PER UN NUOVO LINGUAGGIO DELLA FOTOGENIA
Le fotografie sono state realizzate dai partecipanti agli incontri di “Educazione all’immagine Fotografica” condotti da Roberto Evangelisti.
Qualche commento in margine alla serata della presentazione del catalogo della mostra a Palazzo Vitelli il 19 aprile 2012
Le fotografie della mostra collettiva “Io mi vedo così” frutto del lavoro svolto durante il corso di educazione all’immagine tenuto da Roberto Evangelisti durante l’anno accademico 2011/2012, organizzato dal Circolo Ricreativo Dipendenti Universitari dell’Università di Pisa sono state commentate giovedì 19 aprile 2012 da alcuni esperti tra cui Carlo Ciampi, docente del Dipartimento Attività Cultura, Federazione Italiana Associazioni Fotografiche, Ezio Menzione, avvocato pisano esperto di fotografia, Enrico Genovesi, fotografo professionista, Antonio Vallini, esperto di fotografia oltre che docente di diritto penale presso l’Università di Firenze.
Queste righe costituiscono una sorta di commento o meglio intervento in coda a quanto detto durante l’incontro conclusivo del corso e della mostra del 19 aprile, un insieme di osservazioni scaturite dall’esperienza diretta di uno dei corsisti, strettamente personali e proposte con lo scopo di aprire un confronto impossibile, se non attraverso canali di comunicazione virtuale, con quanto detto dai quattro esperti e con gli altri corsisti che si sono cimentati con il tema proposto.
Spesso accade che gli incontri fotografia, in particolare nei concorsi e nel corso delle letture patrocinate da alcuni circoli fotografici, seguano rituali in cui fotografi devono solo passivamente ascoltare ciò che gli esperti dicono delle loro fotografie, debbono accettare questi commenti senza poter dire la loro. È forse la regola di chi si sottopone alla prassi dei concorsi e delle letture organizzate, prassi che mi è estranea e che mi infastidisce, oltre ad essere una regola che non convince, dietro la quale intravedo una sorta di cerimoniale tipico dei mondi chiusi, delle corporazioni. Devo dire comunque che l’incontro finale della mostra non è stato di questo tipo, non è stato un cerimoniale ma, anzi, per alcuni aspetti c’è stata una provocazione che non è stata accolta da noi corsisti, e quando parlo di provocazione non intendo riferirmi alla provocazione come gesto di sfida, ma alla provocazione intellettuale, alla provocazione che sollecita l’intelligenza e la riflessione. Forse queste osservazioni sono un tentativo di accogliere quella provocazione, anche se in ritardo.
Alcune osservazioni proposte dagli esperti, in particolare quelle di Ezio Menzione, sono osservazioni scaturite, oltre che da una lettura attenta delle fotografie proposte, anche da analisi di tipo quantitativo relative sia ai contenuti che alle caratteristiche formali delle immagini presenti nel catalogo. Sono emersi punti di vista interessanti che, a mio avviso, però vanno letti come spunti, come stimoli per l’analisi in quanto il modo in cui è stata costruita la mostra e con cui sono state scelte fotografie rende l’uso dell’analisi di tipo quantitativo solo parzialmente efficace.
La scelta delle fotografie è stata realizzata infatti secondo criteri di equilibrio tra le varie modalità di rappresentazione dei soggetti, criteri di equa ripartizione tra tutti i corsisti delle foto inserite indipendentemente dal numero delle foto scattate e proposte, criteri di carattere estetico che in alcuni casi hanno portato ad escludere fotografie che costituivano le rappresentazioni sentite come più autentiche da parte degli autori. Osservazioni analoghe devono essere fatte in relazione all’ordine delle foto proposto nel catalogo e nella mostra, ordine in cui il caso ha giocato il ruolo principale. Queste premesse sono necessarie per delimitare l’oggetto indagabile attraverso elementi di tipo quantitativo, oggetto che non è certamente l’immagine della propria identità da parte dei corsisti ma piuttosto la rappresentazione fotografica di alcuni frammenti della propria identità, frammenti che sono sopravvissuti alla spietata carneficina operata in sede di scelta finale delle fotografie da inserire nel catalogo della mostra in nome dei ferrei principi dell’economia, dell’equità e della finanza.
Se a ciò si aggiunge che cercare di rappresentare la propria identità o meglio come ciascuno di noi vede la propria identità è un’impresa titanica in quanto l’identità non è un oggetto stabile, definito, delimitato. È una sostanza fluida costituita da elementi eterogenei, elementi spesso in conflitto tra loro, che si sovrappongono, si annullano e si oppongono alla rivelazione di se stessi, talvolta non solo nei confronti di un soggetto esterno ma anche del soggetti del quale costituiscono la materia prima. In tale molteplicità di elementi, il soggetto si muove come colui che monta un film partendo da una quantità enorme di materiali, operando tagli, unendo parti separate e non successive. La natura di prodotto a posteriori dell’identità rispetto alla sua analisi e alla sua rivelazione è una caratteristica oggi ancor più evidente di qualche decennio fa, tanto che un grande sociologo come Zygmunt Bauman sostiene che l’identità nella nostra società liquida è qualcosa che va inventato piuttosto che scoperto.
Qualcuno ha cercato anche di fornire una sorta di schema da un punto di vista psicologico per descrivere la complessità dell’identità che entra in rapporto con gli altri, in un rapporto di svelamento parziale, di rivelazione guidata, uno schema noto come la finestra di Johari, inventato nel 1955 da Joseph Luft e Harry Ingham. La finestra di Johari è divisa in quattro aree, una che riguarda la parte nota a sé e agli altri definita Arena, una seconda nota a sé ma non agli altri definita Facciata, una terza nota agli altri ma non al sé definita Punto cieco e una quarta infine ignota a sé e agli altri definita Ignoto (forse coincidente per molti aspetti con l’inconscio freudiano, conoscibile solo attraverso complesse operazioni terapeutiche in cui non è facile distinguere l’aspetto descrittivo da quello costruttivo). Se prendiamo alla lettera il tema proposto, il nostro lavoro si colloca a cavallo delle prime due finestre. Tutte le volte che c’è una relazione di rivelazione per gli altri, che dobbiamo rendere pubblica la nostra immagine, siamo disposti a rivelare soltanto alcuni aspetti della nostra personalità, della nostra identità, e ne nascondiamo invece altri, ci spostiamo cioè tra Arena e Facciata senza demolire il confine che le separa. Involontariamente quando esponiamo la nostra identità andiamo oltre sia l’arena sia la facciata e gli altri possono scoprire aspetti del Punto cieco. Naturalmente come tutti gli schemi, anche questo ha solo un valore euristico e non descrittivo, ma può funzionare per riuscire a leggere alcuni aspetti delle nostre fotografie che sono emersi anche durante la discussione. In ogni caso è bene sottolineare che il punto di partenza è la relazione con gli altri e non solo con se stessi. Le fotografie come queste sono destinate ad esser viste dagli altri e non sono un fatto privato. È inoltre da tenere presente che operazioni del genere comportano un mutamento dello stato delle cose per il semplice motivo che tale operazione è stata realizzata. Succede un po’ quello che i fisici dicono accada quando un osservatore cerca di indagare il moto delle particelle, entrando così nel campo della meccanica quantistica. Il semplice atto dell’osservare modifica lo stato fisico di ciò che viene osservato e quindi non è possibile utilizzare per descrivere il moto delle particelle strumenti come quelli elaborati per la meccanica classica che presuppongono invece il ruolo esterno dell’osservatore, un ruolo che non incide sullo stato fisico degli elementi sottoposti ad osservazione. I movimenti delle particelle possono essere descritti solo in termini probabilistici e con ciò cadono molte delle certezze che da Galileo alla fine dell’Ottocento si sono affermate sul piano dell’osservazione come strumento di conoscenza certa. La rappresentazione della propria identità cambia in qualche modo l’identità stessa in quanto costringe il soggetto a fare i conti con qualcosa che spesso è nuovo anche per lui, qualcosa che non è semplice registrazione del reale, ma è costruzione di un qualche aspetto imprevisto della propria identità, un’identità che non ha più, nel bene e nel male, quelle fondamenta solide che venivano alimentate dall’appartenenza, dalla comunità, dalla tradizione. È per questo che c’è un involontario sconfinamento nella terza finestra che, grazie al rapporto con gli altri, porta a ristrutturare le prime due. Tutto ciò rende evidente che azioni di questo tipo non possono che incontrare resistenze che si oppongono al compimento dell’opera di rappresentazione, a volte in modo esplicito e consapevole, altre volte in modo meno evidente, attraverso nascondimenti, mascheramenti, spostamenti di attenzione del sé verso altro.
Messa in evidenza la natura complessa della rivelazione della propria identità, credo sia necessario sottolineare anche il fatto che molto probabilmente l’aspetto psicologico non è la chiave più importante per la lettura delle nostre fotografia. Se mostrare la propria identità mediante la fotografia, giocare con l’autoritratto è entrare nel gioco delle relazioni con gli altri, è utile allora sottolineare una certa natura della fotografia come strumento di comunicazione, natura che già era stata messa in evidenza nel 1862 da Adolphe Eugéne Disdèri nel suo L’art de la photographie dove si afferma che la fotografia spinge a nascondersi, al travestimento perché essa in qualche modo consiste in una messinscena, in una recita davanti ad un pubblico di spettatori. In tal senso l’autoritratto fotografico è un mostrarsi che diventa esibizione di come si vorrebbe che gli altri ci vedessero, un mostrarsi che diventa un vedersi attraverso una sorta di riflesso negli occhi di un pubblico ipotetico, di un destinatario immaginario. In tale prospettiva la fotografia è vicina all’esperienza teatrale, un’esperienza che si gioca soprattutto sull’illusione, sul rapporto tra verità e immaginazione che in ogni caso non diventa mai inganno, ma apertura verso la scoperta di un mondo nuovo, di un mondo che va oltre quello reale. La fotografia in sostanza potenzia la natura costruttiva della rivelazione della propria identità fino a farla diventare messa in scena. Le fotografie che ci è stato chiesto di realizzare infatti non sono altro che una messinscena in senso letterale, un’esposizione pubblica del sé ben diversa dallo scavo interiore, dall’indagine psicologica.
Ad esempio, durante gli interventi è stato messo in evidenza il diverso rapporto con il proprio corpo, in particolare con la nudità del corpo, da parte dei “fotografi” rispetto alle “fotografe”. I maschi hanno, per così dire, praticato con maggior tenacia l’arte del nascondimento, e questo nonostante che, secondo Ezio Menzione, il nudo maschile non sia più un tabù, come ha insegnato Robert Mappelthorpe. Credo che su questo piano la distanza tra un fotografo professionista come Robert Mappelthorpe, decisamente legato ad una fotografia vista come strumento di espressione artistica in cui il corpo umano è il principale elemento espressivo, rispetto a fotografi amatoriali come siamo noi sia abissale. Inoltre penso che per il senso comune fotografico sia più facile accettare il nudo femminile rispetto al nudo maschile. È probabile quindi che anche nel momento in cui ciascuno di noi ha scelto come rappresentarsi, come mettersi in scena, il senso comune abbia svolto il suo ruolo di censore da un lato e di ispiratore dall’altro.
In ogni caso, al di là di ogni argomentazione difensiva, è un dato di fatto che le cose siano andate come gli esperti hanno sottolineato: il nascondimento è presente almeno quanto la rivelazione. Non è facile rintracciare nelle nostre foto un’affermazione certa, sicura, netta dell’immagine della propria identità. Al di là dell’aspetto legato al nudo è quindi interessante il ragionamento sul nascondimento, sulla pratica del celarsi rispetto a quella del rivelarsi, sui meccanismi del nascondimento e su quelli della rivelazione utilizzati. Tutto ciò rimanda al concetto di verità (intesa come corrispondenza univoca tra rappresentazione e rappresentato) e a quello di autenticità (intesa come efficacia, coerenza della comunicazione rispetto all’intento e allo scopo) delle nostre foto.
Se infatti con il termine verità intendiamo rappresentazione della propria identità così come essa è o, in una versione più debole, come essa è rappresentata nella nostra mente, allora è necessario prendere atto che questo non era neppure presupposto dal tema proposto poiché le indicazioni facevano riferimento non tanto a come ciascuno di noi è ma piuttosto alla rappresentazione che ciascuno di noi ha di se stesso, in un contesto in cui tutti sapevamo che tali foto erano destinate ad essere mostrate agli altri. È evidente inoltre che nessuna verifica legata alla verità delle rappresentazioni è possibile. È un po’ lo stesso problema che Wittgenstein ha affrontato quando si è trovato di fronte alla spiegazione del significato del linguaggio verbale basata sul modello solipsistico che cerca di giustificare il funzionamento del linguaggio facendo ricorso ai contenuti della propria mente. Le parole non possono significare facendo riferimento dei contenuti mentali in quanto questi possono essere visionati solo da colui che li possiede. Ciascuno potrebbe costruire un proprio significato per ciascuna parola e il linguaggio come strumento pubblico non potrebbe funzionare. Le parole significano al di là del contenuto mentale, significano perché sono inserite in contesti d’uso collettivi, in giochi linguistici basati su regole che hanno nella convenzione il loro fondamento, che sono espressione di forme di vita. Del resto il contesto in cui le foto della mostra sono state prodotte è quello di un corso di fotografia, di un corso sul linguaggio della fotografia e non quello di un gruppo terapeutico. L’attenzione va quindi spostata sull’immagine, sul linguaggio fotografico, sul modo con cui funzionano le immagini per diventare significanti perché tale era il gioco entro il quale le foto sono state prodotte.
Ad esempio, è stato fatto un cenno al meccanismo del nascondimento attraverso lo spostamento dell’attenzione dal sé verso qualcos’altro mediante l’inserimento di oggetti collocati a fianco dei volti e dei corpi, sui meccanismi di nascondimento basati sulla scelta di rappresentare parti del corpo invece del tutto, sull’uso intensivo del mosso dello sfocato intenzionali quali possibili strumenti per celare l’identità, per non rivelarsi fino in fondo. Molto probabilmente sul piano psicologico è così, diverso è sul piano fotografico. All’interno del linguaggio della fotografia, credo che tali meccanismi non abbiano tutti lo stesso valore e non sono tutti funzionali al raggiungimento dello scopo del nascondersi di fronte allo spettatore. Anzi, alcuni di essi possono costituire elementi di rivelazione, elementi che cooperano con il corpo o con il volto allo scopo di facilitare la descrizione del sé. Il discorso deve spostarsi allora sulla lettura, sull’analisi della foto, sull’interpretazione degli elementi scelti per affrontarlo all’interno del gioco linguistico che giochiamo quando parliamo di fotografia. È necessario affrontare, ad esempio, la relazione spaziale tra gli oggetti presenti nello spazio fotografico attraverso la quale si costruisce il significato stesso della foto, il come vengono utilizzate le regole, la sintassi del linguaggio fotografico per mettere in relazione gli oggetti. Tali elementi infatti non sono altro che il lessico e la sintassi che vengono utilizzati all’interno del linguaggio fotografico per costruire ciò che nel linguaggio verbale corrisponde alla frase, al testo coerente e coeso, la fotografia. In tale contesto è possibile pensare alle nostre fotografie come ad esperimenti linguistici dove fanno il loro ingresso sia gli elementi lessicali, il volto, il corpo, lo sguardo, l’atteggiamento, la postura, il dettaglio, il gioco delle luci, gli specchi, le ombre, gli oggetti di riferimento, lo spazio inteso come oggetto contenitore, sia gli elementi sintattici determinati dall’inquadratura, dalla scelta del punto di vista, dalle relazioni stabilite tra gli oggetti e tra oggetti e i limiti della fotografia, l’uso del mosso e dello sfocato intenzionali, la profondità di campo.
È all’interno di questa ricerca che il proprio volto, il proprio corpo sono diventati elementi lessicali in una situazione in cui la produzione di immagini è resa particolarmente complessa dalle condizioni poste per lo scatto, condizioni che costringono a fare ricorso a procedure quali l’autoscatto, lo scatto a distanza, procedure che sono talmente complesse da un punto di vista non tecnico ma logistico da consentire solo foto “pensate” , da escludere la spontaneità dello scatto, la cattura dell’istante decisivo, e che obbligano a privilegiare procedure legate a forme di pre – visualizzazione del risultato, di regia, di costruzione di uno scenario che riducono la natura di indice della fotografia per privilegiare quella di icona, di immagine mentale trasferita in un’immagine reale. Conseguenza di ciò è forse il fatto che la preoccupazione legata alla costruzione dell’oggetto fotografico ha prevalso rispetto al compito di fornire una raffigurazione “vera” del sé. Ma con la verità è stata annullata anche l’autenticità?
Le immagini fotografiche non sono mai un’invenzione completamente nuova, ogni immagine realizzata contiene sempre citazioni esplicite o implicite di altre immagini viste e immagazzinate nella nostra memoria visiva. È lì che forse vanno cercate le spiegazioni più autentiche che danno significato alle nostre foto. Tra i pochi fotografi che si sono cimentati in modo costante se non esclusivo con l’autoritratto, una parte rilevante di loro sono donne (Francesca Woodman, Cindy Sherman, Claude Cahun, Florence Henri, Nan Goldin, Marlo Broekmans) e, tranne forse per Robert Mapplethorpe e John Coplans, tra queste fotografe si può trovare l’uso del proprio corpo nudo come strumento per mostrare agli altri la propria identità, la propria dimensione interiore o più semplicemente per costruire un messaggio per mezzo del proprio corpo trasformato in soggetto fotografato. Tra queste fotografe, forse Francesca Woodman è quella che in modo più evidente e più diretto usa il proprio corpo come elemento per condurre la propria ricerca sul sé, sulla propria identità, una ricerca che mette le in relazione in modo sorprendentemente nuovo per l’epoca il surrealismo europeo e la fotografia diretta americana, ottenendo così un risultato che consente un uso non elaborato della fotografia, non sottoposto ai trattamenti tipici del surrealismo, non per documentare il reale ma per descrivere la propria interiorità.
Analizzando le fotografie prodotte da questi fotografi emerge che il volto è comunque la parte più utilizzata del corpo per rappresentare sé, ed è la parte ritenuta più espressiva del corpo. Altri elementi ricorrono in modo più o meno costante come mezzi per produrre autoritratti, tali elementi sono lo specchio, l’ombra, la presenza di una macchina fotografica (almeno fino agli anni ’70), l’uso del primo piano o del mezzobusto, varie forme di travestimento, la presenza di altri soggetti con ruoli diversi, la scelta consapevole dello spazio che costituisce il contenitore. Tali elementi sono combinati poi in maniera diversa attraverso elementi sintattici assumendo così una molteplicità di significati. In particolare è interessante l’uso che viene fatto dello specchio quale strumento per raddoppiare la presenza del soggetto, ma anche per distorcerlo, deformarlo, per collocarlo in luoghi inusuali, per creare elementi che mettono in relazione con il sogno. Altro elemento interessante è quello dell’ombra utilizzata sfruttando la natura duplice di tale elemento, da un lato quello di rappresentare il lato oscuro, indefinito ambiguo dell’identità e dall’altro quello di rivelare la presenza, l’esser traccia, indice del corpo, della sostanza dell’identità.
Gli elementi sopraelencati inseriti in immagini possono diventare modelli e come tali entrano a far parte delle nostre immagini mentali che possono produrre altre immagini reali attraverso un meccanismo di citazione implicita o esplicita. È naturalmente da tener presente che la citazione non è un plagio ma uno strumento fondamentale per la creatività, la quale ha bisogno di materia prima per manifestarsi. Più elevata è la qualità della materia prima, più elevate sono le competenze, la padronanza della sintassi da parte di chi usa quella materia prima, più facile sarà il manifestarsi dell’atto creativo che poco ha a che fare con il binomio fantasia – spontaneità mentre molto ha a che fare con l’immaginazione e la padronanza del linguaggio. Nelle nostre fotografie ritrovo questi elementi o almeno alcuni di questi elementi. Altri invece non compaiono, e anche tali assenze possono diventare significative. Quello che vorrei fare è analizzare alcuni aspetti delle nostre fotografie, aspetti che ho notato come elementi che danno particolare efficacia comunicativa ad alcune di esse. Cercherò di farlo utilizzando due elementi di carattere lessicale, lo sguardo e lo spazio visto come contenitore, come spazio in cui è inserito il soggetto, e un elemento di carattere sintattico, l’uso del mosso intenzionale. È senza dubbio possibile analizzare altri elementi come ad esempio gli oggetti inseriti nelle foto, la presenza o meno di altre persone, di animali, il modo con cui essi vengono utilizzati, oppure di elementi sintattici quali l’uso di elementi retorici, l’uso della parte per il tutto, l’attenzione ai dettagli, al particolare, la scelta dei vestiti, dell’abbigliamento, o anche il confronto tra le diverse foto all’interno dell’intera serie che costituisce la mostra. Ad esempio è interessante l’effetto di spaesamento che provoca l’uso dell’abito lungo, elegante nelle foto di una corsista in una serie di fotografie in cui la maggior parte dei soggetti si mostra con abiti dimessi, quotidiani.
Lo sguardo è un elemento fondamentale del lessico fotografico ed è un elemento portatore di diversi significati. Il volto umano esercita una notevole attrazione e nel volto gli occhi sono gli elementi in grado di generare un ordine compositivo portatore di significati, un ordine che scaturisce dalle linee prodotte dalla direzione degli sguardi. Non tutte le nostre foto hanno tra gli elementi di lessicali che le caratterizzano lo sguardo. Quelli che lo hanno utilizzato, lo hanno fatto in parte per mettere di fronte lo spettatore al soggetto in modo diretto attraverso una linea di sguardo che è rivolta direttamente verso chi guarda la fotografia. In altre foto lo sguardo è rivolto altrove, in qualche caso oltre lo spazio delimitato dei contorni della fotografia, verso il superamento dei limiti costituiti dalla cornice della fotografia, in altri casi rivolto a oggetto contenuti nello spazio fotografico.
Nelle foto invece in cui lo sguardo è rivolto verso un oggetto interno allo spazio, fotografico, la direzione dello sguardo porta lo spettatore a prestare attenzione all’oggetto guardato, creando una sorta di chiusura che rende il soggetto colui che suggerisce all’osservatore di prendere in considerazione qualcos’altro che può aiutare a capirlo, a decifrare la sua identità.
Altre foto invece contengono una sorta di negazione dello sguardo, il rifiuto di utilizzare questo strumento lessicale per costruire una relazione con lo spettatore o con lo spazio che circonda il soggetto. Tale rifiuto si esprime con un guardare altrove, verso un punto non definito dello spazio interno alla fotografia.
L’uso dello sguardo come elemento lessicale rimanda quindi ad una molteplicità di soluzioni che consentono di suggerire al lettore frammenti della propria identità, un’identità che non ha paura di sostenere lo sguardo del lettore, ma anche un’identità che porta lo spettare ad andare oltre i limiti dello spazio presente, a suggerire che non è il visibile ciò che rappresenta il proprio io ma l’invisibile, ciò che non è detto o non è riprodotto. Manca in tali soluzioni lo sguardo rivolto verso un’altra persona e lo sguardo affettivo, protettivo; è poco presente anche lo sguardo che riconosce negli oggetti familiari aspetti essenziali della propria identità, che trae da essi elementi che diventano propri.
Altro elemento lessicale che vorrei analizzare è la scelta del contenitore, dello spazio in cui sono state inserite le proprie immagini. Raramente lo spazio è ben definito, ancora più raramente lo spazio è esterno. Quasi tutte le foto sono state scattate in interni e spesso sono stati cancellati gli elementi che potevano rendere riconoscibili tali spazi.
Alcuni corsisti collocano se stessi nella zona di confine tra definito e indefinito, tra luce e ombra, tra spazio aperto e spazio chiuso, collocazione che può aprire ad una molteplicità di significati in qualche modo precisati da ulteriori elementi quali il gesto della mano che stringe la tenda, interrompendone così la linearità geometrica e introducendo un elemento di tonalità drammatica grazie alla curvatura impressa alla stoffa e alla contrazione della mano stessa che stringe il tessuto, oppure scegliendo una posizione per il proprio corpo che evoca una sorta di atteggiamento quasi sacrificale che il contesto rende meno retorico, quasi ironico perché collegato a un rituale della vita quotidiana.
I rari riferimenti a spazi esterni reali e identificabili, oltre alla cava inserita da una corsista, sono il mare, gli addobbi natalizi, un giardino, la casa di montagna, il lastricato urbano. Nonostante ciò gli interni non sono utilizzati per costruire un senso di sicurezza, di riconoscimento attraverso l’appropriazione dello spazio fisico in cui si vive. Gli interni, tranne poche eccezioni, sono solo sfondo che consente alla persona di esibirsi, in un caso anche in contraddizione con il soggetto che danza con la schiena nuda, i guanti lunghi che coprono le braccia e un vestito che sembra elegante, in un atteggiamento si rivela seduttivo, a fianco di oggetti di vita quotidiana, la sveglia, i vestiti piegati su una sedia vicino al letto. Un’immagine che evoca le contraddizioni forse dell’adolescenza.
L’uso dello spazio come contenitore da un lato introduce o rafforza una sorta di spaesamento, di mancanza di radici legate al luogo in cui si vive, dall’altro libera i soggetti e rafforza la definizione del sé attraverso la propria persona, il proprio volto o il proprio corpo. Anche in questo caso è importante ciò che c’è nelle foto ma anche ciò che non c’è. E tra le cose che non ci sono troviamo i richiami al passato, il richiamo nostalgico al tempo mitizzato delle origini, cosa non da poco vista l’età di alcuni fotografi.
Infine mi ha colpito particolarmente l’uso di un elemento sintattico quale il mosso intenzionale, elemento linguistico usato secondo me in modo coeso e coerente rispetto al contesto e all’intenzione comunicativa, come elemento che potenzia capacità evocativa di significati dello spazio che circonda il soggetto, lo spazio anonimo, scarno, incapace di fornire punti di riferimento al soggetto lo abita, che diventa perciò meno visibile, meno nitido, che non si lascia afferrare facilmente. Interessante è anche l’uso del mosso intenzionale associato ad un oggetto che contribuisce a nascondere il volto richiamando direttamente, come è stato ricordato anche durante la serata, alcune foto di Cresci; una cancellazione del volto che viene associata allo scorrere del tempo evocato dalla presenza dell’orologio a pendolo che a sua volta non solo segna il tempo ma anche, sempre attraverso l’uso del mosso intenzionale, il suo scorrere.
Una caratteristica che mi sembra emerga dal modo con cui sono utilizzati gli elementi lessicali nelle nostre foto è la particolarità del lessico fotografico, un lessico che non si basa su definizioni ma semplicemente indica, suggerisce, evoca. È un lessico profondamente diverso da quello che sta alla base del linguaggio verbale, dalle parole che invece tendono ad essere precise, scultoree, vincolanti. Il lessico della fotografia non intrappola le cose anche se apparentemente sembra più realista della parola, ma lascia delle tracce che il lettore deve seguire per sperare di intravedere chi le ha lasciate. Le potenzialità di ancoraggio al reale della parola rispetto alla fotografia sono notevolmente più potenti.
Direi alla fine che le nostre foto quindi più che descrivere la propria identità attraverso il senso di realtà, la definizione di ciò che si è o ciò che immaginiamo di essere, cercano di descriverla anche attraverso un intreccio tra l’identità liquida di Bauman, con tutta la sua carica negativa di spersonalizzazione, di mancanza di punti di riferimento, e il senso del possibile di Musil, con invece tutta la sua carica liberatoria, di affrancamento dai vincoli del reale, del peso del passato, della tradizione mettendo uno accanto all’altro il reale e il possibile attraverso la frantumazione e la moltiplicazione della propria identità. L’uso piuttosto moderno, come più volte ha sottolineato anche Bob, degli elementi linguistici, lessicali e sintattici, del linguaggio fotografico ha consentito questo avvicinamento del reale al possibile, della descrizione di ciò che è alla descrizione di ciò che potrebbe essere, con anche la consapevolezza dei rischi che ciò comporta, del rischio della spersonalizzazione, della perdita di punti di riferimento, della possibilità di trasformare l’esperienza in personalità. Un fotografia di una corsista è emblematica. Il volto che viene cancellato dalla velocità dello scorrere del tempo, concetto tipicamente baumaniano, affiancato da foto in cui la stessa persona si mostra libera da vincoli, pronta a guardare oltre i limiti dello spazio delimitato dalla cornice. Manca una foto, scartata da Bob in cui forte è il richiamo alla nitidezza della fotografia americana di Dorothea Lange o di Walker Evans, della Farm Security Administration, una nitidezza che si rafforza se messa a fianca della foto in cui il volto sparisce. Quale è la rappresentazione autentica? Ma anche le foto ambigue, se messe una accanto all’altra, rimandano nello steso tempo alla molteplicità, alla frammentarietà, alla difficoltà di descrivere la propria personalità in un solo modo, con un solo atto linguistico. La descrizione della propria immagine avrebbe potuto arrestarsi alla foto tradizionale, alla narrazione semplificatoria e rassicurante del sé e del contesto in cui ciascuno di noi vive. Invece non è stato così. È stato colto quindi, attraverso elementi del linguaggio fotografico, l’aspetto di inquietudine, di ricerca, di bisogno di andare oltre e insieme di paura di questo oltre non definito. L’uso dello sguardo nelle sue molteplici possibilità di evocare significati, l’uso dello spazio in cui sono collocati i soggetti rimanda ad un’immagine del sé non tesa a nascondersi né a collocarsi prevalentemente in spazi familiari, noti ma piuttosto ad esplorare le sue possibilità, nonostante segni di incertezza, di inquietudine, di smarrimento che sono anch’essi evidenti.
La fotografia non è narrazione, ma evoca possibili narrazioni all’interno di un gioco che, in quanto tale, non è fantasticheria, arbitraria costruzione di un mondo fantastico, ma allusione ad itinerari percorribili dall’essere. In quest’ottica possiamo riproporre il tema di partenza dell’autenticità, nel senso non di una autenticità del vissuto, ma di una autenticità dell’essere che proietta il possibile sul reale all’interno di un gioco che coinvolge gli altri e quindi, che ha bisogno anche di regole condivise di collaborazione intersoggettiva, di socialità, di intersoggettività. La fotografia per diventare linguaggio, strumento di comunicazione ha bisogno oltre che di un autore anche di un lettore, di uno spettatore che la guarda, che cerca di leggerla e interpretarla, di un insieme di regole condivise condiviso che consentano questa cooperazione. L’autenticità della foto sta quindi in questo tentativo di creare un ponte tra il vissuto e il possibile, tra il fotografo e lo spettatore, tra tutti coloro che si sono cimentati in tale impresa. In questo senso sono autentiche.
Tra i tratti di autenticità c’è anche quello quindi di aver partecipato un percorso di ricerca, di sperimentazione linguistica, che non ha avuto il suo centro solo l’identità, non è stato un percorso terapeutico, ma piuttosto un percorso esplorativo sulla capacità delle immagini, della fotografia non solo di comunicare, ma di diventare strumento di indagine, di conoscenza, di una conoscenza che non si ferma al fattuale ma va oltre verso il possibile. Ed è questo che ho voluto esprimere quando mi è stato chiesto di completare le mie fotografie con alcune parole:
“Non so se io parlo attraverso queste foto, se queste foto parlano di me, se le fotografie parlano dei soggetti che raffigurano o di quelli che le scattano.”
Forse gli inchiostri o i pixel qualcosa lasciano trasparire. Spetta a chi guarda, se vuole ed è interessato, scoprirlo.
Le rughe e i capelli bianchi mi preservano anche dalla tentazione di uno sguardo narcisistico.
Che cosa rimane allora?
La soddisfazione di potersi mettere di fronte al proprio lavoro e poter dire: “Mi piace”, e di poterlo ripetere davanti ai lavori degli altri compagni di viaggio.”
Vorrei chiudere queste riflessioni con una questione che è stata sollevata, o meglio accennata, durante un intervento della serata conclusiva. La questione è quella della differenza tra leggere e interpretare la fotografia. È stato detto che le fotografie si leggono e non si interpretano e questa affermazione mi ha colpito perché non riesco a distinguere bene il confine tra lettura e interpretazione, o meglio credo che la lettura sia un elemento comunque propedeutico ad ogni possibile interpretazione, che si legge qualcosa solo perché abbiamo bisogno di interpretare, di arrivare a individuare il senso di ciò che vediamo di ciò che leggiamo. Tuttavia nello stendere queste osservazioni mi sono reso conto che andare oltre il limite della lettura era un po’ come chiudere con la parola ciò che l’immagine aveva aperto, definire ciò che per sua natura non può essere definito. Se è strano rifiutare per la fotografia l’interpretazione quando è essa stessa interpretazione della realtà, altrettanto strano è sentire che non è lecito superare un certo limite, di superare con la parola un limite che non può essere superato, quello che la fotografia mostra ma che non può essere detto senza compiere un’operazione arbitraria di chiusura.
massimocec maggio 2012
Comment
Complimenti Massimo per i tuoi commenti che ho appena finito di stampare e che aggiungero in calce alla mia copia del catalogo. Perchè è evidente che è là che devono stare per rendere piu viva e completa questa nostra esperienza. Che a posteriori giudico incompleta.. anche se stimolante. ..
Ma spero avremo modo di riparlarne
Buona luce
Franco