Mi è capitato di leggere in questi giorni di ottobre, nei momenti in cui l’ansia legata alla paura del contagio da coronavirus me lo ha permesso, un libro di Tomaso Montanari, L’ora d’arte (Einaudi, 2019). I libro è strutturato come una sorta di catalogo, ogni due pagine un’opera e il suo commento (un commento non di carattere tecnico e neppure divulgativo ma direi quasi intuitivo ed emotivo). A pag. 192 invece della riproduzione di un quadro ho trovato una fotografia (naturalmente il libro è costituito tutto da fotografie che riproducono opere d’arte, ma in questo caso la fotografia è non solo il medium ma anche l’oggetto trattato e questo non è scontatto in un libro dedicato a opere d’arte). È una fotografia del fotografo inglese Tom Hunter che, “parafrasando” alcuni quadri di Vermeer, ritrae uomini e donne che risiedevano nel 1997 abusivamente in stabili abbandonati in un quartiere di Londra (Hackney) e che avevano ricevuto l’ordine di sfratto. La fotografia riprodotta nel testo di Montanari riprende il celebre ritratto “Donna che legge una lettera”. Noi non sappiamo cosa stia leggendo “la ragazza alla finestra” di Vermeer (anche se lo stesso Montanari ci ricorda che alcuni studi ipotizzano che sulla parete fosse appeso, come suggerimento in riferimento al contenuto, un quadro con un Cupido “rendendo così chiaro che si trattava di una lettera d’amore”. Gli altri oggetti presenti nell’opera di Vermeer (un tappeto turco, un piatto di porcellana cinese) potrebbero alludere ad un mittente in viaggio per il mondo. Nella fotografia ritroviamo una ragazza con un’identica postura a quella della ragazza di Vermeer, con il volto scolpito da una stessa luce intensa, anch’essa assorta nella lettura del foglio che ha tra le mani, avvolta, nella sua solitudine, da un profondo silenzio. La scena è però più intensa, più drammatica a causa della didascalia che precisa il contesto, un contesto drammatico, e della presenza non di freddi oggetti esotici ma di un neonato che rivolge uno sguardo tra interrogativo e preoccupato verso la donna.
Il risultato da un punto di vista espressivo mi sembra notevole. Nello stesso tempo però questa foto pone una serie di questioni che riguardano il rapporto tra pittura e fotografia, il tipo di relazione che si instaura tra di esse, se una relazione di frattura o di continuità, il valore artistico della parafrasi di opere d’arte mediante l’utilizzo di strumenti e linguaggi diversi che si appoggiano in modo più consistente alla tecnologia più che alla padronanza di tecniche manuali e la funzione dell’opera d’arte (partendo dal presupposto che anche una fotografia può essere un’opera d’arte) e della bellezza, perché non credo si possa dire che la foto non è bella.
Rispetto alla questione se tra pittura e fotografia prevalga l’elemento della continuità o quello della frattura, credo non si possa prescindere da un presupposto. Quando parliamo di fotografia (ma anche quando parliamo di pittura) utilizziamo un termine unico per indicare cose molto diverse. Ritorna qui il problema delle somiglianze di famiglia di wittgensteiniana memoria. Il significato di un termine non coincide con un’essenza comune a tutti gli elementi che cadono sotto quel concetto, ma con una rete di parentele, di relazioni che non permettono di dare risposte definitive. Fotografie sono quelle scattate alla ricerca dell’istante decisivo alla Cartier Bresson, le foto tessera per le carte di identità, le statiche e nitidissime fotografie di paesaggio di Ansel Adams e dei suoi seguaci del gruppo f/64 così come le foto di Hunter frutto di uno studio per la creazione di una situazione da fotografare non prodotta dal caso, dall’inatteso e fortunato istante inserito nel fluire del tempo e dalla caccia di esso da parte di un fotografo predatore. Le fotografie di Hunter si avvicinano a quelle che in termine tecnico si chiamano fotografie concettuali, fotografie concepite, anticipate nella mente del fotografo e poi realizzate mediante una messa in scena per comunicare o esprimere idee, emozioni e tutto ciò che può essere rappresentato attraverso un’immagine. Per tali caratteristiche vedo prevalere nelle fotografie di Hunter la continuità con la pittura, frutto non tanto o solo in parte della somiglianza con il reale, ma fondamentalmente partorita dalla mente del pittore o dell’artigiano, anche se, per quanto riguarda l’elemento della frattura frattura, cambia il mezzo con cui il prodotto è realizzato e con esso tutta una serie di aspetti legati soprattutto alla produzione dell’oggetto, aspetti non certo secondari. Si perde la necessità di una padronanza tecnica manuale, ma rimane il nucleo fondamentale della pittura, l’espressione di un contenuto concettuale o emotivo attraverso la rappresentazione di un’immagine pensata da un autore. Rimane quindi fondamentale il ruolo del soggetto che produce l’immagine che non si esaurisce nello scatto (come alcuni teorici della fotografia come Vaccari suggeriscono, alludendo alla possibilità anche di rendere autonoma la fotografia rispetto al fotografo), ma si sviluppa per mezzo di una complessa ricerca intellettuale finalizzata a immaginare una realtà fittizia che allude ad una realtà non fittizia e a materializzarla in un oggetto fisico pubblico utilizzando competenze legate ad una specifica tecnologia (come del resto fa il pittore con i pennelli, i colori, le tele). Tale ruolo è presente anche nelle foto prodotte dal fotografo cacciatore, che cerca e sceglie il suo soggetto tra i tanti che il fluire del tempo e il girovagare nello spazio gli mettono a disposizione. Inoltre nelle fotografie di Hunterè presente un altro elemento di continuità rispetto alla pittura costituito dal tentativo di parafrasare un’altra opera, come avevano già fatto grandi pittori, ad esempio, come aveva fatto Picasso con Las Meninas di Velàzquez.
Sono d’accordo con Montanari che conclude il suo commento, dopo aver sottolineato che il risultato delle fotografie di Hunter è quello di rendere più espliciti i ritratti di Vermeer, ma è una modalità non assimilabile con la parafrasi della poesia che si basa sulla destrutturazione della specificità del linguaggio poetico, è un rendere esplicito utilizzando lo stesso linguaggio, quello dell’immagine, rafforzando alcuni tratti, come se stesse utilizzando uno strumento quale il sottolineato o il grassetto: “Ma la forza della luce, l’intensità emotiva e l’inscalfibile cristallo di silenzio in cui la donna sembra chiusa sono gli stessi di Vermeer. E ti sembra un miracolo”. E infatti è proprio quella luce che illumina la ragazza e il bambino, avvolti entrambi da ombre che spingono a immaginare sia il silenzio in cui è immersa la ragazza sia lo stato d’animo di chi sta leggendo la sentenza dello sfratto, che mi ha colpito e mi ha portato a riconoscere la bellezza di quell’immagine che non tradisce la bellezza del ritratto di Vermeer, anzi la rende più visibile. Entrambe le immagini raffigurano scene minime, quotidiane, apparentemente non in grado di mobilitare grandi sentimenti o sensazioni, qualcuno potrebbe classificarle come insignificanti. Ma è proprio ciò che giustifica la presenza del grande pittore olandese nel ruolo di ispiratore di Hunter in quel sobborgo di Londra dove alcuni uomini e alcune donne comuni sono alle prese con un dramma da affrontare nella loro vita quotidiana, come comuni sono i personaggi degli splendidi quadri di Vermeer. La fotografia di Hunter, come la pittura di Vermeer, è lo strumento attraverso il quale l’arte ci fa vivere un’esperienza altrui, collocandola nella sfera di un’esperienza umana non contingente ma condivisa dagli esseri umani nello spazio e nel tempo e nello stesso tempo facendo in modo che la bellezza che emana la fotografia si tinga di una tonalità etica. Con la foto di Hunter siamo di fronte ad un uso della bellezza non come valore autonomo ma come strumento per dare valore all’esperienza quotidiana come elemento proprio della misura umana, dell’essere umano, come già avevano fatto nel loro secolo Vermeer e la pittura olandese.
massimocec ottobre 2020
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