotografia modellava l’opera grafica o pittorica….
Credo che la storia di questa immagine possa fermarsi qui. Cercarne le ragioni segrete non mi ha fornito nessuna certezza, ma in compenso mi ha sollevato molti dubbi. Soprattutto mi ha messo in guardia dalle nostre pretese, non di rado arroganti, di voler tracciare i confini esatti fra le cose che sono, di credere di misurare al millimetro dove finisca la “realtà” e dove comincia la “finzione”. Infine, da un punto di vista della cosiddetta narratologia, mi ha insegnato che, al contrario di quanto affermano i critici autorizzati, la copertina di un libro, oltre che “soglia”, può essere una tromba delle scale nella quale si precipita ignari. Nel senso che mi venuto un sospetto: che non sono soltanto io che ho messo un libro sotto di lei, ma è anche lei che ha convocato un libro sotto se stessa. Forse quel libro l’ho scritto anche perché un giorno senza ragione, comprai quell’immagine su una bancarella di Parigi.
FOTOGRAFIA TRA ORRORE E SPETTACOLO in La testa perduta di Damasceno Monteiro, Milano, Feltrinelli, 1997
– Le rotative entrano in funzione fra mezz’ora, disse il direttore, faccio un’edizione straordinaria oggi stesso, appena due fogli con tutte le tue fotografie, non c’è bisogno del testo, per ora è meglio che tu taccia, alle tre del pomeriggio il volto misterioso sarà diffuso in tutto il paese.
– Come sono venute le fotografie?, si informò Firmino.
– Orrende, disse il direttore, ma chi lo vuole riconoscere lo riconoscerà.
Firmino sentì un brivido nella schiena pensando all’effetto che avrebbe fatto il giornale: peggio di un film dell’orrore. Si azzardò a chiedere timidamente quale disposizione avrebbero avuto le foto.
– In prima pagina la fotografia del volto preso di fronte, rispose il direttore, nelle due pagine interne il profilo destro e il profilo sinistro, e nell’ultima pagina una fotografia classica di Oporto col Douro e il ponte di ferro, naturalmente a colori. (…)
In quel momento entrò nel caffè lo strillone, un ragazzino. Portava un fascio di giornali sotto il braccio e girando fra i tavoli diceva: “Trovata la testa del decapitato, il mistero di Oporto”
Firmino comprò l’Acontecimento. Gli dette una sbirciatina e lo piegò accuratamente in quattro perché si sentiva a disagio. Se lo mise in tasca e uscì. Pensò che era meglio rientrare alla pensione.
FOTOGRAFIA COME FALSARIA in Notturno indiano, Sellerio, 1984
“Qualche anno fa ho pubblicato un libro di fotografie», disse Christine. «Era la sequenza di una pellicola, fu stampato molto bene, come piaceva a me, riproduceva anche i denti della pellicola, non aveva didascalie, solo foto. Cominciava con una fotografia che considero la cosa più riuscita della mia carriera, poi gliela manderò se mi lascia il suo indirizzo, era un ingrandimento, la foto riproduceva un giovane negro, solo il busto; una canottiera con una scritta pubblicitaria, un corpo atletico, sul viso l’espressione di un grande sforzo, le mani alzate come in segno di vittoria: sta evidentemente tagliando il traguardo, per esempio i cento metri ». Mi guardò con aria un po’ misteriosa, aspettando una mia interlocuzione.
«Ebbene? », chiesi io, «dov’è il mistero?».
«La seconda fotografia », disse lei. «Era la fotografia per intero. Sulla sinistra c’è un poliziotto vestito da marziano, ha un casco di plexiglas sul viso, gli stivaletti alti, un moschetto imbracciato, gli occhi feroci sotto la sua visiera feroce. Sta sparando al negro. E il negro sta scappando a braccia alzate, ma è già morto: un secondo dopo che io facessi clic era già morto ». Non disse altro e continuò a mangiare.
«Mi dica il resto», dissi io, «ormai completi il racconto».
«Il mio libro si chiamava Sudafrica e aveva un’unica didascalia sotto la prima fotografia che le ho descritto, l’ingrandimento. La didascalia diceva: Méfiez-vous des morceaux choisis». Fece una piccola smorfia e continuò: «niente pezzi scelti, per favore, mi racconti la sostanza del suo libro, voglio sapere il concetto».
«C’è qualcosa che non mi torna nel suo libro», disse Christine, «non so bene cosa, ma non mi torna».
«Lo credo anch’io», risposi.
«Senta», disse Christine, «lei è sempre d’accordo con le critiche che le faccio, è insopportabile».
«Ma ne sono proprio convinto», affermai, «davvero. Deve essere un po’ come quella sua fotografia, l’ingrandimento falsa il contesto, bisogna vedere le cose da lontano. Méfiez-vous des morceaux choisis».
massimocec – odellac aprile 2012
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