Ciò che più mi interessa nella fotografia è il significato della foto non la sua bellezza. Ma che cosa è il significato? Propongo la risposta che mi convince più delle altre, una risposta ricavata dal tentativo di utilizzare la filosofia del linguaggio del secondo Wittgenstein: l’uso in un contesto che può somigliare a un gioco in una forma di vita. Non è il contenuto oggettivo, o almeno non è solo il contenuto oggettivo che attribuisce a una foto il suo significato, ma il contesto in cui viene scattata, vista o utilizzata, contesto che determina anche il suo contenuto oggettivo, ovviamente non nel senso che l’uso modifica la distribuzione dei pixel o degli inchiostri, ma nel senso che determina il significato di ciò che è rappresentato nella foto, che permette di trasformare delle tracce di inchiostro in qualcosa di comprensibile per la mente. Il significato di una foto nasce in un contesto d’uso e all’interno di una forma di vita giocando uno dei giochi che tale forma mette a disposizione, il gioco della documentazione, il gioco dell’espressione artistica, il gioco della memoria, del ricordo, della nostalgia, il gioco dell’analisi scientifica e così via. Ci si abitua ad attribuire significato alle cose e quindi anche alle foto attraverso l’addestramento, l’abitudine a giocare determinati giochi entro una forma di vita. Non ci sono percorsi lineari. La via verso il significato non è dritta come quella di un cancello aperto su una strada segnata, ma è una via non tracciata, aperta ai lati di quella che sembra una via certa ma che invece necessita della voglia di avventurarsi e rischiare.
Sulla base della teoria wittgensteniana del significato della parola come uso, il significato della fotografia non va cercato esclusivamente nei suoi elementi fisici ma nelle sue potenzialità espressive per l’osservatore che, all’interno di una forma di vita, sta giocando un determinato gioco e grazie ad esso riesce ad andare oltre il dato fisico, il segno lasciato dall’inchiostro sulla carta o i pixel sul monitor. È all’interno delle regole che disciplinano il gioco o uno dei giochi giocati entro una forma di vita che si può riconoscere il significato di una fotografia.
La fotografia per molto tempo è stata considerata un riproduzione del reale. Roland Barthes in un suo saggio, Il messaggio fotografico, dice: “Senza dubbio l’immagine non è il reale; ma ne è quantomeno l’analogon perfetto, ed è precisamente questa perfezione analogica che, per il senso comune, definisce la fotografia”. E con analogon Barthes intende la percezione di una realtà riprodotta tale e quale senza alcuna mediazione, senza un codice che fornisca ai segni un significato. La fotografia è per Barthes una copia fedele del referente, un messaggio senza codice, un sistema continuo basato sulla luce. Il problema però si ripresenta quando cerchiamo di capire come funziona questo analogon, visto che, per esempio, la realtà è tridimensionale e la fotografia bidimensionale. La fotografia in qualche modo opera una traduzione, un passaggio che trasforma qualcosa in qualcos’altro tramite regole che consentono di comprendere l’oggetto che è stato tradotto, interpretato, è un modo per creare il senso di profondità, forse più vicino di altri a quello adoperato dalla sguardo umano. È infatti evidente che l’analogon di cui parla Barthes non può consistere in una riproduzione del reale così come è, per il semplice motivo che la realtà è quantomeno tridimensionale e priva di limiti spaziali (senza parlare poi dal ruolo giocato dal tempo) e la fotografia è bidimensionale e delimitata e il tempo è per così dire congelato nell’istante dello scatto, privato della sua continuità. L’analogon quindi ha alla sua base un isomorfismo che può essere individuato nelle leggi dell’ottica e nell’applicazione meccanica, grazie alla tecnologia della macchina e dell’obiettivo, della prospettiva centrale. Forse la chiave per capire perché la fotografia è stata considerata uno strumento di riproduzione fedele della realtà va cercata proprio nel fatto che la fotografia agisce in qualche modo applicando leggi fisiche, le leggi della visione monoculare, le stesse leggi che sono state utilizzate dai pittori quando hanno iniziato a dipingere adoperando le regole della prospettiva e ciò avviene perché la fotografia è il prodotto della luce. Nella prospettiva si può rintracciare una sorta di isomorfismo tra visione oculare e rappresentazione della realtà. Ma tale constatazione non tiene conto del fatto che la prospettiva centrale, la prospettiva rinascimentale, come dicono studiosi come Arnheim e soprattutto Goodman, è anch’essa un codice culturale, cioè uno strumento per convertire da una dimensione ad un’altra, da un linguaggio ad un altro. Bisogna tener conto inoltre che la visione umana non dipende solo dalle leggi ottiche ma anche dalle rielaborazioni del cervello e in questa fase subentrano molti altri elementi oltre alle leggi fisiche dell’ottica. La prospettiva inoltre nella pittura e nella fotografia è uno strumento espressivo, uno strumento che consente di operare scelte per costruire una rappresentazione della realtà, lasciando libero il soggetto di individuare alternative più consone ai suoi scopi, come hanno fatto, sempre in un ottica di mimetismo con il reale, ad esempio gli impressionisti. Anche in campo fotografico come in quello pittorico si può giocare con alcuni strumenti per modificare l’espressione visiva di ciò che deve essere rappresentato, il modo di rappresentare la realtà, strumenti quali la scelta della focale, della profondità di campo, del punto, della distanza e dei tempi di ripresa, dell’uso del mosso e dello sfocato.
C’è una straordinaria corrispondenza tra la teoria della fotografia come rappresentazione visiva della realtà mediante le leggi ottiche e la filosofia del linguaggio del primo Wittgenstein, del Wittgenstein del Tractatus in cui il filosofo austriaco diceva che la frase trae il su significato dal fatto che c’è una sorta di isomorfismo tra linguaggio e mondo e in particolare tra la forma delle proposizioni e la struttura dei fatti. Il problema del primo Wittgenstein era quello di tracciare un limite a ciò che può esser detto e, entro tale confine, illustrare come il linguaggio parla del mondo. Per far ciò Wittgenstein definisce come, secondo lui, il mondo è costituito a partire da oggetti semplici che ne costituiscono la sostanza. Gli oggetti esistono solo grazie alle loro relazioni ed esse determinano gli stati di cose, cioè possibili configurazioni di oggetti. Gli stati di cose che esistono effettivamente sono i fatti, cioè il mondo reale. Il linguaggio, intendo con ciò il linguaggio raffigurativo, funziona come insieme di immagini di tali fatti. Le immagini costituiscono un modello della realtà e hanno in comune con essa la stessa forma. La proposizione è un modello possibile di un fatto in quanto è la materializzazione di un’immagine logica del mondo. La proposizione vera descrive un fatto reale. I fatti accadono, le proposizioni, che sono anch’esse fatti, raffigurano i fatti che accadono e i fatti possibili. Il confronto tra proposizioni e fatti è possibile grazie all’isomorfismo che esiste tra i due elementi. L’immagine logica contenuta nella proposizione rispecchia perfettamente la realtà se tale proposizione è vera. La proposizione falsa descrive invece fatti possibili ma non accaduti. Ai due punti estremi ci sono la contraddizione e la tautologia e fuori da tale spazio c’è l’indicibile, ciò che non è un fatto e quindi non è esprimibile mediante il linguaggio. E in tale prospettiva si colloca l’asserzione azzardata sul piano teorico che la scienza è l’insieme di tutte le proposizioni vere.
Ma quando Wittgenstein ha cominciato ad occuparsi del linguaggio ordinario, allora le sue teorie sul linguaggio si sono modificate. Il punto di partenza è stato proprio il riconoscimento che non ha senso la ricerca sui fondamenti ultimi del linguaggio, ciò che tiene in piedi la sua struttura. La ricerca dei fondamenti ha un confine oltre la quale non si può andare se non con il rischio di un regresso all’infinito. Per ogni elemento che funziona da fondamento dovremmo chiederci su che cosa esso poggia. Ad un certo punto non si può andare oltre. Ad un certo punto bisogna accettare che le cose sono così e qui sta il limite del nostro sapere, del nostro rapporto con la realtà. Tali limiti sono convenzioni naturalizzate, senso comune che si trasforma in certezza nel momento in cui sparisce la consapevolezza che dietro tale presupposto c’è un accordo, una convenzione.
Wittgenstein riconosce nell’uso all’interno di una forma di vita l’origine del significato del linguaggio ordinario. La parola si dota di significato all’interno di giochi linguistici che vengono giocati in una forma di vita. Il gioco ha alla base un accordo, limita le mosse possibili, le mosse che si possono fare. I giochi linguistici sono in parte descrizioni fattuali, si descrive cosa si fa e nel fare si mostra la struttura del gioco. Parlare un linguaggio è un’attività pratica, appresa. Il gioco non è arbitrario. È un sistema di comunicazione che si basa su regole intersoggettive. Quasi mai le parole funzionano come nomi, come etichette. Nel linguaggio le parole sono un costrutto, strumenti fluidi il cui significato muta il rapporto alle funzioni per cui sono usate. Lo scopo degli elementi linguistici non è quello di descrivere o di raffigurare il mondo ma di agire, di consentire le relazioni. Apprendere un linguaggio non è imparare il nome degli oggetti. Parlare è strettamente connesso con l’agire. Per poter parlare e per poter per agire in una forma di vita sono necessarie delle relazioni tra gli uomini, occorrono delle regole cioè dei giochi. Ciò che hanno in comune i linguaggi non è una struttura logica unica ma somiglianze di famiglia.
L’uso rimanda ad una forma di vita. Il linguaggio descrive la forma di vita. Seguire la regola non è possibile per un solo uomo. La regola è una struttura sociale. Linguaggio non può funzionare la base di dati psichici privati, funziona perché ci sono le regole condivise. Il linguaggio raffigurativo è solo uno dei possibili linguaggi. Nel linguaggio ordinario c’è una molteplicità di usi e quindi una molteplicità di giochi linguistici.
Le stesse regole funzionano per la fotografia perché anche la fotografia è un agire è ha una sua ordinarietà nella nostra forma di vita. Linguaggio e fotografia sono funzioni strumentali che consentano di fare qualcosa. La fotografia come il linguaggio non sono fini a se stessi, e quando lo diventano si trasformano in qualcosa di arido, pedante, privo di senso. È come se la poesia o il romanzo si chiudessero all’interno di un cerchio di autoreferenzialità in cui conta soltanto la loro struttura formale. È accaduto ma quando è accaduto di ciò che è stato prodotto non è rimasta traccia. Linguaggio e fotografia sono strumenti di espressione, di comunicazione, di conoscenza e in tale varietà di funzioni gli scopi per cui vengono usati sono molteplici. La fotografia che ha come scopo raffigurare la realtà è solo uno dei possibili usi della fotografia. Ma non si comprende come funziona la fotografia se ci si arresta a tale uso. Chiunque scatti una fotografia entra in un gioco che può essere quello della documentazione, ma anche quello della memoria personale, del ricordo familiare, della ricerca estetica. Quando si usa una fotografia c’è una persona che inquadra e scatta perché sceglie di farlo in quel momento di fronte ad una determinata situazione e ci sono poi altre persone, o la stessa che ha fotografato, che guardano la foto e la interpretano, la leggono attraverso un meccanismo occhio-cervello-mente. Tale meccanismo funziona mediante attribuzione di significato a ciò che vediamo e il significato non dipende solo dall’oggetto raffigurato ma da un insieme più complesso di elementi che sono determinati dal gioco che stiamo giocando. Le foto possono essere uno strumento per andare oltre la realtà, per accedere a ciò che la realtà non mostra in modo palese. Le fotografie possono servire per mobilitare un ricordo, le le emozioni che possono legarsi ad esso, per cogliere un aspetto nascosto del visibile, per indagare l’invisibile. La fotografia può essere traccia come quella lasciata dall’animale sul terreno, come accade ad esempio in campo diagnostico, oppure somiglianza fedele alla realtà quando essa ha lo scopo di documentare, quando serve come prova, o ancora può essere usata per il suo valore estetico o per scopi creativi. La foto non è soltanto rappresentazione della realtà perché non tutta la realtà è diventata fotografia e non lo potrà mai diventare. Il fotografo seleziona, applica criteri selettivi, sceglie cosa fotografare e con ciò rende la realtà discontinua, la trasfigura, la adatta al proprio strumento. Tale lavoro è un lavoro che ha come scopo produrre senso e riconoscere significati. Ed è il gioco che si sta giocando che consente di fare ciò, talvolta anche grazie al mutamento delle regole che fino a quel momento avevano funzionato. Robert Franck nel fotografare gli americani e l’America infrange le regole della fotografia documentarista della FSA ma continua a documentare l’America. Gioca lo stesso gioco ma con regole nuove. E se tale mutamento diventa pubblico, si possono creare significati.
Si può usare la fotografia per molti scopi che trovano la loro collocazione in una forma di vita che si materializza in un insieme di regole, regole che hanno però una natura elastica, che costituiscono legami deboli, parentele, somiglianze, regole che hanno tra loro un aspetto familiare piuttosto che un contenuto uniforme che le organizza. Non hanno qualcosa in comune ma sono solo imparentate e costituiscono una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e si intrecciano, avendo però in comune una tecnologia, quella della macchina fotografica. Quella che chiamiamo fotografia è una famiglia di comportamenti legati all’uso della macchina fotografica ed è impossibile derivare da ciò un codice univoco, dei fondamenti comuni. Si può però parlare delle parentele e delle somiglianze e ciò è un arricchimento e non un limite perché richiede ascolto, mediazione, negoziazione, comprensione del sistema dell’altro.
massimocec marzo 2012
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