A ciascuno il suo

C’è chi produce idee per il progresso della scienza, della letteratura, della conoscenza e chi lavora per se stesso. Il primo è lo studioso in regola con la società, cui spettano i posti di rilievo, le onorificenze accademiche. Lo studioso tratta l’oggetto da studiare come un oggetto da sottoporre ad un lavoro meticoloso di analisi seria, impegnata, ma anche distaccata. La sua è una professione che la società nobilita, ma che non è diversa da quella dell’operaio che lavora per la macchina e per l’industria. L’ipertrofia di onorificenze invece illude l’intellettuale, l’accademico, e lo spinge a trasformare l’università e il sapere in un proprio dominio privato, cancellando la dimensione corretta del lavoro di insegnante, poiché anche il docente universitario lo è, o di ricercatore, la centralità dello studente e della sua formazione culturale e professionale da progettare e costruire, della natura cooperativa e sociale della conoscenza e del sapere. 

I secondi sono coloro che non riescono a distaccarsi con freddezza dall’oggetto dei loro interessi e partecipano, vivendo come proprio stato d’animo personale la loro avventura nel territorio sterminato del pensiero, delle idee, delle arti, alla costruzione del sapere e della cultura. Non potranno mai diventare accademici perché non sanno vendere i loro prodotti. Del resto, i loro prodotti sono poco vendibili. La loro cultura è spesso caotica, non organizzata. I loro pensieri, i loro meccanismi intellettuali sono più vicini agli informi pseudo concetti che Vygotskij assegna all’età infantile piuttosto che ai “veri e propri” concetti chiari, precisi stabili dell’età adulta punto, il loro è un pensiero che si dilegua facilmente ma anche si insinua nelle pieghe nascoste del pensiero cristallizzato, si dilata, si trasforma e trasforma continuamente ciò che sembra immutabile, duraturo, dandole nuova vita. 

Se spostiamo la prospettiva dai valori, o pseudo valori, accademici ai valori della produttività culturale intellettuale, vediamo che risultati importanti e duraturi sono da attribuirsi anche al pensiero caotico, irriverente, disordinato dei secondi; il loro è un pensiero mobile e la fissità può essere la morte del pensiero perché separa la vita dall’intelletto, la conoscenza dall’esperienza, la realtà dalla sua immagine prodotta dal sapere. Pensiero è fecondo solo attraverso lo scambio tra le aree della ragione e le aree della passione, tra il pratico e il teorico, tra la vita e la sua immagine riflessa nelle idee.  

Postilla agosto 2022 

Oggi sarei più prudente nel tracciare questa linea di separazione. Forse non passa tra le persone ma nei processi di produzione delle idee, del pensiero stesso, nel modo con cui esso si forma e viene utilizzato. Forse le persone si fanno trascinare da una parte o dall’altra spinte da correnti che si intrecciano, si sovrappongono. E tra i flutti forse è facile prendere le direzioni che richiedono meno fatica. Accademici e creativi non sono categorie statiche ma prodotti di scelte all’interno di un processo fluido in cui non è semplice distinguere ciò che è cristallizzato da ciò che è vivo. Arido e fertile si manifestano perché le persone coinvolte nel flusso si schierano e il loro schierarsi non è sempre prevedibile.

massimocec 1980


A mo’ di introduzione

Cosa dire ora che i pensieri fissati sulla carta sono molti. Niente di più che, nonostante la mole, la chiarezza è ancora lontana. Instabilità, impossibilità di ruotare intorno a un punto fermo. Si potrebbe dire che questi pensieri rivelano l’inconsistenza e la mancanza di oggetti solidi duraturi immersi in una realtà che consolidi o rigetti le prospettive e i punti di vista. Gli oggetti appaiono sfuggenti, mutevoli di fronte ad un soggetto che gli saltella intorno senza mai riuscire ad afferrarli (e forse senza neppure cercare di farlo). Questi pensieri sembra siano l’emblema dell’arte del non dire niente e, allora, si fa strada la tentazione di cancellarli e dedicarsi finalmente a qualcosa di serio. 


Barlumi

La nostra attività intellettuale procede a sprazzi: barlumi in una notte buia. Ogni struttura sistematica è un tentativo di nascondere la natura frammentaria, incompleta, episodica, ipotetica, fantasiosa e fanatica della nostra conoscenza e del nostro intelletto. In questo groviglio passato e presente, scienza e sentimento, cultura e istinto si intrecciano in un magma informe che solo l’elevata capacità di menzogna consapevole dell’uomo può dividere, classificare e ordinare. La consapevolezza e la coscienza si formano grazie alla menzogna, ma non per questo sono da rigettare. Solo l’ipertrofia di consapevolezza e di conoscenza, il distacco completo dal magma, il crearsi di un cosmo separato, artificialmente solido, ma totalmente falso è ciò che dobbiamo ripudiare.
La forma più adatta per esprimere la struttura della conoscenza è l’aforisma. Il tutto compatto e articolato, il sistema o meglio il sistematico non tiene come non tiene la conoscenza che pretende attraverso l’analisi scrupolosa, dettagliata e precisa di individuare propri fondamenti in quanto tale ricerca non può che condurre ad un regresso all’infinito o ad un’arbitraria solidità contrabbandata per fondamento “naturale” e “oggettivo”.
Il magma è anche una costruzione sociale, il prodotto volontario o inconsapevole dell’attività di individui che cercano di vivere la loro esistenza condividendo spazi e tempi. Spazi e tempi senza confini precisi. Neppure il tempo riesce a separare gli individui. Passato e presente non sono separati da una linea nei, da un muro. Anche la memoria è fatta di barlumi. Il ricordo non è una fotografia del passato, il ricordo è continuamente mischiato con il presente. La vita vissuta è anche vita che si vive, la vita che stiamo vivendo è intrisa di ricordo e di passato: la distinzione netta tra presente passato è un artificio creato “ad hoc “scopi pratici. E ancora la conoscenza non è pura così come non esiste un puro sentire. Il conoscere è un’intricata mescolanza di interesse, curiosità, ideologia, sentimento, concetti scientifici, letteratura, esperienza, un insieme eterogeneo di elementi spesso in lotta tra loro, una lotta inesauribile ricca di impulsi, di spinte, talvolta rissose altre volte giocose e cooperative.
Il magma così prodotto è un continuo movimento. Ciò che ora appare solido, il momento successivo viene travolto paurosamente, sparisce per poi ricomparire vicino o distante, sotto altre forme o identico. Solo l’idiozia, l’ottusità, il fanatismo possono occultare il magma, possono far vedere una realtà stabile, immutabile, certa di fronte ad un individuo isolato tutto proteso a carpirne i segreti, armata di misteriosi e onnipotenti strumenti, impegnato a ingoiare e metabolizzare dati edificando idee e concetti certi, veri, indubitabili.

1980

POSTILLA 2021

È stupefacente però come da questo magma riescano ad emergere teorie che funzionano, opere d’arte dotate di ciò che chiamiamo bellezza e che permangono nel tempo, oggetti, strumenti, macchine che dilatano la nostra capacità di lavoro, di percezione della realtà. È difficile anche negare l’evidenza che mostra la presenza di una sorta di linea ascendente che oggi forse abbiamo timore a chiamare progresso ma che sta lì di fronte a noi. Cresciamo continuamente come quantità di persone viventi, viviamo più a lungo, in alcune parti del mondo è cresciuto il benessere, siamo in grado di prevedere molte vicende della vita e del mondo o quanto meno è diminuita la loro imprevedibilità. Come conciliare i tuoi “barlumi in una notte buia” con queste tendenze? Non è che barlumi sono qualcosa di diverso dai fuochi d’artificio che esplodono e scompaiono dopo aver provocato esclamazioni di stupore. Forse i barlumi sono squarci dai quali possiamo osservare brandelli di realtà che trasformiamo in mattoni per costruire la nostra idea del mondo. Un’idea cui contribuiscono l’arte, la religione, la filosofia, la scienza con i propri strumenti, i propri punti di vista. Hai ragione, quest’idea non può trasformarsi in un sistema né può basarsi su fondamenta solide. Ma è vero anche che il barlume non rimane isolato.


Creatività e anarchia

È più profondo l’abisso che separa creatività e anarchia da quello che separa creatività e grammatica, regole e ragione. Solo un tipo di razionalità è distante dalla creatività, la razionalità totalitaria che non ammette il possibile, che non riconosce la propria limitatezza, la propria specificità, la pluralità. È infatti un errore parlare di “ragione”, dovremmo infatti parlare di “ragioni” e di atteggiamenti razionali. La creatività è il presupposto della molteplicità di ragioni e ne è anche la conseguenza. La ragione, è la codificazione di comportamenti intellettuali e pratici efficaci, di paradigmi teorici ed etici elaborati e sperimentati per risolvere problemi diversi. Per ogni nostra attività ricorriamo a “ragioni” diverse, mettiamo in campo comportamenti diversi chiamando razionalità il ricorso a tali strutture molteplici e non ad una di esse in particolare.  

L’anarchia è la pretesa totalitaria parallela alla razionalità legata ad un modello univoco, il razioide di di musiliana memoria. L’anarchia è una delle forme dell’assolutismo della ragione, la forma che assume l’aspetto della rinuncia a qualsiasi modello di regione prendendo come unico modello l’assenza del pensiero quale flusso inarrestabile che non può rimanere ancorato ad un unico modello. L’anarchia e il razioide vanno a braccetto. 


Fantasia e illusione

Apparentemente sembra di trovarsi di fronte ad un’alternativa totale. Niente di più falso. L’alternativa è parziale, legata a contesti in cui in quel momento si svolge l’attività intellettuale, ai contesti in cui stiamo vivendo.

Ragione fantasia sono facce diverse di una stessa facoltà, la facoltà di pensare, di svolgere attività intellettuali. Facce indispensabili l’una all’altra. Senza fantasia la ragione non esisterebbe poiché meccanismi, gli strumenti della ragione sono il frutto di un parto lungo e faticoso della fantasia. Senza la ragione, la costruzione di regole strutture intorno ai prodotti del fantasia, la fantasia si disperderebbe un vuoto infinito. Tra Rodari e Frege, tra La grammatica della fantasia e l’Ideografia, il passo è breve, ma anche fondamentale, importante ed ineliminabile. Senza distinzioni, senza articolazioni, senza strumenti non potremmo pensare e, forse neppure sopravvivere.

 

Commento 1987

Il nostro mondo è il mondo della fantasia. L’amore è il prodotto dell’immaginazione fantastica esercitata su una persona reale, fisica.

Viviamo in un mondo costruito da noi stessi, con la nostra facoltà immaginativa, la nostra capacità di illudere e di credere nelle nostre stesse illusioni. Senza queste illusioni non potremmo vivere. Di fronte all’illusione c’è la coscienza, la ragione che annulla questo mondo svelando l’insensatezza della vita. Non c’è niente di duraturo, fisso nella realtà, non esistono valori, non esiste il bello, il brutto, il magnifico, l’amore, l’odio: tutto ciò è prodotto dalla fantasia.

Quando parliamo di fantasia non parliamo però della capacità soggettiva di sfuggire alla realtà, ma di una capacità sociale, culturale, storica, sedimentatrice. La sua durezza, la sua apparente oggettività scaturisce da tale natura non individuale, dalla sua natura sociale che la rende una cosa diversa dal sognare ad occhi aperti dell’individuo singolo, dalla schizofrenia.

L’individuo sta dentro il mondo della fantasia con le coordinate che il suo tempo gli fornisce; ciascuno è in grado forse di spostare lentamente, un poco queste coordinate, ma non le può abbattere.

Ragione e fantasia sono, in questo senso, antagoniste, ma sono nello stesso tempo anche l’una valido sostegno dell’altra, l’una indispensabile all’altra.

Il dramma della nostra generazione è stato quello di aver vissuto non nella sintesi di ragione e fantasia ma nel loro accavallarsi, nel loro sottomettersi a vicenda.

Quando la ragione ha prevalso, il senso del mondo è crollato, la vita si è spenta, individuo ha perso le motivazioni per vivere, è prevalso una sorta di disincanto distruttivo. Quando la fantasia ha preso il sopravvento, il sogno è diventato forza soggettiva o collettiva in grado di annullare la realtà, non strumento per vivere. Dobbiamo recuperare la capacità di vivere nell’illusione addolcita dal disincanto costruttivo.

L’unione di fantasia e  ragione è responsabile della duplicità della nostra esistenza, duplicità legata ad una vita costruita da noi e alla consapevolezza sotterranea che questa vita è solo per noi, mentre vorremmo che fosse una dimensione eterna, un valore assoluto. Non possiamo vivere interamente nel sogno, ma non possiamo neppure vivere senza il sogno. Dobbiamo essere capaci di sognare senza perdere di vista la realtà, con un occhio gettato sulla realtà.

È la filosofia del gregge?

Qualsiasi filosofia, nel momento in cui utilizza il linguaggio, crea sogno, utilizza illusione. Tutta la nostra cultura non può prescindere da questo vincolo. Nel gregge ci siamo tutti, anche coloro che costruiscono i loro sogni contro i sogni altrui. È il bisogno di contrasto, di un rivale, non la ragione che qui domina il campo.


Funzionalismo

Si critica il funzionalismo perché sembra che adotti come unico criterio quello dell’utilità. Di fronte a esso si pone come antagonista l’effimero piacere di gustare la “cosa in sé”, senza alcuna ragione pratica o scopi utilitaristici; paradossalmente, anche questa è una posizione utilitaristica funzionalista come lo era l’esaltazione dell’ornamento alla fine del secolo scorso, come lo è l’odierna esaltazione dell’effimero, del piacere fine a se stesso. Tali elementi che continuamente vengono riproposti nella cultura contemporanea anche di sinistra, la cultura che esalta ciò che dura un attimo e che è destinato alla caducità. Anche la scelta dell’effimero dell’estate romana era funzionale allo scopo di sollecitare uno svecchiamento della cultura dominante, di superare gli steccati tra cultura alta e cultura popolare. Anche l’interpretazione dequalificata dell’effimero nei risvolti successivi all’estate romana è sta funzionale, utile a far passare la cultura individualista degli anni Ottanta.

Il funzionalismo è un codice universale dell’agire umano e non si può pensare che qualcosa sia stato prodotto dall’uomo e che non abbia una funzione, che non sia utile a qualcosa. La critica di Loos al decorativismo esprime una posizione rispondente ad un bisogno reale in quel momento. La critica del funzionalismo da parte del “postmodern” esprime anch’esso un bisogno reale, seppur opposto a quello provato da Loos. Con ciò si vede che la critica del “postmodern” non è rivolta al funzionalismo come categoria fondamentale dell’attività umana, come idea guida della produzione di oggetti, ad un modo di utilizzare pensare quegli stessi oggetti, ad un modo di vivere con gli oggetti, perchè non può essere criticata tale dimensione. Il funzionalismo è un’idea basilare dell’attività umana; intorno ad esso si apre una miriade di scelte è una di queste scelte è quella di Loos, la scelta “funzionalista”, un’altra è quella decorativista, un’altra ancora è quella del “postmodern”. Va da sé che la scelta di quel termine è ambigua, forse volutamente, perché utilizza un solo termine per indicare due livelli, il livello profondo del comportamento umano e la grammatica di superficie che concretizza il livello profondo di un comportamento particolare e mutevole. Qui siamo di fronte ad un “crampo” wittgensteiniano, crampo che ha prodotto comportamenti e idee cervellotiche e pazzesche, che ha messo in discussione ciò che non è discutibile in quanto fuori dalla portata delle scelte umane. Possiamo pensare di produrre cose totalmente inutili o inutilizzabili? Possiamo invece pensare di utilizzare gli oggetti in modo diverso da quello indicato dalla grammatica del “funzionalismo” o del decorativismo o del “postmodern”?


Grandezza di Leopardi

Leopardi è forse il più grande poeta italiano rispetto all’epoca in cui viviamo. È Leopardi che ci indica la strada dove cercare una nuova umanità basata sulle ceneri dell’ottimismo illuminista senza cadere nel romanticismo irrazionale e sentimentale, Umanità che tenga conto della razionalità si fonda sulla conoscenza dei limiti umani e sulla crisi del razionalismo onnipotente e onnicomprensivo che vedeva nella scienza l’unica forma di conoscenza valida. Il nostro orizzonte culturale e umano è assai simile a quello di Leopardi. La scienza ha distrutto miti, valori, ideologie, ha messo in crisi religioni e a però mostrato i propri limiti e i propri pericoli. Noi dobbiamo continuare a vivere e a vivere da uomini e donne in un musiliano “mondo senza centro e senza ordine”.

POSTILLA NOVEMBRE 2021

Hai ragione, Leopardi è un grande perché ha capito che la natura ci è estranea ma anche che noi non possiamo fare a meno di confrontarci con lei. Ha capito anche che i sogni, i miti, le illusioni non sono sufficienti per instaurare questo dialogo. Occorre qualcosa che possiamo chiamare disincanto per poter confrontarci con la natura.


Il fine della parola

La parola è uno strumento di piacere, di dominio, di espressione. Non cerca la verità, ma soddisfa i bisogni di chi la manipola. Chi usa la parola?
Chi vuol dominare, chi vuol obbligare, chi vuol convincere, chi vuol conquistare, chi vuol sottomettere gli altri, chi vuol curarsi dal male della solitudine. Solo i segni complicati della logica, della matematica, delle scienze formali scandagliano fra la molteplicità dei simboli alla ricerca del vero. Verità è rigore, semplicità, chiarezza, mancanza di ambiguità espressi, però, in un linguaggio ai più incomprensibile. Chi ama la verità non può che essere austero del parlare. Il silenzio spesso è ciò che contraddistingue quest’amore della verità. Frege! chi più di lui ha incarnato quest’amore per il vero. Saper ridurre linguaggio a formule inesprimibili attraverso la parola ordinaria, attraverso linguaggio quotidiano, ben sapendo che questo è un vacuo blaterare rispetto alla verità, un mare di suoni che celano il mondo primitivo degli istinti di sopraffazione, di sete di dominio, di morte, di distruzione di individui immersi nella civiltà del linguaggio.

1980

POSTILLA 2021

Mi piacerebbe chiederti di quale verità stai parlando, forse di quella verità che non dice niente sul mondo perché legata soltanto a procedure formali. La verità sul mondo ha bisogno del linguaggio, di una molteplicità di linguaggi che si intrecciano, che dialogano tra loro. Ha bisogno anche di un ancoraggio al reale, all’essere, un ancoraggio che necessita, questo sì, di rigore, chiarezza. Capisco e condivido il fastidio per il rumore generato dal blaterare che oggi, grazie a quei giganteschi amplificatori che sono la televisione e internet, è ancor più assordante. Ma il silenzio lo lascerei ai monaci. Spesso chi predica il silenzio lo fa parlando e straparlando. E poi considera che non sempre la verità è lo scopo del parlare. Senza una qualche forma di linguaggio non avremmo nessuna opera d’arte e io credo che l’arte, in tutte le sue forme, non punti alla verità, a meno che non si intenda con verità anche quel mondo molteplice e soggettivo dell’esistenza che può esser solo indicato, mostrato ma non descritto.

 


Il mio maestro

Il giudizio del maestro nei confronti di un giovane studente è sempre qualcosa di determinante. Il giudizio del mio maestro nei miei confronti era uno di quei giudizi che, una volta conosciuti, ti fanno sentire un idiota e ti condannano a lottare contro di esso: “è un ragazzo che si impegna ma non eccessivamente intelligente”. L’eufemismo è la forma più vile e ipocrita del pilatismo. Fino ad oggi ho lottato contro quella sfida. Povero, brutto, nato da genitori semianalfabeti, timido, solitario, orgoglioso e testardo. Tutti gli ingredienti necessari per una vita infelice, una vita all’insegna della lotta per non essere schiacciato da se stesso. 

Oggi inizio a scoprire l’inutilità di quella lotta, l’indifferenza per ciò che uno è di fronte agli altri e l’importanza di ciò che uno è di fronte a se stesso. La bruttezza, la timidezza, la povertà non si cancellano, ma non è detto che siano determinanti quando in gioco ci sei tu e non la tua immagine. Una posizione sociale, una volta raggiunta, è solo una condizione relativa e se non si capisce ciò, tutto vacilla. Se solo le regole del gioco, le relazioni sociali contano e tutto il resto è indifferente allora puoi travarti solo, tremendamente solo e il maestro può prendersi la sua rivincita potendo affermare “avevo ragione”. Ma la sfida non è con il maestro, è con se stessi e il maestro semplicemente non c’è più.


Immagini infantili

Un orto con file di pomodori dove nascondersi, un cortile, panni stesi, un argine enorme di fronte al cortile, un argine che sembra una muraglia insormontabile, conigli, galline, figure umane dal volto non definito ma a loro modo nitide, una donna dai capelli neri, bella e gentile, un uomo volgare, odioso, fumatore accanito che la maltratta. Un grembiule a quadretti, le traversate del fiume a guado per andare a cenare sulle piagge della riva opposta in afose serate estive in compagnia di vivaci cugini, feste da ballo organizzate nelle stanze di una casa di campagna cui i bambini partecipano come indesiderati e dispettosi spettatori, serate passate alla casa del popolo in sale sommerse dal fumo, gremite di gente confluita lì per vedere la televisione. Un gelataio con carrettino, dieci lire di gelato fra due biscotti, la carrozza per andare in città e, infine, il trasloco su un carro trainato da un cavallo e un bimbo caricato sopra insieme ai mobili.

Continui litigi, un continuo rinfacciarsi di colpe, tutto radicato all’interno di una miseria onorevole resa però insopportabile da un atteggiamento che fa della povertà l’emblema di un’identità,  un atteggiamento negativo agli occhi di un bambino inconsapevole che esalta ciò che non si è e non ciò che si è. Rabbia, vergogna di fronte alla rassegnazione e alla glorificazione negativa del proprio stato di povertà. Due persone distanti, talvolta incapaci di comprendersi e di sforzarsi di comprendere, due persone quasi inermi di fronte alla vita, vergogna per loro e per la famiglia, per qualsiasi famiglia.

Solitarie passeggiate per campi di grano appena tagliato, un piccolo cane sempre tra i piedi ma benvoluto, solitudine, silenzio, distese enormi di giallo e azzurro. Cantine piene di odori, odore di pane appena cotto, di erba, di uva appassita appesa al soffitto, di lampade a petrolio. Brevi serate passate ascoltando con due vecchi per poco tempo una radio funzionante a pile di fronte a un camino spento, scale buie, camere illuminate per breve tempo dalla lampada a petrolio, otri pieni di acqua portata da un treno, il treno a vapore che si ferma per riempire i vostri continuando a sbuffare indifferente, le littorine, un vecchietto silenzioso, con il sigaro in bocca seduto vicino al camino o sul gradino di un piccolo deposito di attrezzi davanti alla ferrovia, una vecchietta premurosa che ogni giorno parte con la sua bicicletta lungo la strada sterrata che attraverso la ferrovia e torna dopo qualche ora con le borse piene di chissà che cosa. Pescatori, cacciatori che passano in bicicletta e attraversano la ferrovia dopo essersi fermati a controllare che non arrivi nessun treno. Il ponte della ferrovia che si può traversare solo passando sulle traversine con un brivido di paura e insieme una sensazione di coraggio. Libertà, autonomia quasi assoluta. Le persone che quasi non contano molto; più interessanti sono gli oggetti e gli animali in quel mondo e in quel tempo. Il sole, la ricerca dell’ombra e del fresco lungo fossi dall’acqua limpida pieni di girini, di rane, di piccoli pesci. Montagne, boschi, lunghe passeggiate alla ricerca di oggetti, di avventure. Boschi che si trasformano in foreste misteriose dove da un momento all’altro possono comparire i famigerati indiani del Far West, dove un capanno di cacciatori diventa un fortino abbandonato. Compagni utili se partecipano a questo mondo, altrimenti fastidiosi, insopportabili perché capaci di far riemergere il senso di inferiorità momentaneamente nascosto dai giochi.

Scuola, vergogna; umiliazione di ricevere gli inutili doni del padronato scolastico, pacchi di pasta dal sapore indecifrabile, quaderni più brutti di quelli comprati, lapis, penne, matite e un bicchiere di latte in polvere imbevibile ogni mattina. L’odiosa permanenza scuola dopo il termine delle lezioni per il consumo di un pasto quando tutti gli altri possono andare a casa. I bambini hanno molta più dignità di grandi ed è un reato offenderla. La vergogna può renderli ribelli, solitari, invidiosi, incapaci di felicità.

Giochi solitari, inventati e costruiti da solo. Pochi adulti intorno, uno zio bravissimo a giocare a dama e sempre disponibile, un uomo che non rimprovera mai, che parla poco, una cugina carina e civetta, attesa sempre con grande gioia.

POSTILLA 2022

Ciò che vedo mio caro è forse l’incapacità di andare oltre il velo tessuto dall’adolescenza. Un velo che ha ostacolato la comprensione, la possibilità di vedere che cosa realmente c’era dietro quel risentimento, dietro la vergogna, dietro il senso di inferiorità. C’erano due persone che lottavano per vivere, per consentire ai propri figli di vivere una vita migliore della loro, con i loro strumenti, con le loro possibilità, con i loro limiti. Tutto ciò è emerso più tardi quando il rancore adolescenziale si è affievolito e, come la nebbia che si dirada, ha fatto emergere volti conosciuti che appaiono nuovi.