Il giudizio del maestro nei confronti di un giovane studente è sempre qualcosa di determinante. Il giudizio del mio maestro nei miei confronti era uno di quei giudizi che, una volta conosciuti, ti fanno sentire un idiota e ti condannano a lottare contro di esso: “è un ragazzo che si impegna ma non eccessivamente intelligente”. L’eufemismo è la forma più vile e ipocrita del pilatismo. Fino ad oggi ho lottato contro quella sfida. Povero, brutto, nato da genitori semianalfabeti, timido, solitario, orgoglioso e testardo. Tutti gli ingredienti necessari per una vita infelice, una vita all’insegna della lotta per non essere schiacciato da se stesso.
Oggi inizio a scoprire l’inutilità di quella lotta, l’indifferenza per ciò che uno è di fronte agli altri e l’importanza di ciò che uno è di fronte a se stesso. La bruttezza, la timidezza, la povertà non si cancellano, ma non è detto che siano determinanti quando in gioco ci sei tu e non la tua immagine. Una posizione sociale, una volta raggiunta, è solo una condizione relativa e se non si capisce ciò, tutto vacilla. Se solo le regole del gioco, le relazioni sociali contano e tutto il resto è indifferente allora puoi travarti solo, tremendamente solo e il maestro può prendersi la sua rivincita potendo affermare “avevo ragione”. Ma la sfida non è con il maestro, è con se stessi e il maestro semplicemente non c’è più.
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