Surreale è ciò che va oltre la realtà sensibile ed osservabile. Il termine “surreale” deriva dal francese surréel e significa letteralmente sopra la realtà ed è spesso utilizzato in riferimento a particolari ambienti come il mondo onirico, la fantasia, l’inconscio e l’interiorità. Una situazione surreale è svincolata da qualsiasi legame con il mondo reale.
Spesso di parla di alcune fotografie definendole surrealistiche e con ciò intendendo che sono un po’ come un prodotto della fantasia, lontane dalla realtà, inserite in un contesto simile a quello onirico. Ma che cosa troviamo in queste fotografie? Spesso solo accostamenti di oggetti che normalmente sono estranei tra loro, oppure collocazione di cose in contesti non abituali, o ancora prospettive che deformano gli oggetti, configurazioni e relazioni inusuali. Tutti elementi non sufficienti a far pensare ad un abbandono della realtà, ad un tentativo di abbattere la barriera tra il mondo del sogno e la realtà, alla ricerca di una piena libertà di espressione mediante l’esaltazione dell’irrazionale facendo uso di elementi di casualità e del non-senso come era nelle intenzioni del surrealismo come movimento artistico, una delle avanguardie dei primi decenni del secolo passato. La fotografia in quanto indice, traccia lasciata dalla luce, non può recidere il suo legame con la realtà. Allora è probabile che con il termine fotografie surrealistiche si intenda solo denotare la distanza dalla percezione ordinaria e abitudinaria delle cose, senza che avvenga un passaggio netto nel mondo dell’illogicità, dell’immaginazione completamente svincolata dalle relazioni logiche e dai vincoli razionali. Certo il termine surreale richiama un contesto di tal genere, un contesto onirico, magico, irrazionale. Quasi sempre il surrealismo è accostato Breton e ai suoi manifesti, e nel primo manifesto in effetti si parla di visioni oniriche, del recupero della prolifica immaginazione infantile, della malattia mentale come rivelatrice di verità, dell’abolizione della logica in favore dell’automatismo. Ma il surrealismo non è solo una corrente letteraria definita, ma un modo di espressione che va oltre la ristretta cerchia di coloro che in un modo o in un altro vi hanno aderito. È una sorta di linguaggio all’interno del quale sono possibili diverse interpretazioni.
Un autore che non si è mai professato surrealista ma che offre una chiave per riuscire a comprendere il surrealismo in un’ottica diversa da quella della esaltazione della libera espressione personale svincolata dalla logica razionale è Robert Musil, l’autore di una delle più importanti opere letterarie del Novecento: L’uomo senza qualità. Musil è uno di quei grandi autori del secolo passato che ne hanno segnato in modo indelebile le caratteristiche da un punto di vista culturale. Il modo con cui noi costruiamo il nostro rapporto con la realtà e il modo con cui arriviamo a conoscerla hanno avuto uno spazio notevole tra le tematiche che lo scrittore austriaco ha affrontato nella sua produzione letteraria. In tale prospettiva si è occupato, anche se marginalmente, del rapporto conoscitivo con la realtà mediato dalla tecnologia e in particolare dal cinema. Non conosco invece testi di Musil in cui si parli esplicitamente della fotografia. Esiste però un breve saggio, Il Cannocchiale prismatico, contenuto in Pagine postume pubblicate in vita, in cui Musil propone delle riflessioni su questo strumento ottico e sulle modalità della percezione visiva mediata, oltre che dal cinema, anche da tale strumento tecnologico. In questo testo Musil si occupa del rapporto tra visione della realtà a occhio nudo e visione di essa attraverso tecnologie che permettono di alterarne l’immagine. Musil vede nel cannocchiale non lo strumento per creare immagini illusorie e quindi irreali del mondo, ma uno strumento capace di offrire una visione isolata e frammentaria degli oggetti utile per dissezionare la realtà abituale e quotidiana e per mettere in luce le incertezze e il caos della vita occultati dalla visione abitudinaria delle cose.
“Chi non crede che il mondo sia così, guardi con le lenti prismatiche una vettura tranviaria. Davanti al suo palazzo essa descriveva un doppio arco a forma di S. Il nostro osservatore l’aveva vista arrivare infinite volte dall’alto del suo secondo piano, tracciare le due curve a S, e ripartire; restando in ogni momento di questa manovra lo stesso carrozzone oblungo. Ma mentre lo contemplava attraverso il binocolo, tutto mutò: una forza inesplicabile schiacciò d’improvviso quella specie di cassa come una scatola di cartone, le pareti si avvicinarono e parvero appiattirsi; poi la forza a un tratto cedette, il cassone si allargò nella parte posteriore, un movimento percorse tutte le sue superfici, e mentre il testimone attonito si lasciava sfuggire dal petto il respiro trattenuto, la vecchia è ben noto scatola rossa aveva ripreso la solita apparenza. Tutto ciò, osservato col binocolo, e non unicamente davanti ai suoi occhi, accadde così chiaramente da sembrar non meno autentico dell’aprirsi e chiudersi di un ventaglio. […] Si vedono sempre le cose in mezzo a ciò che le circonda e si prende l’abitudine di confonderle col significato che assumono nel loro ambiente. Ma se per una volta se ne staccano, eccole diventare incomprensibili e paurose, come dev’esser stato l’indomani della creazione, prima che le cose si fossero abituate le une alle altre e a noi stessi. Così nella solitudine cristallina del cannocchiale tutto diventa più chiaro e più grande, ma soprattutto più originale e più magico” (Da il Cannocchiale Prismatico)
Ciò che siamo abituati a considerare reale è ciò che l’abitudine ci porta a considerare tale sotto la pressione dei bisogni di tipo pragmatico. Nella vita ordinaria e nelle immagini che in essa utilizziamo l’oggetto si confonde con il contesto e da esso trae la conferma di oggetto reale. Il cannocchiale, secondo Musil, permette di andare oltre lo strato consolidato dall’abitudine e permette il rifiuto di un universo stabile e continuo come unica dimensione della realtà. Il cannocchiale non offre una dimensione fantastica, irreale dell’oggetto, ma una visione libera dalle concatenazioni e dai concetti usuali che costituiscono un muro che ci impedisce di cogliere le molteplici relazioni che possono determinare la realtà così come la vediamo e le sue altre molteplici manifestazioni che non riusciamo a vedere. L’isolamento dell’oggetto è quindi il primo strumento per liberarsi dal peso dell’abitudinario, dello stereotipo.
Anche la fotografia usata come mezzo per ritagliare spazi, per delimitare oggetti è uno strumento che non si limita a riprodurre la realtà così come è ma può aiutare a scoprire la dimensione del senso del possibile, purché ci si liberi dal senso comune che vede nella macchina fotografica un mero marchingegno riproduttivo. La ripetizione mimetica della realtà, ripetizione che nel senso comune sembra l’unico prodotto possibile della fotografia, non è altro che il manifestarsi di stereotipi rappresentativi. La realtà è un dato instabile, in continua trasformazione e non un dato di fatto immutabile. Grazie al cannocchiale e alla fotografia l’oggetto isolato perde la sua fissità e viene proposto visivamente nell’insieme di possibilità create prospetticamente da chi lo osserva da nuovi punti di vista.
“Rappresentare una cosa significa rappresentare i suoi rapporti con cento altre cose. Perché è oggettivamente impossibile fare diversamente, perché non c’è altro modo per rendere comprensibile, percepibile una cosa, qualunque essa sia.” (da L’uomo senza qualità, trad. A. Rho, Torino, Einaudi, 1972)
A conclusioni simili arriva anche Wittgenstein quando afferma che la certezza che contraddistingue il senso comune non è altro che il prodotto dell’occultamento del legame tra alcune idee e la loro origine. Ciò che ci appare naturale è solo un prodotto culturale che ha perso la memoria della sua natura culturale. (Wittgenstein Della certezza). Per liberare la mente da questo fardello della naturalezza delle idee e delle immagini che ci sembrano rivelare un mondo unico e certo è necessario ricostruire il legame tra le cose e le loro immagini siano esse mentali o visive. Il cannocchiale come la fotografia possono essere strumenti che consentono di compiere questa operazione moltiplicando le prospettive, individuando relazioni tra le cose che a occhio nudo non sono percepibili o non sono intuibili, esercitare nel rapporto con le cose la capacità di riflettere, di dialogare con loro, di lasciarsi prendere dal loro imprevedibile manifestarsi. Ma per far ciò è importante il come, il modo e lo scopo per cui il cannocchiale viene usato.
“In questo modo il binocolo porta un contributo tanto alla comprensione del singolo individuo, quanto all’infittirsi del mistero dell’esistenza umana. Distruggendo le correlazioni convenzionali e scoprendo quelle reali, sostituisce il genio o almeno lo prepara. Forse è appunto per questo che se ne raccomanda inutilmente l’uso. Si sa infatti che la gente lo adopera a teatro per accrescere l’illusione, oppure negli intervalli per vedere chi c’è tra il pubblico; nel far questo non cerca l’ignoto, ma la gente che conosce.” (Da il Cannocchiale Prismatico)
Non sono sufficienti le proprietà fisiche dello strumento per scoprire nuovi legami tra le cose; è l’atteggiamento di chi lo usa che determina la qualità della visione. L’individuazione della molteplicità di possibilità con cui il reale può manifestarsi e l’individuazione di un ruolo attivo del soggetto che osserva sono il prodotto di una scelta resa possibile dallo strumento e non la conseguenza dell’uso inconsapevole dello strumento stesso. È inoltre necessario tener presente che nell’idea musiliana che la realtà sia un compito e un’invenzione non c’è idealismo; la realtà rimane esterna al soggetto che la pensa. La possibilità di cui parla Musil è insita nella realtà e non nella mente del soggetto che la pensa. Ogni volta che guardiamo un elemento della realtà e ne scopriamo un’immagine, lo facciamo da una prospettiva nuova e in questo senso particolare scopriamo una nuova realtà, ma non la produciamo. La realtà non diventa un nostro prodotto. Essa rimane di fronte a noi come altro, come oggetto distinto da noi che si oppone alla nostra volontà. Ciò che è nostra produzione è l’immagine dell’oggetto che è percepito in un certo modo in un dato istante è che solo il punto di incontro di potenzialità che sono infinite. Lo sguardo disattento può solo perdere l’occasione e rimanere ancorato all’idea che la realtà sia unica e certa.
“Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta aperta deve tener presente il fatto che gli stipiti sono duri: questa massima alla quale il vecchio professore si era sempre attenuto è semplicemente un postulato del senso della realtà. Ma se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o tal altra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: beh, probabilmente potrebbe anche esser diverso. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe essere, e di non dar maggior importanza a quello che è, che a quello che non è” (da L’uomo senza qualità, trad. A. Rho, Torino, Einaudi, 1972)
Esplorare la realtà tenendo presente come riferimento il senso del possibile significa andare oltre il senso dell’ovvio, andare oltre il visibile come dato incontrovertibile senza annullare l’esistenza dell’oggetto. Le parole di Musil sembrano descrivere le potenzialità insite nella pratica della fotografia quando essa viene usata per esplorare il reale, diventando così uno strumento che può metterci direttamente in contatto con la dimensione del senso del possibile. Le fotografie spesso definite “surrealistiche” sono quelle fotografie scattate tenendo conto della natura mutevole della realtà, del fatto che ad ogni scatto si riproduce soltanto un aspetto del reale e che ad ogni scatto legato a quello specifico oggetto può seguirne un altro il cui contenuto sarà diverso dal precedente. E il nuovo scatto non è meno reale del precedente, è solo un’altra possibilità, un’altra dimensione del visibile, della realtà. Tale caratteristica dell’immagine fotografica dipende dalla sua natura da un lato di indice, di traccia lasciata dalla realtà mediante la luce che è un flusso continuo arrestato solo grazie al fatto che in un certo punto dello spazio è stato collocato una barriera pellicola o sensore, in grado di fissare tale flusso. Dall’altro lato la caratteristica che rende possibile alla fotografia di diventare uno strumento per andare oltre il senso di realtà è la sua ambiguità in quanto l’immagine fotografica in sé non contiene tutte le informazioni necessarie per essere collocata nello spazio e nel tempo, per farsi portatrice di senso e di significato. La situazione raffigurata in un’immagine fotografica non è pienamente e immediatamente decifrabile. Quasi sempre è necessario l’intervento della parola. È un mito l’idea che un’immagine comunichi più della parola. È vero l’opposto. Forse l’immagine può toccare più profondamente la sfera emotiva, ma non quella cognitiva, a meno che non si stia parlando di immagini particolari come quelle ecografiche o radiografiche o quelle scattate con enormi telescopi al cielo stellato. In questo caso l’immagine diventa potenziamento esclusivo della sfera cognitiva in quanto potenziamento degli organi sensoriali, un potenziamento non immediato in quanto tali immagini richiedono una notevole conoscenza dell’oggetto per poter interpretare i segni contenuti nell’immagine prodotta dagli strumenti diagnostici o dai telescopi o dai microscopi. L’ambiguità è però anche una potenziale apertura sul piano del significato, una apertura sul senso del possibile; l’immagine è, per usare la felice terminologia di Eco, un’opera aperta, un’opera in cui la molteplicità dei livelli di realtà sono struttura essenziale. L’immagine diventa rappresentazione, l’oggetto fisico diventa oggetto immateriale, strettamente collegato ad un soggetto produttore della rappresentazione, senza il quale sarebbe un inerte cumulo di inchiostro o di pixel.
Il reale rappresentato nella fotografia è soltanto una possibilità non è il necessario realizzarsi di una concatenazione di eventi. La macchina fotografica può diventare uno strumento per esplorare il senso del possibile, per produrre una visione del reale libera dal peso delle concatenazioni e dei concetti ordinari e usuali, dalla pietrificazione di immagini che impediscono di accedere alla dimensione del possibile: luce, inquadratura, prospettiva, profondità di campo, relazioni tra gli oggetti e i soggetti, messa in scena possono consentire di moltiplicare punti di vista, di destrutturare l’ordine spaziale, di smontare l’apparente solidità e unicità del continuo spazio temporale restituendo un’immagine frammentaria ed episodica del mondo e degli eventi, un’immagine che può rivelarsi meno schiava degli stereotipi, delle convinzioni e del senso di realtà che l’approccio utilitaristico all’esperienza favorisce. Il senso della realtà non è in conflitto con il senso del possibile, ma è necessaria una sorta di vicendevole collaborazione tra i due affinché il razionale, la comprensione razionale della realtà non si trasformi in immagine razioide, in meccanica giustificazione di un’unica dimensione del reale che produce come unica alternativa immagini legate al sogno, all’illusione, alla realtà come prodotto della volontà o dello spirito. La ripetizione mimetica della realtà è schiava di stereotipi rappresentativi che la trasformano in una narrazione per causa ed effetto o in una descrizione parziale spacciata come l’unica possibile. Andare oltre tale parzialità significa tentare di scoprire ciò che è nascosto dietro la visione ordinaria delle cose senza rifugiarsi nelle immagini illusorie, fantastiche. La fotografia esplora il possibile, riesce a trasformarlo in un’ipotesi concreta e affidabile perché non può esistere senza un referente, senza un oggetto esterno che sia in grado di produrre l’immagine e nello stesso tempo moltiplica i punti di vista su tale referente. L’immaginario evocato dalla pittura si presenta del tutto autonomo rispetto alla realtà fisica, mentre la fotografia continua ambiguamente a mescolare i due piani; la fotografia è una pratica collocata all’intersecazione tra scienza e arte, tra pratica razionale ed emozione, tra soggetto e oggetto, tra fisicità dell’immagine e leggerezza della rappresentazione e ad essa ci si può riferire con le parole di Musil:
“Un uomo che vuole la verità, diventa scienziato, un uomo che vuol lasciare libero gioco alla sua soggettività diventa magari scrittore: ma che cosa deve fare un uomo che vuole qualcosa d’intermedio fra i due?” (da L’uomo senza qualità, trad. A. Rho, Torino, Einaudi, 1972).
Seguire il senso del possibile in fotografia allora vuol dire pensare alle cose percepite visivamente come una molteplicità di potenziali punti di vista da esplorare, come ad una sintesi momentanea di alcune prospettive che possono essere riassunte in rappresentazioni legate ai diversi sguardi che possono essere gettati sulle cose. Il senso del possibile spinge al dialogo con gli oggetti, alla ricerca delle loro potenziali modalità di mostrarsi, anche di quelle più lontane dal senso di realtà, ma non è uno strumento per evadere nel sogno o nella fantasia. Il senso del possibile non coincide neppure con l’utopia di un mondo migliore, non introduce una dimensione gerarchica tra ciò che c’è e ciò che non c’è ma potrebbe esserci, è solo la consapevolezza che tutto ciò che vediamo o che siamo abituati a vedere è solo una faccia della realtà, forse la faccia più irreale perché maggiormente distorta dall’abitudine, dagli stereotipi. Il senso del possibile non è neppure uno stimolo al cambiamento anche se ne è forse il presupposto. Anzi uno degli effetti più probabili della consapevolezza dei molteplici livelli di realtà può essere l’incapacità di decidere, incapacità che ha giocato un ruolo importante in gran parte della letteratura del Novecento, dallo Zeno Cosini di Svevo, a Ulrich de L’uomo senza qualità, al Mattia Pascal di Pirandello. Ma il senso del possibile è un tratto indelebile della nostra esistenza e il suo venir meno ha avuto quasi sempre conseguenze nefaste.
La dimensione surrealistica della fotografia vista nell’ottica del senso del possibile offre la possibilità di utilizzare gli oggetti in modo creativo sfruttando la loro capacità imprevedibile di mostrarsi o di accostarsi in modo improbabile per produrre senso, per produrre narrazioni non istantanee come quelle bressoniane che a loro volta possono creare nuove prospettive che ci aiutano a scoprire nuovi aspetti delle cose, delle persone delle relazioni che ci circondano. In tale dimensione il visibile diventa uno strumento per andare oltre il visibile. Gli oggetti e i paesaggi vengono investiti di significati simbolici. Il visibile così trasfigurato diventa portatore di una molteplicità di significati che danno vita a nuovi punti di vista che possono a loro volta aiutare a reinterpretare la realtà. In fondo che cosa sono l’Ulrich di Musil o lo Zeno Cosini di Svevo se non prodotti di questa capacità di andare oltre il reale per poter creare nuovi punti di vista sul mondo in cui viviamo. Anche la fotografia consente di fare ciò e quest’uso della fotografia altro non è che l’applicazione del senso del possibile alla pratica fotografica.
massimocec aprile 2013
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