Fantasia e illusione

Apparentemente sembra di trovarsi di fronte ad un’alternativa totale. Niente di più falso. L’alternativa è parziale, legata a contesti in cui in quel momento si svolge l’attività intellettuale, ai contesti in cui stiamo vivendo.

Ragione fantasia sono facce diverse di una stessa facoltà, la facoltà di pensare, di svolgere attività intellettuali. Facce indispensabili l’una all’altra. Senza fantasia la ragione non esisterebbe poiché meccanismi, gli strumenti della ragione sono il frutto di un parto lungo e faticoso della fantasia. Senza la ragione, la costruzione di regole strutture intorno ai prodotti del fantasia, la fantasia si disperderebbe un vuoto infinito. Tra Rodari e Frege, tra La grammatica della fantasia e l’Ideografia, il passo è breve, ma anche fondamentale, importante ed ineliminabile. Senza distinzioni, senza articolazioni, senza strumenti non potremmo pensare e, forse neppure sopravvivere.

 

Commento 1987

Il nostro mondo è il mondo della fantasia. L’amore è il prodotto dell’immaginazione fantastica esercitata su una persona reale, fisica.

Viviamo in un mondo costruito da noi stessi, con la nostra facoltà immaginativa, la nostra capacità di illudere e di credere nelle nostre stesse illusioni. Senza queste illusioni non potremmo vivere. Di fronte all’illusione c’è la coscienza, la ragione che annulla questo mondo svelando l’insensatezza della vita. Non c’è niente di duraturo, fisso nella realtà, non esistono valori, non esiste il bello, il brutto, il magnifico, l’amore, l’odio: tutto ciò è prodotto dalla fantasia.

Quando parliamo di fantasia non parliamo però della capacità soggettiva di sfuggire alla realtà, ma di una capacità sociale, culturale, storica, sedimentatrice. La sua durezza, la sua apparente oggettività scaturisce da tale natura non individuale, dalla sua natura sociale che la rende una cosa diversa dal sognare ad occhi aperti dell’individuo singolo, dalla schizofrenia.

L’individuo sta dentro il mondo della fantasia con le coordinate che il suo tempo gli fornisce; ciascuno è in grado forse di spostare lentamente, un poco queste coordinate, ma non le può abbattere.

Ragione e fantasia sono, in questo senso, antagoniste, ma sono nello stesso tempo anche l’una valido sostegno dell’altra, l’una indispensabile all’altra.

Il dramma della nostra generazione è stato quello di aver vissuto non nella sintesi di ragione e fantasia ma nel loro accavallarsi, nel loro sottomettersi a vicenda.

Quando la ragione ha prevalso, il senso del mondo è crollato, la vita si è spenta, individuo ha perso le motivazioni per vivere, è prevalso una sorta di disincanto distruttivo. Quando la fantasia ha preso il sopravvento, il sogno è diventato forza soggettiva o collettiva in grado di annullare la realtà, non strumento per vivere. Dobbiamo recuperare la capacità di vivere nell’illusione addolcita dal disincanto costruttivo.

L’unione di fantasia e  ragione è responsabile della duplicità della nostra esistenza, duplicità legata ad una vita costruita da noi e alla consapevolezza sotterranea che questa vita è solo per noi, mentre vorremmo che fosse una dimensione eterna, un valore assoluto. Non possiamo vivere interamente nel sogno, ma non possiamo neppure vivere senza il sogno. Dobbiamo essere capaci di sognare senza perdere di vista la realtà, con un occhio gettato sulla realtà.

È la filosofia del gregge?

Qualsiasi filosofia, nel momento in cui utilizza il linguaggio, crea sogno, utilizza illusione. Tutta la nostra cultura non può prescindere da questo vincolo. Nel gregge ci siamo tutti, anche coloro che costruiscono i loro sogni contro i sogni altrui. È il bisogno di contrasto, di un rivale, non la ragione che qui domina il campo.


Funzionalismo

Si critica il funzionalismo perché sembra che adotti come unico criterio quello dell’utilità. Di fronte a esso si pone come antagonista l’effimero piacere di gustare la “cosa in sé”, senza alcuna ragione pratica o scopi utilitaristici; paradossalmente, anche questa è una posizione utilitaristica funzionalista come lo era l’esaltazione dell’ornamento alla fine del secolo scorso, come lo è l’odierna esaltazione dell’effimero, del piacere fine a se stesso. Tali elementi che continuamente vengono riproposti nella cultura contemporanea anche di sinistra, la cultura che esalta ciò che dura un attimo e che è destinato alla caducità. Anche la scelta dell’effimero dell’estate romana era funzionale allo scopo di sollecitare uno svecchiamento della cultura dominante, di superare gli steccati tra cultura alta e cultura popolare. Anche l’interpretazione dequalificata dell’effimero nei risvolti successivi all’estate romana è sta funzionale, utile a far passare la cultura individualista degli anni Ottanta.

Il funzionalismo è un codice universale dell’agire umano e non si può pensare che qualcosa sia stato prodotto dall’uomo e che non abbia una funzione, che non sia utile a qualcosa. La critica di Loos al decorativismo esprime una posizione rispondente ad un bisogno reale in quel momento. La critica del funzionalismo da parte del “postmodern” esprime anch’esso un bisogno reale, seppur opposto a quello provato da Loos. Con ciò si vede che la critica del “postmodern” non è rivolta al funzionalismo come categoria fondamentale dell’attività umana, come idea guida della produzione di oggetti, ad un modo di utilizzare pensare quegli stessi oggetti, ad un modo di vivere con gli oggetti, perchè non può essere criticata tale dimensione. Il funzionalismo è un’idea basilare dell’attività umana; intorno ad esso si apre una miriade di scelte è una di queste scelte è quella di Loos, la scelta “funzionalista”, un’altra è quella decorativista, un’altra ancora è quella del “postmodern”. Va da sé che la scelta di quel termine è ambigua, forse volutamente, perché utilizza un solo termine per indicare due livelli, il livello profondo del comportamento umano e la grammatica di superficie che concretizza il livello profondo di un comportamento particolare e mutevole. Qui siamo di fronte ad un “crampo” wittgensteiniano, crampo che ha prodotto comportamenti e idee cervellotiche e pazzesche, che ha messo in discussione ciò che non è discutibile in quanto fuori dalla portata delle scelte umane. Possiamo pensare di produrre cose totalmente inutili o inutilizzabili? Possiamo invece pensare di utilizzare gli oggetti in modo diverso da quello indicato dalla grammatica del “funzionalismo” o del decorativismo o del “postmodern”?


Siamo debitori verso noi stessi

Siamo debitori verso noi stessi di un atto con cui riabilitare la coerenza che abbiamo distrutto. Abbiamo suddiviso il nostro mondo in tanti campi separati autonomi; ognuno di questi campi lo abbiamo affidato a specialisti, abbiamo chiuso l’operaio in fabbrica, lo studioso in biblioteca, lo scienziato in laboratorio; abbiamo coperto tutto con le categorie della “necessità per il progresso” e poi ci lamentiamo delle sofferenze che stiamo supportando, dell’alienazione, della solitudine, dell’emarginazione cui ci costringe una società che funziona grazie all’alta specializzazione.

Siamo debitori verso noi stessi di un atto che ristabilisca l’unità, che ricollochi il pensiero accanto all’azione, la tecnologia ancorata alla vita, il piacere frequentatore della saggezza, la letteratura amante della politica e della scienza.

In ogni individuo tutto è presente, tutto si accavalla e si interseca come bisogno, stimolo, ma mancano a lui e nozioni e linguaggi, gli oggetti per soddisfare i suoi bisogni tutto è stato scomposto tramite artifici; si sono create linguaggi specializzati, funzioni separate. Ma di fronte a ciò rimane, incrollabilmente, intatto e unico il fulcro, il centro di riferimento, l’originario punto di partenza di arrivo di tutti questi movimenti, di queste strutture, di queste dinamiche: il singolo soggetto. Rimane lì a sfidare la nostra società e le sue schizofreniche tendenze, rimane lì lacerato dalle funi che gli vogliono strappare le membra, gli organi per farne cumuli di membra e di organi uguali tra loro, più facilmente conservabili, più facilmente addestrati, senza scopo, senza quell’unità fondamentale che l’individuo in cui ciascun organo svolge una funzione necessaria per il funzionamento del tutto.

Il nostro pensiero vita è una sorta di vestito di Arlecchino, fatto di una giustapposizione incredibile e imprevedibile di cose diverse.

massimocec 1980

Postilla settembre 2022

È facile denunciare la frantumazione del sapere e la conseguente alienazione ma prova a dirmi in che cosa potrebbe consistere questo atto in grado di risarcire il debito verso noi stessi. Come può un singolo individuo dominare i campi del sapere a livello di sviluppo in cui sono arrivati oggi. Il mito dell’unità del sapere è un mito che riguarda un mondo che non esiste più, un mondo in cui era sufficiente un nucleo chiaro di idee per sentirsi padrone della realtà dal punto di vista della conoscenza almeno dei principi essenziali. Il modello del mondo delle idee e dell’iperuranio di Platone è inutilizzabile oggi così come la presenza di un Dio creatore signore dell’universo o la genealogia dello spirito che procede attraverso contraddizioni come è narrata ne La fenomenologia dello spirito di Hegel o un sistema come è quello descritto nell’Enciclopedia sempre di Hegel. E allora in che cosa potrebbe consistere questo atto riparatore, non nella fuga verso soluzioni falsamente rassicuranti basate sull’autoritarismo della tradizione o della politica come forse oggi prediligono purtroppo molti ex cittadini e futuri sudditi dei paesi avanzati. Neppure nella fuga verso improbabili percorsi individuali suggeriti da filosofie orientaleggianti, da forme di spiritualità che promettono l’impossibile spesso scambiando la terapia con la conoscenza del mondo, introducendo enti immateriali sotto forma di fumose energie che dovrebbero scaturire da cammini spirituali spesso eteroguidati da poco credibili “maestri” o da pratiche cariche di misticismo. Forse l’unico atto sarebbe riconoscere la natura collettiva e cooperativa del sapere e della società, ricostituire l’unità non come elemento che appartiene al soggetto ma alla comunità, all’interno di una prospettiva che non demolisce l’individuo ma valorizza il suo apporto tramite un dialogo e un confronto continuo non eliminabili da alcuna prospettiva conciliatoria né verso la dimensione esterna né verso quella interna.