Non so perché mi sento così attratto da questa foto scattata quasi per caso. È una foto che non ho costruito, me la sono trovata pronta come una sorta di immagine mentale una mattina, appena alzato. Ho guardato la stampa del quadro di Picasso, Las meninas, appeso sopra il mio letto, ho visto che la luce proveniente dalla finestra produceva riflessi che inserivano la mia figura nell’immagine e il mio cervello o il mio occhio o entrambi hanno scattato qualcosa che si è materializzata da qualche parte. L’unico sforzo che ho fatto è stato quello di prendere la macchina fotografica e trasformare l’immagine mentale in fotografia premendo il clic.
Las meninas è lì nella mia stanza da molti anni perché ha sempre rappresentato per me un oggetto enigmatico e nello stesso tempo attraente, ma non so spiegare perché. Mi piace Las meninas di Velazquez con i suoi misteri, il fascino dell’incrocio di sguardi, la trovata ingegnosa di Velazquez di ricorrere alla capacità riproduttiva di uno specchio dipinto sulla parete di fondo della stanza per andare oltre il quadro, di inserire le immagini del re Filippo e della regina Marianna tra i personaggi senza farli entrare nello spazio prospettico. E mi intriga Foucault che nel suo saggio Le damigelle d’onore contenuto nel celeberrimo testo Le parole e le cose. interpreta lo specchio come “uno sguardo che esce dal quadro per mostrarci ciò che sta al di là del quadro, nel nostro spazio” poiché ciò che lo specchio riflette, l’immagine dei due reali di Spagna, è anche l’oggetto di due sguardi che in quel punto si incontrano, quello di Velazquez pittore che sta dipingendo sulla tela invisibile allo spettatore i due reali, e quello di un altro Velazquez che fa da spettatore alle spalle di tutti, sulla porta che si apre verso un altro spazio ignoto. Lo specchio apre quindi a qualcosa di esterno allo spazio del quadro dove sono collocati i sovrani ma anche il punto in cui l’osservatore deve collocarsi per inquadrare la scena così come l’artista l’ha vista, anche se altri mettendo in gioco non la filosofia ma lo studio analitico delle regole della prospettiva, ritengono che il punto di fuga non si trovi nello specchio, ma un po’ sopra il gomito di Iosè Nieto, per cui l’immagine riflessa nello specchio sarebbe l’immagine di un’immagine, l’immagine dell’immagine dipinta sulla tela. In sostanza lo specchio rifletterebbe non i due sovrani in carne ed ossa ma l’immagine del dipinto. Il quadro conterebbe quindi una doppia immagine dei re di Spagna una visibile grazie allo specchio e una invisibile su tela. Il gioco si fa sempre più complesso.
E la complessità cresce se all’originale si aggiungono le trasfigurazioni di Picasso, le riletture. Le figure di Picasso, pur conservando l’ambiguità dell’originale, la complessità spiazzante dell’incrocio di sguardi, perdono la loro nitidezza, il loro realismo per diventare tracce, segni appena accennati di una realtà che si rivela paradossalmente nella sua essenza più profonda, più reale, si rivela disordine a cui noi imponiamo una forma, un ordine che si sovrappone al caos. Il quadro di Picasso sembra riportare alla luce il disordine, l’ambiguità originaria mostrando che l’ordine imposto attraverso le forme comunque rimane provvisorio. Picasso inoltre ingigantisce il pittore e la sua tela rafforzando la natura “meta” del quadro, rendendo più evidente l’oggetto della rappresentazione che è la rappresentazione stessa. Forse il mio sguardo per un attimo ha intuito la chiave per legare tutti questi elementi in un unico oggetto, in un attimo estratto dal flusso del tempo congelato in una singola immagine che è un’immagine di immagini, di una catena di immagini che da Velazquez, attraverso Picasso, arriva fino alla mia mente e da qui alla mia macchina fotografica in un’alba come tante altre. Ma tale intuizione ora si perde di fronte alla complessità, alla confusione che sembra regnare nella foto. L’intuizione se c’è stata non riesco più a rintracciarla nella foto. Forse l’intuizione è un ulteriore rafforzamento della natura “meta” con l’introduzione violenta del soggetto produttore, il fotografo, nell’immagine stessa che si sovrappone al pittore fino a renderlo quasi invisibile in un atto di estrema superbia e presunzione, atto che comunque sta dietro ad ogni forma di rielaborazione, di riscrittura.
Mentre guardo la mia foto alla ricerca di una chiave di lettura, di uno strumento che mi consenta di smontare la globalità della foto mi viene in mente, a proposito di riscritture e rielaborazioni, e rileggo il racconto di Tabucchi “Il gioco del rovescio” perché ricordo che il racconto si apre proprio con la citazione del quadro Las meninas di Velazquez. Oggi è anche il giorno in cui ho appreso della morte di Tabucchi e il racconto inizia con l’annuncio della morte della protagonista della storia, di Maria do Carmo. Strane coincidenze.
Maria do Carmo è l’ambigua, misteriosa, affascinate donna cui è affidato il compito di svelare la natura ambigua dell’essere, la chiave che può permettere di comprendere la natura dell’ambiguità senza però andare oltre, senza arrivare alla solidità del fondamento della conoscenza capace di svelare la realtà autentica, unica, in grado di cancellare definitivamente l’ambiguità che la circonda. Maria do Carmo muore mentre il narratore, forse anche suo amante, sta guardando Las meninas. Maria do Carmo è il soggetto del racconto, ma un soggetto che rimane avvolto nell’ambiguità. Il narratore la conosce come sostenitrice del movimento che si oppone a Salazar, il marito la presenta come una spia del regime di Salazar e il lettore è condannato a non conoscere mai la verità. Narratore e marito, quando si incontrano, non sono in grado di svelare chi è Maria do Carmo. Ciascuno conserva la sua immagine, indifferente all’immagine dell’altro. Tra i due non si instaura alcun rapporto collaborativo per arrivare alla verità e tale ambiguità viene trasmessa al lettore che non saprà mai chi era Maria do Carmo.
Il quadro di Velazquez fornisce una chiave per leggere il racconto di Tabucchi, la chiave che il narratore può utilizzare per dare un senso alla storia. Rileggendolo mi sembra di poter individuare anche un’ulteriore chiave interpretativa per la mia foto, rintraccio qualche parola che mi mi sembra possa servire per leggere la foto che casualmente ho scattato. Mi sembra anche di intuire perché la mia foto è così complicata, così confusa. Non è solo una questione di concentrazione di oggetti in uno spazio ristretto, di presunzione del soggetto autore nel sostituirsi al soggetto raffigurato, ma è anche una questione legata alla sovrapposizione di quattro strati, di quattro giochi, l’ultimo dei quali, quello utilizzato da Tabucchi, il gioco del rovescio, racchiude e sintetizza tutti gli altri.
Il gioco del rovescio è il gioco che si basa sul vedere le cose dalla parte opposta, sul riuscire a vedere il lato nascosto delle cose attraverso il capovolgimento della prospettiva, di ciò che vediamo. Il mondo invisibile non è affidato all’immaginazione ma al rovesciamento delle tracce, dei segni presenti nel mondo visibile, di ciò che usiamo per rendere leggibile il visibile. Nella mia foto, al gioco del rovescio, si sovrappongono altri giochi: il gioco dello sguardo, il gioco della citazione e il gioco del riflesso. La complessità nasce dall’intreccio tra questi quattro giochi e dalla difficoltà di rintracciare all’interno di essi una chiave interpretativa poiché vengono giocati tutti e quattro nello stesso momento.
Il primo gioco è il gioco dello sguardo, il gioco dell’oggetto che attira su di sé lo sguardo dello spettatore affinché l’oggetto stesso possa uscire dal caos del reale e diventare forma, soggetto. Lo spettatore che viene colpito dallo sguardo dell’oggetto non può fare meno di isolarlo dal contesto, di ritagliare una cornice, di inquadrare l’oggetto scegliendo un punto di vista; in altre parole il gioco dello sguardo porta alla fotografia come attività che dà forma alla realtà, che costruisce un ordine, che dà senso al caos della percezione indistinta, degli stimoli luminosi indifferenziati, anche se fisicamente questa non si realizza, non si materializza in un oggetto. Questo è ciò che è accaduto a me molti anni fa a Barcellona nel museo di Picasso. Tra le tante opere esposte nel museo, Las meninas mi colpì, attirò il mio sguardo tanto che fui costretto a comprarne una riproduzione, una stampa molto grande e ingombrante del quadro che mi portai in treno a Pisa in un viaggio scomodissimo, di notte, i primi giorni di un anno collocato a metà degli anni Ottanta. A Pisa portai a incorniciare la stampa e l’appesi nella mia camera, e ancora oggi è li.
Il secondo gioco presente nella mia fotografia è il gioco della citazione che nel mio caso è una citazione esplicita. Il quadro di Picasso è direttamente inserito nella mia fotografia e non attraverso legami nascosti che occultano il rapporto con l’immagine originaria. Molto probabilmente c’è da qualche parte nella mia memoria un’immagine che mi ha suggerito quella che ho scattato, ma se tale immagine esiste, essa è sepolta tra tante altre, agisce a mia insaputa. Il quadro di Picasso invece è li, riprodotto nella foto, citato esplicitamente. Citare è una delle molle principali della nostra vita creatrice. Tutti testi che scriviamo, tutti i quadri che dipingiamo, tutte le foto che scattiamo sono legati ad altri testi, ad altre immagini in una sorta di catena generatrice. Nella mia fotografia il gioco della citazione è ripetuto più volte in modo esplicito. Picasso cita Velazquez, la mia foto cita Picasso e soprattutto la sua esaltazione del ruolo del pittore nel delineare l’oggetto della rappresentazione. Attraverso la citazione faccio mio una parte del significato dell’immagine originaria o almeno di ciò che io leggo nell’immagine originaria.
Il terzo gioco è il gioco del riflesso, il gioco dello sguardo che si posa su una superficie riflettente talvolta restituendo l’immagine di chi vi si riflette, altre volte assorbendola, inserendola nel contesto che la circonda. Il gioco del riflesso non è un gioco naturale come quelli che vengono utilizzati istintivamente agli animali per addestrarsi al gioco della vita. Secondo l’antropologo Edmund Carpenter, uno studioso interessato allo studio degli aspetti visivi della propria disciplina, i Biami, una popolazione della nuova Guinea che per ragioni legate al tipo di ambiente in cui vivevano non avevano mai avuto la possibilità di vedere la propria immagine riflessa, rimasero paralizzati la prima volta che ebbero l’occasione di farlo, di trovarsi a giocare al gioco del riflesso. Non riuscivano a leggere neppure le fotografie che furono mostrate loro. Fu necessario addestrarli e quando riuscirono a riconoscersi e, quindi, quando ebbero compreso il gioco del riflesso, ne furono spaventati. Tale gioco è un gioco non spontaneo che mette il soggetto di fronte a sé trasformandolo in oggetto, in luogo in cui si concentra l’attenzione di chi guarda. Il soggetto cioè è costretto a guardare se stesso come oggetto, come alterità, una forma di disvelamento che può sfociare nel narcisistico e solitario innamoramento del sé che porta alla morte o al disincanto, all’abbandono dell’ingenuità infantile che non percepisce pienamente il sé come unità distinta e nello stesso tempo simile agli altri, un disincanto che porta all’autonomia personale se accompagnato dallo sguardo dell’altro, dalla rassicurazione dello sguardo dell’altro. In altri casi il rispecchiamento lega la persona al contesto, il soggetto non viene isolato, non diventa oggetto distinto ma rimane soggetto avvolto da ciò che lo circonda. In tali casi il riflesso diventa uno strumento per coinvolgere, per fondere il soggetto e ciò che gli sta intorno aprendo la strada a forme di illusione che non sono inganno, ma apertura su altri mondi, suggerimento di altre possibilità.
Nella mia foto ho usato il riflesso in questo secondo senso, non come forma di rispecchiamento, di disvelamento dell’io, di autocoscienza, ma come strumento per collocarmi all’interno del contesto, per immedesimarmi in esso, con passaggio che sa dell’incosciente superbia del dilettante, in quanto mi sono sostituito al pittore che guarda la scena da un altro punto di vista, dal punto di vista opposto a quello dello spettatore e dell’io che fotografa. È qui che si inserisce il quarto gioco, il gioco del rovescio, il gioco che ho intravisto grazie al racconto di Tabucchi. Il gioco del rovescio è il gioco di colui che si colloca dietro l’evidenza e scopre un’altra prospettiva, un altro mondo semplicemente guardando nella direzione opposta a quella dello spettatore tradizionale. Nel gioco del rovescio, il gioco creato da Velazquez con il suo Las meninas reinterpretato da Picasso, il fuoco è alle spalle dello spettatore. Tabucchi descrive chiaramente tale gioco: “la chiave del quadro sta nella figura di fondo, è un gioco del rovescio”. La figura di fondo del quadro vede quello che lo spettatore non vede, vede quello che è alle spalle dello spettatore. E quel rovescio è un altro mondo in cui si entra seguendo le tracce che si possono intravedere nel primo mondo.
Anche il racconto di Tabucchi contiene gli stessi giochi. Il gioco delle sguardo, lo sguardo del soggetto, di Maria do Carmo che attrae il narratore, che lo porta dalla sua parte, che lo spinge a isolarla dal contesto e a fotografarla. Il gioco della citazione, la citazione di Las meninas di Velazquez, ma anche citazioni del paesaggio, di Lisbona, del Tago, dei suoi quartieri, delle sue strade, dei suoi bar frequentati dal narratore e da Maria do Carmo durante le loro passeggiate. Citazione di altri autori come Alvaro de Campos. Il gioco del riflesso, dell’immagine che si crea attraverso il rispecchiamento nell’altro, attraverso il ricordo del passato, attraverso l’interccio tra tutti questi giochi di riflessi che rimbalzano l’uno dall’altro, l’uno sull’altro. E infine il gioco del rovescio. La scoperta di un ‘altra prospettiva collocandosi dietro tutti, una prospettiva che è semplicemente un altro punto di vista.
La narrazione scritta, il raccontare però consente di diluire questi giochi nel tempo, di lasciare che ciascuno assolva la propria funzione. L’immagine statica, la fotografia non consente ciò. Guardando la mia foto capisco perché mi appariva così confusa. In esso ho mischiato quattro i giochi. Si trovano sovrapposti il gioco dello sguardo, dell’oggetto che cattura il suo spettatore, del fascio degli sguardi che si sono incrociati, il gioco della citazione, il gioco del riflesso e infine il gioco del rovescio. Nel tentativo di comprendere intuitivamente, dall’interno la rete degli elementi che Las meninas racchiude, di riuscire a seguire le tracce lasciate dagli oggetti che portano ad altri oggetti nel vano tentativo di andare oltre, di arrivare ad un punto da cui vedere l’essenza, il fondamento ho tralasciato l’importanza della successione. La circolarità dei legami, la coincidenza tra punto di partenza e punto di arrivo, entrambi rappresentati dal gioco del rovescio, mi hanno fatto perdere di vista il percorso che ora mi è chiaro, che ora riesco a vedere. Senza tale chiarezza il bisogno di sapere può trasformarsi in un tentativo che condotto all’estremo trasforma il soggetto che viene catturato da tale smania in un insoddisfatto collezionista di libri, di foto, di musiche e di parole, in un divoratore di testi e di immagini sempre però insufficienti a fornire risposte definitive semplicemente perché non vi sono tali risposte, perché la risposta definitiva sembra spostarsi sempre più avanti. Il collezionista è condannato all’insuccesso, alla pazzia perché solo il gioco del rovescio, la possibilità di vedere il mondo dal lato opposto, dal lato della figura di sfondo può fornire la chiave per soddisfare la curiosità, la sete del sapere, una sete che non può mai arrivare ad un traguardo definitivo, ma può consentire di passare da un mondo all’altro, da un gioco all’altro, da un sogno all’altro sapendo che tutto si esaurisce in tali passaggi. Il racconto di Tabucchi si chiude proprio con un enigma che in sostanza costituisce la risposta alla richiesta di svelare l’ambiguità. Tabucchi conclude il racconto con queste parole rivolte a Maria do Carmo che ha preso il posto della figura di fondo del quadro di Velazquez “ho capito perché hai codesta espressione, perché tu vedi il rovescio del quadro, che cosa si vede la cotesta parte?, dimmelo, aspetta che vengo anch’io, ora vengo a vedere. E mi incamminai verso quel punto. E in quel momento mi trovai in un altro sogno”.
Guardo la mia foto e vedo che in essa il rovescio è visibile, che il gioco del riflesso consente di vedere ciò che c’è alle spalle del fotografo. Ma questo visibile non costituisce la soluzione dell’enigma. Ciò che si vede è una finestra aperta che conduce oltre i bordi della fotografia, oltre i limiti del visibile, oltre la cornice della stampa. La mia foto non porta in un altro sogno ma accenna ad un altro mondo oltre quello che si vede rappresentato in essa. A questo oltre si arriva non direttamente per intuizione o per vagheggiamento, ma attraverso un gioco di rimandi, di riflessi reali e concettuali, di riflessi di luce e di memoria, di citazioni, di attrazioni, di innamoramenti.
massimocec aprile 2012
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