Galleria foto di classe Liceo Dini sezione G
“In una foto di classe del Liceo Condorcet anno 1888-1889, il diciottenne Marcel Proust è mezzo storto, i suoi occhi sono grandi e meravigliati, tiene il corpo piegato a sinistra dove, una fila sotto di lui, c’è l’uomo che l’autore della Recherche definì il suo «eroe nella vita reale», il professore di filosofia Alphonse Darlu, girato verso il suo allievo più brillante.” Da la Repubblica “L’anno senza la foto di classe” 30 aprile 2020. Quella foto di quella classe del Liceo Condorcet dell’anno scolastico 1888-1889 vista oggi è una fotografia portatrice di senso inteso come depositaria di una storia comprensibile per moltissimi lettori dell’opera di Proust. Ogni fotografia di classe forse è un contenitore di senso per tutti coloro che hanno vissuto l’esperienza di quel gruppo, di quella classe come la foto di classe del Liceo Condorcet anno 1888-1889 lo è per i lettori di Proust. Una volta, prima dell’avvento della privacy, dei suoi divieti e dei cellulari in grado di fotografare e filmare tutto immediatamente senza la necessità dell’intervento di un professionista dell’immagine, era consuetudine durante un qualche periodo dell’anno scolastico, spesso verso la fine, che un fotografo si presentasse al preside con la richiesta di poter ritrarre gli studenti classe per classe. Era uno dei tanti riti del percorso scolastico annuale come le vacanze pasquali e quelle natalizie, il primo giorno di scuola e l’ultimo, la presa visione dei tabelloni degli esiti e così via. Le classi venivano accompagnate nel cortile o davanti all’ingresso, qualche volta rimanevano nell’aula dove il fotografo cercava di mettere ordine nel gruppo sulla base soprattutto del criterio dell’altezza: ai più piccoli la prima fila e gli spilungoni nelle seconde e terze file sul fondo, con distribuzione non sempre casuale delle vicinanze. Contavano spesso le simpatie e le antipatie, l’amicizia scolastica ed extrascolastica. C’era poi l’insegnante o gli insegnanti che una volta si disponevano al centro della foto (le più vecchie spesso sono seduti dimostrando quanto rituale e consuetudinario fosse l’appuntamento della foto). Nelle nostre fotografie, quelle di una classe del Liceo Scientifico Dini di Pisa dal 1967 al 1972, sezione G, nella foto della prima classe c’è anche un “custode” che era comunque una figura non secondaria e lo ricordo ancora negli angusti corridoi di quell’edificio in cui la palestra era il garage e i corridoi erano quasi cunicoli, l’insegnate di turno si accuccia con gli studenti della prima fila o è sospinto ai margini accerchiato dai suoi allievi come nella foto della terza o è addirittura assente, segnali forse di un mutamento del suo ruolo nel gruppo, mutamento che effettivamente si è verificato nella nostra classe destinataria di supplenti e quindi di giovani insegnanti in quanto classe di un corso marginale rispetto ai corsi ritenuti elitari che conservavano per diritto di tradizione la loro collocazione nella sede centrale. Anche l’abbigliamento dei docenti non è molto diverso dal nostro. Sparite le cravatte e le giacche per tutti i maschi, rimangono però i grembiuli per le nostre compagne. Evidentemente le differenze di genere continuavano a pesare anche in quegli anni anche se erano gli anni della contestazione dal 1967 al 1972 in una città che era uno dei centri nazionali delle lotte studentesche, delle occupazioni, delle lotte operaie. Sulla base di elementi di questo tipo, abbigliamento, disposizione delle varie figure, atteggiamenti forse sarebbe possibile accennare ad una storia del clima didattico nelle aule delle scuole ma non è questo che ora mi interessa.
Ciò che mi incuriosisce sono queste quattro foto, le foto delle classi che ho frequentato, dei compagni con cui ho condiviso l’esperienza liceale. L’atteggiamento degli studenti, oltre al loro abbigliamento, è rivelatore di un clima nuovo, dall’austerità e dalla seriosità della messa in posa degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta, si era passati ad un “allegro disordine” che si può intravedere anche nelle fotografie della nostra classe, dove sono presenti addirittura tentativi di immortalare probabilmente gesti non consoni nei confronti di qualche docente, atteggiamenti di riprovazione da parte di qualche altro compagno per tale tentativo, pose in qualche caso più vicine alla spontaneità del momento che alla ritualità dell’occasione, la professoressa di italiano del terzo anno quasi circondata dai suoi studenti.
Che cosa mostrano allora quelle foto? Un semplice atto rituale o qualcosa di diverso come l’unità del gruppo in cui ogni individuo ha la possibilità di riconoscersi? È possibile una lettura degli atteggiamenti, della dinamica dei rapporti all’interno del gruppo o di quali relazioni leghino il gruppo al contesto in cui era inserito? Non credo che la semplice fotografia possa rivelare qualcosa di tutto ciò. Quasi tutte le fotografie di classe si somigliano. Iniziano a parlare però se chi le guarda è in qualche modo coinvolto in ciò che l’immagine mostra. Secondo il giornalista Giovanni Floris, che ha scritto un romanzo sui compagni di scuola, Quella notte sono io, che affronta il problema della memoria relativa ad un episodio di violenza, che oggi chiameremmo bullismo, tra compagni di liceo, una memoria che sembrava cancellata ma che ritorna perché certi momenti della vita si possono mettere da parte ma non cancellare, negli anni della formazione “ogni istante ha un peso specifico enorme. L’ultimo giorno di scuola, la gita sono attimi fermati anche da riti come la foto”. E ancora aggiunge che nella foto di gruppo del suo quarto anno al Liceo Tasso di Roma, sezione E, anno 1985, ci sono compagni che sono ancora parte della sua vita: «Li considero affetti stabili. Per me, i compagni di scuola sono i congiunti del futuro». Anche per me è così, molti di quei compagni che ho ritrovato nelle fotografie sono ancora parte della mia vita attuale e tutti sono comunque un momento importantissimo della mia vita passata. Parte di ciò che ora sono lo devo a quegli anni, a quei compagni e ad alcuni dei professori che sono capitati in quella classe.
Lo scrittore Andrea De Carlo, che nell’edizione illustrata del suo romanzo Due di Due, in cui racconta la storia di due ragazzi della sua generazione che hanno vissuto il Sessantotto sui banchi della prima liceo per poi intraprendere due vite diverse una volta finita la scuola, una storia in gran parte sovrapponibile alla storia della nostra classe, ha aggiunto al testo un disegno di una classe di liceali ispirato ai suoi anni trascorsi nel Liceo Classico Berchet di Milano, sostiene che: “Ogni studente ha il suo atteggiamento, vedi la posa svogliata o spinta dal desiderio di mettersi in mostra, vedi la compagna più carina, il ribelle… Insomma, c’è tutto il gioco delle parti”. De Carlo parla del suo disegno, ma forse qualcosa del genere può essere rintracciato, con maggiori difficoltà, anche nella fotografia. Certo quel qualcosa rintracciabile nella fotografia è infinitamente più piccolo di ciò che può rivelare un disegno perché lo strumento, la macchina fotografica, non consente la libertà creativa del disegno ma può solo riprodurre ciò che è lì in quel momento con la possibilità di tramandare solo ciò che è stato e perché l’occasione in cui vengono prodotte le fotografie di classe è molto standardizzata.
Ma è forse vero ciò che De Carlo dice e cioè che le foto di fine liceo sono come un messaggio nella bottiglia che ci mostra la nostra fase embrionale in cui tutto si andava definendo, in cui eravamo in attesa di un futuro. E oggi mi incuriosisce sapere che cosa è scaturito da quella fase embrionale in cui nessuno di noi sapeva o immaginava quale sarebbe stato il suo destino, scoprire che cosa è accaduto e chi sono oggi quelle persone, se è ancora possibile ricostruire o se ancora esistono i legami che ci avevano uniti.
Allora la fotografia della classe liceale riproposta a molti anni di distanza, magari in occasione di un recupero anche fisico della vicinanza tra compagni, non è solo un frammento di memoria che può aiutarci a rivivere le allora nascenti emozioni vissute senza il riparo della famiglia o uno stimolo per la curiosità di sapere ciò che è accaduto, ma può essere qualcosa di più, qualcosa che ci fa incontrare i vecchi compagni che possono diventare nuove persone da scoprire, da ri-conoscere anche per come erano allora grazie al filtro del distanziamento temporale e dell’esperienza di una vita in gran parte vissuta. È questo l’effetto che hanno provocato in me queste fotografie che non avevo conservato ma che dopo tanti anni ho ritrovato, grazie all’iniziativa di alcuni di noi, che hanno deciso di riprendere i contatti e di mettere le foto a disposizione di tutti a fianco di quotidiane lunghe discussioni su chat animatissime cui non partecipo per non so quale atteggiamento di reticenza ma che leggo quotidianamente con interesse. Mi vengono in mente alcuni film che hanno per tema queste rievocazioni, in particolare Compagni di scuola di Carlo Verdone, film pieni di cinismo, dove ogni studente ha realizzato esattamente ciò che era annunciato nella sua fase embrionale e ha portato a termine il suo destino nel modo peggiore. Mi sento lontano da quell’ottica, mi danno addirittura fastidio. Siamo certamente invecchiati, il nostro fisico risente del tempo che è passato. Ma lo spirito che emerge dalle parole, dagli atteggiamenti dei miei compagni che si sono incontrati dopo tanti anni mi sembra diverso, mi sembra di cogliere dietro la permanenza di fattori che rimangono comunque inalterati, una maturazione di sensibilità che contraddice il cinismo della predestinazione che circonda i personaggi del film di Verdone.
Queste foto di classe sono in grado di uscire dall’immenso turbinio di immagini che ci circonda, dalle migliaia di ritratti e di selfie di cui ognuno di noi può dotarsi, di collocarsi agli antipodi della bulimia visiva legata alla diffusione di smartphone e all’uso incontrollato dei social media e di catturare la nostra attenzione. Queste foto mi dicono qualcosa, esercitano su di me una sorta di richiamo, sono le mie sirene che cantano alla memoria melodie invitanti, una memoria che contiene, a fianco di elementi di disagio e qualche volta di dolore, anche molti elementi di soddisfazione, quasi di piacere per aver vissuto quelle esperienze. È comunque vero che le foto di classe iniziano a parlare soltanto nel tempo, quando la memoria rafforzata dalla lontananza nel tempo e spesso anche nello spazio comincia a far pensare, ad agitare il pozzo montaliano della memoria in modo che i ricordi possano essere tirati su con la cigolante carrucola delle emozioni, dei sentimenti che la accompagnano. Le immagini che salgono però da quel pozzo non sono evanescenti, sono abbastanza nitide, quasi materializzate come sono le immagini di un film proiettato su uno schermo che sta davanti agli occhi. È senza dubbio un film privato, visibile solo dal soggetto che lo crea e lo proietta. Le foto logicamente parlano solo a interlocutori coinvolti, altrimenti sono oggetti tra i tanti dispersi nel caos quotidiano delle immagini. E quindi ci saranno tanti film quanti sono i soggetti che interloquiscono con quelle foto. Ma sono film che possono dialogare tra loro, le lingue che vengono parlate in ciascuno di questi film non sono del tutto estranee. Forse attraverso esse è possibile arrivare almeno ad una storia intersoggettivamente condivisa, la storia della sezione G del Liceo Scientifico Dini di Pisa dal 1967 al 1972.
Qualcuno, non ricordo chi, ha affermato che il valore della foto di classe non è nei singoli volti o corpi ma nelle relazioni tra loro, che quelle foto sono una sorta di sottrazione d’individualità a favore di un soggetto collettivo che riassume anni d’intenzioni, sguardi, sentimenti. Per me non è così, ogni volto conta, ogni volto è una persona, è un avvenimento, una serie di avvenimenti, una storia vissuta insieme. Certo quel volto è quel volto solo accanto a tutti gli altri che sono ritratti nella foto, la storia è tale solo nello svolgimento di tutte le altre storie dei compagni di classe, ma non c’è alcuna sottrazione di individualità, anzi c’è la ricerca di una sua affermazione grazie alla presenza degli altri; ogni volto è sì definito non solo dalla sua fisionomia ma anche dall’insieme, ma rimane quel volto, quella storia vissuta insieme. Che cosa è in fondo una classe? È un gruppo eterogeneo di persone che si forma in gran parte grazie alla casualità determinata da come ciascuna scuola decide di formare le proprie classi iniziali. Che si sviluppi un senso di appartenenza tale che ciascun individuo capitato per caso in quel gruppo si senta integrato è un elemento possibile ma non scontato. Forse per la nostra classe è accaduto, forse non lo percepivamo in modo netto allora, forse lo vediamo solo oggi grazie alla lente del tempo, forse lo immaginiamo oggi in conseguenza di quei miraggi che la nostalgia fa emergere. Sicuramente non lo sapremo mai con certezza e ciascuno di noi è libero di vederlo o non vederlo. Possiamo affidarci solo alla ricerca che ciascuno di noi può fare negli archivi della propria memoria e forse provare a mettere a confronto i risultati delle ricerche individuali per cercare di individuare, se emerge, quello spazio condiviso intersoggettivamente che potremmo definire la nostra classe e non solo la mia.
La storia della nostra classe è una storia che comincia con un dato, è una classe di studenti che appartengono a quella che l’Istat nel suo Rapporto annuale del 2016 ha chiamato la generazione del primo baby boom, quella che l’Istat definisce la generazione dell’impegno, quella dei nati dal 1946 al 1955. In particolare, i nati dal 1952 al 1955 sono i nati nell’ultimo periodo del primo baby boom del secondo dopoguerra che hanno sperimentato quasi tutte le riforme, da quella della scuola media unica, a quella degli esami di stato al termine del liceo, a quella della liberalizzazione dell’accesso all’università, al referendum su divorzio e aborto, alle riforme delle pensioni, sia la riforma Dini che la riforma Fornero che hanno segnato la fine di un lungo periodo di crescita, di emancipazione culturale e sociale che aveva creato l’illusione della possibilità di un progresso senza fine sia sul piano materiale che sul piano dei diritti e forse la fine di un’utopia, quella dello sviluppo sociale e culturale sostenuto dalla crescita economica illimitata. Siamo la generazione che ha percorso tutta la parabola, dall’utopia del progresso senza fine, alla delusione per il suo crollo. Non è un dato secondario l’appartenenza a questa generazione anche dal punto di vista della storia della classe. Siamo stati protagonisti dell’accesso di massa ad una scuola media appena uscita da una suddivisione netta tra chi era indirizzato a studi liceali e chi a studi di carattere tecnico o professionale o a chi era destinato ad un ingresso precoce nel mondo del lavoro. La massa ha poi investito una scuola superiore organizzata su un rigido modello di differenziazione di indirizzi in cui l’istruzione liceale era riservata ad un numero ristretto di studenti già selezionati e preparati ad affrontare certe discipline come il latino scardinandola e mettendola in crisi. Infine, siamo arrivati ad un’università anch’essa impreparata ad accogliere tutti questi giovani provenienti da percorsi scolastici eterogenei. La nostra classe era una classe di 35 – 36 studenti sballottati da un edificio all’altro in giro per la città perché l’edificio destinato al liceo scientifico non era più in grado di contenere tutti i nuovi iscritti affidati per una parte a giovani docenti appena laureati. Devo dire che tutto ciò non è risultato completamente negativo. La lontananza per più anni dalla sede centrale e la presenza di giovani docenti hanno avuto un peso non irrilevante sulla formazione del clima della classe, ci ha consentito una maggiore libertà. Nello stesso tempo però ha facilitato una riduzione del livello di preparazione lasciando a ciascuno di noi la responsabilità di decidere quasi in autonomia quanto delle proprie energie dedicare allo studio.
Proprio la marginalità della nostra classe ha determinato anche i flussi di entrata e di uscita. Durante i primi anni hanno prevalso i flussi in uscita, molto probabilmente legati alla volontà di alcune famiglie di dare ai propri figli una possibilità più consistente di preparazione scolastica. Alcuni compagni si sono spostati nelle sezioni “nobili”. Negli ultimi anni invece hanno prevalso i flussi in entrata questa volta legati forse più alle scelte degli studenti che delle famiglie, e in particolare alla rigidità del clima in alcune sezioni “nobili”. L’aria respirata nella nostra classe sembrava forse un’aria più leggera. Qualche uscita invece è da catalogarsi tra quelle effettuate per motivi politici alla ricerca di un clima meno goliardico e più impegnato politicamente in un periodo in cui schierarsi politicamente poteva essere sentito come necessario.
Un altro elemento che contraddistingueva la nostra classe era quello della eterogeneità dal punto di vista sociale. La scuola di massa aveva in parte scardinato anche la struttura interna delle classi in particolare nelle scuole come liceo scientifico, uno degli indirizzi sottoposto alla maggior pressione demografica. In gran parte il liceo classico era rimasto la scuola dell’élite, poche classi e forse anche poco numerose con una popolazione scolastica abbastanza omogenea dal punto di vista dell’estrazione sociale. Il liceo scientifico invece era stato preso d’assalto e a tale scuola si erano scritti anche molti studenti provenienti da classi sociali fino ad allora quasi totalmente escluse dall’insegnamento liceale.
L’unificazione della scuola media aveva in gran parte contribuito ad alimentare tale fenomeno. Io ero uno di quegli studenti che avevano tentato il balzo sociale grazie alla scelta della scuola. Durante la scuola media avevo avuto discreti risultati tranne che in inglese, lingua che per me manteneva un carattere di ermeticità molto alto. Mi piaceva molto leggere, divoravo romanzi e libri di storia, ero bravino in matematica e secondo alcuni insegnanti scrivevo e disegnavo con una certa facilità. Mio padre era un operaio con la licenza elementare, mia madre una casalinga con la terza elementare. Entrambi però erano convinti dell’importanza della scuola e della preparazione che essa poteva fornire. La loro spinta era stata fondamentale per la scelta della scuola e così mi sono trovato in questa classe numerosissima, emarginata in un edificio appena costruito destinato ad essere un istituto di igiene, con compagni che dal punto di vista della collocazione sociale erano in gran parte provenienti da situazioni molto diversa dalla mia.
Devo dire che in quel primo anno non mi sono sentito a mio agio nella classe, provavo una sorta di senso di inferiorità. Inoltre, la nuova classe era una classe mista costituita sia da maschi che da femmine. Il mio disagio derivava infatti anche dalla scarsa familiarità con il genere femminile ancor più perché provenivo da una scuola media dove ancora esistevano le classi maschili e le classi femminili e da una famiglia in cui l’unica donna era mia madre e la madre per i figli raramente viene percepita come donna (se si mettono tra parentesi le implicazioni psicoanalitiche). La convivenza in classe con le compagne è stata per me un grosso problema anche perché consideravo il mio aspetto fisico non attraente e questo a quell’età aveva un’importanza non secondaria. Mi sentivo di serie B anche nei confronti della componente femminile. L’integrazione nel gruppo classe in un’età come quello adolescenziale è sempre un momento difficile perché i filtri che la consentono sono molti e di notevole spessore. L’aspetto fisico è uno di questi ed è un filtro legato ad una concezione della bellezza come dimensione esteriore, come forma visibile che non si integra con altri aspetti della personalità che solo più tardi e non sempre diventano patrimonio dell’individuo come strumenti per instaurare relazioni positive con sé e con gli altri. Inoltre, la mia storia sentimentale dell’adolescenza è stata tutta vissuta all’interno della classe perché non conoscevo altre ragazze ed è stata caratterizzata da amori mai corrisposti. Anche io in qualche modo ero vittima della stessa ottica deformante e molto probabilmente non sono stato in grado di guardare oltre l’aspetto esteriore delle mie compagne, non vedendo quindi sguardi diversi e rinchiudendomi nel ruolo di innamorato rifiutato. Sono pochi in età adolescenziale ad avere un’idea della bellezza della persona come dimensione poliedrica che va ben al di là della semplice forma esteriore. È difficile a quell’età sviluppare una sensibilità in grado di percepire i disagi degli altri legati ai nostri comportamenti, ai nostri sguardi e all’incapacità di cogliere i loro sguardi e credo che, con diverse modalità, situazioni di questo tipo siano state condivise da molti dei miei compagni. Anche tutto ciò contribuisce a creare il clima della classe perché determina risposte alle diverse situazioni di incertezza e di disagio che possono essere di tipo diverso, risposte aggressive legate al bisogno di difendersi, forme di isolamento, eccessiva spavalderia o bisogno di mettersi in mostra, di salire sul palcoscenico grazie a comportamenti stravaganti fino a forme varie di prepotenza materiale o psicologica. Penso che pochi adolescenti siano spontanei perché in fondo la spontaneità non è una forma di immediatezza ma il prodotto di una lunga esperienza di contatti sociali e di conoscenza dell’altro, di capacità di ascolto di sé oltre che dell’altro che consentono di essere consapevolmente se stessi. Devo comunque aggiungere che le compagne di classe per me sono diventate nel tempo una presenza importantissima e sono state una delle cose che più mi sono mancate una volta terminato il liceo e iniziata l’università. Per un lungo periodo ho sentito una sorta di vuoto riempito solo dal fatto che con alcune di esse ho continuato ad avere rapporti, ma mi mancavano le mattinate passate insieme, le scampagnate, le feste anche se odiavo ballare. Mi trovavo bene con molte di loro, soprattutto ero riuscito a superare almeno in parte la mia timidezza, a parlare di me e talvolta a farmi aiutare da loro quando ero in difficoltà nello studio. In particolare, mi ricordo i pomeriggi passati nella casa di Marina di Pisa di due mie compagne, due sorelle gemelle, Elena e Paola, che pazientemente mi sostenevano. Con Elena poi il rapporto di frequentazione è continuato anche dopo il liceo perché abbiamo fatto entrambi filosofia ed entrambi siamo emigrati in Lombardia per iniziare ad insegnare. Un’altra compagna particolarmente importante è stata Lucia. Con lei ho passato molto tempo in lunghe discussioni su tutto, dalla politica alle vicende personali, alla filosofia. Con lei ho condiviso anche il percorso di studio universitario.
A differenza di quanto accaduto a me, la classe è stata anche un luogo in cui sono nate storie sentimentali, storie penso importanti perché forse prime storie durature come quelle tra Valerio e Lucia, tra Daniela e Franco, tra Giuseppina e Antonio. È inevitabile che ciò accada e anche tali vicende contribuiscono a creare un clima soprattutto se i protagonisti hanno un ruolo non secondario nelle dinamiche della classe, e così è stato per noi. In qualche modo noi tutti abbiamo preso parte a queste storie anche se poi ciascuna di esse riguardava direttamente solo i reali protagonisti.
Le difficoltà, i disagi di cui ho parlato e che sono stati vissuti probabilmente non soltanto da me penso e spero, non so se per un bisogno consolatorio o per sfuggire a qualche senso di colpa, non abbiano determinato forme di vera e propria emarginazione nella nostra classe. Dico questo perché nel film che io mi sono costruito mi sembra di intravedere che sostanzialmente tra noi si siano creati legami forti anche se apparentemente instabili e talvolta anche allentati da litigiosità. Legami certo più forti all’interno di sottogruppi come quello maschile e quello femminile e, all’interno di essi, legami interni a ulteriori sottogruppi determinati da aspetti diversi quali l’interesse verso uno sport, verso lo studio, la musica o verso qualsiasi altra cosa che comunque potesse essere condivisa. Soprattutto in ambito maschile lo sport ha giocato un ruolo fondamentale. Gran parte di noi praticava qualche sport e in particolare il calcio. C’era anche una sorta di rivalità tra squadre di appartenenza; ricordo due di queste squadre, la Rinascita e il San Martino, due squadre in cui militavano alcuni dei miei compagni e il derby era occasione di attesi momenti di partecipato ma sportivo confronto. C’era poi un mio compagno con cui spesso studiavo, anche lui si chiama Massimo, che, oltre a condividere la passione per il calcio, era il portiere di una delle due squadre, si era invaghito degli stadi, li disegnava ovunque e mi sembra di ricordare forse anche di un plastico rudimentale costruito in casa sua. Del resto, erano gli anni del Pisa in serie A e anch’io andavo allo stadio e conoscevo a memoria i nomi di tutti i giocatori, cosa che non è più capitata per nessuna squadra. Poi questo mio compagno si è dato alla vela pur rimanendo un tifoso del Pisa. C’erano anche altri sport a determinare appartenenze, l’atletica, lo sci, la caccia. Io ero il solo a giocare a pallacanestro e non potevo condividere questa passione con nessun altro. Per quanto riguarda l’atletica, avevamo avuto per un certo periodo come insegnante, forse poi fuggito nelle sezioni più “nobili”, Franco Radman, campione italiano di lancio del giavellotto e allenatore di squadre nazionali. Era un gran bell’uomo che esercitava un grande fascino sul genere femminile, ma io lo consideravo una persona poco sensibile verso gli studenti e un po’ piena di sé. Non mi piaceva come non mi piaceva il mondo dello sport agonistico, anche se per un certo periodo l’ho frequentato. Per quanto riguarda la caccia devo dire che ad un certo punto questa attività è comparsa in classe nostra grazie ad alcuni compagni, uno dei quali si è anche sparato incidentalmente in un piede. Il mio amico Valerio ha anche tentato di iniziarmi all’attività venatoria regalandomi un cucciolo, che è rimasto nella mia famiglia per oltre quindici anni, e provando a farmi sparare in un pomeriggio in cui stavamo girovagando per i campi che circondavano la sua casa un colpo. Da una distanza non eccessiva ho mancato, con quell’unico colpo sparato nella mia vita, un pagliaio e per poco non sono caduto a terra per il rinculo del fucile. La mia esperienza venatoria si è conclusa in quel momento lasciandomi però in eredità il cane. Infine, la musica. Negli ultimi anni si formò una sorta di complesso musicale integrato da qualche componente esterno, un complessino che si ritrovava nei garage o nella casa estiva sul mare di un nostro compagno, Claudio, per suonare. E intorno al complessino si radunavano altri compagni in parte interessati alla musica e in parte semplicemente interessati a stare insieme.
Passavamo molto tempo in giro per la città e per le campagne con i nostri scooter, lambrettini o vespini che fossero, ci trovavamo nelle case per studiare o semplicemente per passare il tempo, alcuni si trovavano anche nei bar perché avevano iniziato a giocare a carte e forse, se ricordo bene, a biliardo. Quando iniziammo a saltare qualche lezione, qualcuno di noi iniziò ad andare in una sorta di club che un nostro compagno aveva aperto in uno scantinato vicino alla scuola: io preferivo il mare quando non andavo a scuola. Spesso andavamo nella pineta di Tirrenia dove avevamo scoperto una sorta di pista da motocross e lì ci scatenavamo ad affrontare dune, curve, salti improvvisi sforzando i motori dei nostri scooter fino a fonderli. Iniziammo anche a incontrarci con le nostre compagne oltre che nelle tradizionali feste casalinghe con annessi balli, in scampagnate e in giornate trascorse sulle spiagge, Bocca d’Arno, il bagno Tirrenia. Eravamo diventati un gruppo e forse non lo sapevamo, ci prendevamo in giro, litigavamo, ci facevamo scherzi di ogni tipo ma poi ci cercavamo e forse avevamo bisogno l’uno dell’altro per affrontare le incertezze della nostra età. Devo molto ad alcuni compagni anche sul piano della formazione culturale, quella formazione che non si riceve a scuola: la musica, il teatro, la montagna. Ho iniziato ad appassionarmi alla musica classica frequentando la casa del mio amico Claudio, uno dei musicisti del complessino, il batterista, che aveva un padre che possedeva una raccolta di dischi che ascoltavamo quando ci trovavamo a casa sua. Mi ricordo che il colpo di fulmine per la musica classica scoppiò con l’ascolto della Pastorale di Beethoven. Non mi stancavo di ascoltarla. Poi arrivarono la Grande Pasqua Russa di Rimskij-Korsakov, i Pini di Roma di Ottorino Respighi e tutti i concerti che allora gratuitamente potevamo ascoltare grazie alla Scuola Normale, che offriva agli studenti annualmente un ciclo di concerti gratis su invito, e alla Gioventù musicale. Anche la scoperta del teatro è stata un regalo dei miei compagni di classe, di coloro che per eredità culturale familiare lo frequentavano, la scoperta dell’importanza che ha la finzione teatrale per esplorare la dimensione umana, la finzione come arte del creare mondi possibili senza recidere il legame con la realtà come invece accade quando siamo vittime dell’inganno. Il loggione, le file per acquistare il biglietto sono i ricordi di quel periodo. Infine, la montagna, la scoperta del fascino della montagna come luogo in cui perdersi e trovarsi camminando. La mia esperienza precedente della montagna era contraddittoria, legata all’infanzia e alle colonie in cui i miei genitori mi mandavano per un mese ogni estate. Già allora la montagna mi affascinava ma l’esperienza della colonia era per me terribile, costretto a ritmi e a comportamenti che mi erano del tutto estranei, abituato alla libertà dei giochi, della campagna non riuscivo ad adattarmi alle camerate, agli alzabandiera, agli incolonnamenti, alle messe domenicali, ai pasti nella mensa, al nonnismo dei più grandi. I miei compagni, in particolare Claudio e Marco, mi hanno fatto riscoprire la montagna portandomi in spericolate passeggiate sulle Apuane che in qualche modo mi hanno fatto anche scoprire il senso dell’avventura e della solidarietà in situazioni di pericolo. La risorsa culturale che nella scuola non viene fornita o viene trascurata che invece ho recuperato più tardi è stata la produzione artistica. A scuola c’era una materia che mi sembra di ricordare si chiamasse disegno e storia dell’arte. Per quel che mi ricordo, venivano richiesti tanti disegni, tecnici nei primi anni e qualcosa che forse si chiamava ornato negli ultimi. Per i disegni tecnici ero negato perché spreciso e poco interessato. Credo di non aver mai fatto un disegno ornato. La mia specialità era ritagliare i disegni che riuscivo a recuperare in un archivio in cui mi facevo mandare a prendere e a riportare le cartelle dei lavori eseguiti in classe e a consegnarli con il mio nome. Lezioni di storia dell’arte in grado di coinvolgere gli studenti non le ricordo. Ho scoperto l’importanza dell’arte e il mio interesse soprattutto verso la pittura per vie traverse, studiando con Chiara Frugoni la storia medievale affrontata soprattutto attraverso le immagini come fonti privilegiate, e per diversi anni per la tesi storia della filosofia contemporanea con Aldo Gargani la cultura austriaca del primo Novecento, un nodo centrale della cultura europea; in quegli anni ho scoperto l’espressionismo, la Secessione, l’architettura funzionale di Loos oltre alla musica di Mahler, di Berg e Webern e alla dodecafonia di Arnold Schönberg, ai romanzi di Hofmannsthal, Joseph Roth, Schnitzler, Musil, tutti argomenti completamenti ignorati nel periodo liceale per far posto ad uno studio troppo ancorato ad una cultura esclusivamente letteraria e provinciale e rinunciando a dare gli strumenti per cogliere i legami tra tutte le dimensioni dei fenomeni culturali.
Guardando le fotografie di classe purtroppo riemergono anche ricordi dolorosi, come quello del nostro compagno di cui non ricordo il nome di battesimo che, a causa di un tuffo, è rimasto paralizzato. Il suo incidente mi colpì così profondamente che ogni volta che i miei spericolati amici Marco e Valerio si tuffavano a Marina dalle gru collocata su un pontile per tirare su le barche in punti in cui si doveva centrare un foro tra gli scogli mi rifiutavo di guardare per il timore che potesse accadere anche a loro, e in effetti una volta Valerio ha rischiato di finire su quegli scogli uscendo dall’acqua tutto scorticato. Ma era impossibile frenare la loro spavalderia e la loro incoscienza e tra loro era quasi una gara a chi rischiava di più.
La storia della nostra classe è forse suddivisibile in due grandi periodi, quello del primo biennio, dominato dal timore degli insegnanti, dalla docente di inglese Mairon al professore di italiano e latino del secondo anno, un prete terribile, don Di Manno, che si divertiva a torturare gli studenti didatticamente e psicologicamente, e quello del triennio dominato da uno spirito goliardico e dall’”allegro disordine” che si intravede anche in una delle foto.
A dir il vero lo spirito goliardico era già emerso durante il secondo anno con un giovane docente, l’insegnante di storia antica, il prof. Barcella, il docente presente nella fotografia della seconda con il cappotto nero che molto probabilmente stava per essere oggetto di uno scherzo anche durante lo scatto della fotografia, per fortuna impedito, credo, dall’intervento di un compagno, Massimo, più sensibile e responsabile. Era un docente molto preparato, impegnato politicamente, ma poco in grado di tenere una classe. Ce ne approfittavamo in tutti i modi possibili. Quell’incapacità di vedere la bellezza nella sua estensione complessa e non sempre immediatamente percepibile senza una ricerca attenta, quell’incapacità che partorisce in silenzio e senza farsene accorgere forme di violenza e di discriminazione può agire non solo con i coetanei ma anche con gli adulti. Ed è stato così anche con quell’insegnante che l’anno dopo si è suicidato. Non è stato certo il nostro comportamento a determinare l’atto estremo del prof. Barcella, ma sicuramente il nostro atteggiamento non è stato di nessun aiuto anche se ci rendevamo conto delle difficoltà in cui lo mettevamo. Il disagio che provoca l’impossibilità di tenere una classe l’ho capito dopo, da insegnante, quando mi sono trovato di fronte a classi terribili che, con mia grande delusione legata al fallimento delle mie idee progressiste, solo insegnanti altrettanto terribili riuscivano a tenere. Il senso di responsabilità è uno dei punti più complessi da sviluppare nella personalità di ciascuno di noi e in particolare negli adolescenti e l’errore della scuola è forse quello di presupporlo come già presente, come fatto scontato. La capacità di assunzione di responsabilità, il prendere decisioni con la consapevolezza delle conseguenze di ciò che si fa è uno dei passaggi più difficili da acquisire nel processo formativo. Anche questo è stato un nodo del clima della nostra classe, un nodo che qualche compagno con le sue riflessioni in chat ha riproposto giustamente anche nei miei confronti e che è stato oggetto di animate discussioni e di scontri in una classe in cui lo spirito goliardico che l’animava spesso sfociava in comportamenti fuori dalle righe non sempre accompagnati dalla consapevolezza delle loro conseguenze: biciclette introdotte in classe dalla finestra, ultime cene organizzate durante le lezioni di religione, ring e combattimenti organizzati in aula, processioni con traporto di persone magari poi lasciate cadere sul pavimento, lotte con altre classi con fistole per l’acqua che dovevano servire per la pulizia dei bagni, scheletri trasportati dal laboratorio di scienze nei bagni bui e vestiti come fossero studenti intenti a fare i loro bisogni per attendere le urla della malcapitata che apriva la porta e accendeva la luce, scarpe tirate in conseguenza di litigi mal gestiti a compagne che sfiorano il docente lasciando l’impronta sul muro, registri lanciati dalle finestre dopo aver preso rapporti, derisione e scherzi gratuitamente elargiti. Eravamo in grado di gestire le nostre responsabilità? Certamente no, ma la scuola non ci ha aiutati, la scuola di massa impreparata ad accogliere una grande quantità eterogenea di studenti stipati in aule improvvisate e affidate a docenti in parte provenienti dai vecchi licei fondati sull’autoritarismo e incapaci di gestire le nuove problematiche e in parte affidate a giovani docenti volenterosi ma gettati nella mischia senza alcuna preparazione psicologica e pedagogica ci ha lasciati soli ad affrontare questo nodo fondamentale della crescita. Per fortuna c’era tra noi anche chi autonomamente è riuscito ad affrontare quel nodo e ad aiutare anche i compagni ad affrontarlo, in particolare alcune ragazze più sensibili e più attrezzate culturalmente.
Il secondo periodo, quello del triennio, che per altro ha coinciso con il crollo del mio impegno scolastico, è stato il periodo dell’’ “allegro disordine”. Tra i due periodi, quale argine di separazione, c’è stato il Sessantotto, l’inizio delle occupazioni, dello scontro aperto con l’istituzione scolastica, le lotte studentesche. La nostra classe ha vissuto solo in parte l’aspetto più immediatamente politico di tale situazione. Dal punto di vista generazionale, non da quello della nostra classe, il secondo aspetto rilevante è proprio quello contenuto nel modo con cui l’Istat definisce la nostra generazione: la generazione dell’impegno, la generazione protagonista delle grandi battaglie sociali degli anni Settanta e delle trasformazioni culturali. La generazione successiva del secondo baby boom, quella dei nati dagli anni 1956 agli anni 1965, è definita dall’Istat come la generazione dell’identità, secondo alcuni anche la generazione dell’individualismo, del ritorno alla prevalenza del privato sul pubblico, del perseguimento degli obiettivi prevalentemente individuali. Mi riconosco in questa distinzione ma credo che solo in parte possa essere utile per decifrare la storia della nostra classe che ha vissuto solo parzialmente la partecipazione alle grandi battaglie sociali. Le ha forse subite e le ha utilizzate per creare un proprio clima interno in cui non sono mancati momenti politici, ma non sono stati quelli prevalenti, almeno per la maggioranza di noi. Altre classi hanno invece vissuto più direttamente l’aspetto politico, però stranamente mi sembra che il livello di coesione in quelle classi alla fine sia stato minore.
Dal punto di vista personale non mi sentivo estraneo al clima politico del contesto che circondava la nostra classe. Mio padre aveva ricevuto la lettera di sospensione, possibile anticipazione del licenziamento, dalla Saint Gobain e partecipava attivamente alle lotte operaie e studentesche per la difesa del posto di lavoro che a Pisa erano particolarmente dure. Ciò che non mi convinceva era l’atteggiamento dei gruppi di quella che allora si chiamava la sinistra extraparlamentare, in particolare del Potere Operaio pisano e di Lotta Continua. Essere distante da quei gruppi nel liceo scientifico Dini di Pisa per me in quel periodo voleva dire essere distante dalla lotta politica perché l’alternativa erano gruppi di destra. Non conoscevo altre posizioni tra gli studenti, posizioni che invece intravedevo negli operai che mio padre frequentava e che forse io rifiutavo come gli adolescenti rifiutano spesso ciò che trovano nelle loro famiglie, spinti semplicemente dalla necessità di differenziarsi e di allontanarsi dal contesto familiare. Vedevo nei gruppi dell’estrema sinistra un atteggiamento caratterizzato da una forma di prepotenza e di violenza che non condividevo oltre ad una visione della società e di scopi della lotta politica irreali. Credo comunque che quel periodo sia stato un periodo salutare per la società dal punto di vista dell’abbattimento di barriere sociali e culturali, dell’autoritarismo legato ai privilegi di classe e di status sociale ma credo anche che sia stato anche un periodo caratterizzato da una negativa esplosione di richiesta di diritti legata allo sganciamento del senso del possibile dal senso di realtà. Erano i tempi della marcusiana immaginazione al potere, della negazione del ruolo della scienza ben diverso dalla messa in discussione delle sue pretese assolutistiche e scientistiche, della fuga in un’utopia basata su un’astratta immagine di una società egualitaria dove oltre alle gerarchie vengono anche negate le differenze basate su competenze, necessità di specializzazioni, di strutture organizzative complesse, dell’aiuto della tecnologia per il miglioramento della società stessa. C’era, anche se non lo vedevo in modo così chiaro in quel momento, la negazione della Costituzione che aveva alla sua base l’idea della necessità di regole per gestire uno spazio condiviso che non appartiene a nessuno e a tutti e l’affermazione di un’idea di limite visto come ostacolo piuttosto che come confine, come qualcosa da abbattere piuttosto che come qualcosa da osservare e magari da valicare per scoprire un altro spazio, uno spazio diverso ma possibile. Il rifiuto delle regole per la condivisione dello spazio era il rifiuto della reciprocità di diritti e di doveri e la necessità di correlare il godimento dei diritti con le risorse a disposizione, con la ricerca di un’espansione dei diritti che deve basarsi sulla ricerca di una espansione e di un controllo della distribuzione delle risorse da parte della politica intesa non come demolizione del nemico ma come strategia di mediazione, di negoziazione. Non mi convinceva neppure l’immagine totalmente negativa del presente che aveva alla sua base i modelli teorici della dialettica negativa della scuola di Francoforte, della necessità di perpetuare l’azione decostruttiva senza una parallela azione costruttiva, vista come chiusura del processo dialettico e quindi come forma di integrazione nella società capitalistica. Ciò che veniva demolito era la speranza, la possibilità di cambiare mettendo in relazione l’utopia e il senso di realtà. Forse proprio la negazione della speranza ha portato agli esiti distruttivi degli anni seguenti, il terrorismo ma anche la incapacità individuale di molti dei militanti di affrontare la realtà, il presente, con esiti disastrosi delle loro vite. Successivamente ho anche messo a fuoco anche un altro elemento che mi teneva lontano dai gruppi di estrema sinistra, il rifiuto della bellezza vista come strumento soporifero della società, come strumento per la conferma del dominio; in tal modo veniva cancellata la bellezza del quotidiano, dell’arte, della musica, della tecnica e dei suoi prodotti, tutto bollato come borghese e rifiutato senza mediazioni nella sua totalità in nome di una teoria estetica, quella di Adorno, che allora non conoscevo ma che intravedevo o intuivo in ciò che recepivo nei messaggi che riuscivo talvolta a decifrare, provenienti dai teorici o da pseudo teorici di questi gruppi, una teoria che metteva al centro dell’arte e della vita il dolore e la bruttezza come elementi fondamentali della negazione e del rifiuto della società consumistica, una teoria che non poteva che produrre uno schizofrenico rapporto con il presente, svuotandolo di ogni possibilità di redenzione e di fruibilità. Logicamente in quegli anni non avevo una piena consapevolezza di tutto ciò. Vivevo in una sorta di disagio culturale combattuto tra il fascino esercitato sull’età adolescenziale da parte di idee radicali e dei personaggi che le difendevano con grandi capacità retoriche e uno stato d’animo che contemporaneamente non condivideva o condivideva solo in parte quelle idee senza però riuscire a dare coerenza al tutto e a suggerire una presa di posizione individuale. Nella scuola tale clima si traduceva in un conflitto costante nei confronti dell’istituzione scolastica e di alcuni docenti e tra gruppi di studenti, punteggiato da occupazioni, scontri, assemblee che erano tutt’altro che luoghi di confronto e di discussione. Non c’erano luoghi per prendere decisioni condivise e prevalevano le decisioni suggerite da chi aveva la forza retorica o la forza fisica per imporsi. Ho ancora in mente la scena di una mattinata con gruppi di studenti asserragliati nella scuola in difesa del loro diritto di fare lezione e dall’altra gli studenti che volevano farli uscire per costringerli a aderire ad uno sciopero, un parapiglia finito con un custode intervenuto per placare gli animi portato all’ospedale con un braccio fratturato.
In classe arrivavano solo gli echi delle lotte che avevano luogo intorno a noi, echi che sfociavano in una sorta di tensione con alcuni docenti. Solo in poche occasioni lo scontro è stato aperto. Ricordo una contestazione sostenuta da parte di Lucia nei confronti della Preside nell’ultimo anno che era venuta a consegnarci le pagelle con una serie di brutti voti in condotta, forse anche meritati.
Sporadicamente ci sono state altre forme di contestazione. Una in particolare cui ho partecipato è stata l’organizzazione di una gita alternativa alla gita di classe: mentre i nostri compagni andavano non ricordo in quale paese europeo, Daniela e Franco, con la loro amica Laura, mi coinvolsero in una gita con i nostri scooter in tenda a Napoli. Non c’erano i cellulari e i miei non avevano ancora il telefono in casa e quindi non c’era la possibilità di comunicare dove ero e come stavo. Non volevano assolutamente mandarmi. Fu una lotta dura e ancor più duro fu il ritorno con tutti i sensi di colpa che mia madre riuscì a indurre per un bel po’ di tempo. Comunque ci sono state altre gite meno contestate dello stesso tipo con i compagni di classe. In particolare, dopo la fine dell’ultimo anno, una gita con Claudio e Alessandro in treno con una tenda e i fornellini sul lago di Garda e una in Calabria in quattro, io, Valerio, Massimo e Claudio, stipati in una Mimi Minor.
La contestazione in classe forse era soprattutto sul piano didattico nei confronti del latino considerato inutile, tanto che nell’anno successivo all’anno del professore Di Manno il latino era quasi sparito dalle materie di insegnamento e le insegnanti quasi avevano il timore di proporlo difendendosi dietro il paravento dei programmi, e del nozionismo, di un insegnamento finalizzato a trasmetterci solo nozioni non in grado di farci capire il mondo in cui vivevamo. Erano critiche che avevano un fondamento, recepite però da demagogici provvedimenti legislativi come quelli previsti dalla Legge n. 910 del 1969, la Legge Codignola, che introduceva un nuovo esame di stato basato su due prove scritte e un colloquio su due materie, una scelta dallo studente e una dalla commissione, su una rosa di quattro materie scelte dal Ministero. È stato il nostro esame di stato che prese il pretenzioso nome di esame di maturità. Lo scopo dichiarato della riforma, introdotta a metà anno scolastico, quando noi stavamo frequentando il secondo anno, senza il tempo di preparare docenti e insegnanti, come oramai è abitudine nella scuola, era superare il nozionismo in nome di un esame finalizzato a verificare la padronanza di concetti essenziali senza cercare di capire che cosa potesse connotare tale termine e quale rapporto dovesse essere instaurato tra i concetti essenziali e le nozioni che comunque costituiscono la materia prima di ogni forma di sapere. Molto probabilmente in conseguenza della riforma già dal terzo anno qualche docente iniziò a sperimentare forme diverse di didattica. Ricordo le lezioni in compresenza tra la docente di italiano, la prof.ssa Peretti, e il professore di storia e filosofia, Gian Mario Cazzaniga, organizzate, mi sembra, anche su pressione di alcuni nostri compagni, forse di Daniela. Credo che l’esito della riforma sia stato soltanto un ulteriore abbassamento del livello della nostra istruzione proprio perché la giusta critica al nozionismo (evidenziato da repertori di domande che ho rintracciato attraverso spezzoni di trasmissioni televisive andate in onda nei giorni di approvazione della riforma che andavano dalla richiesta nell’ordine, come le indicava Hegel delle categorie nella Logica, alla richiesta durante l’interrogazione sul Paradiso di Dante di quando era nato Cacciaguida e dell’elenco di tutti i suoi discendenti fino a Dante, di quanti libri si compone il poema Le Argonautiche di Apollonio Rodio e quanti versi comprende, alla esilarante richiesta del nome del cane di Pascoli alla quale un’audace candidata ha avuto il coraggio di rispondere “Ma lei sa come si chiama il gatto di Ungaretti?”) non è stata accompagnata da un processo di ristrutturazione dei programmi finalizzato a cercare di dare corpo ai concetti essenziali che sono un elemento estremamente complesso in quanto richiedono di mettere in relazione le nozioni con la struttura flessibile delle discipline e con il contesto in cui tali concetti vengono utilizzati. I concetti essenziali non esistono in modo autonomo, lo sono in riferimento a processi, ad ambiti di ricerca e di apprendimento che debbono essere esplicitati e tutto questo non è mai avvenuto nella scuola se non su iniziativa di volenterosi insegnanti. E questa è una storia che è andata avanti per anni riproponendo lo stesso tema con nomi diversi, dai nodi concettuali, ai nuclei fondanti fino allo zoccolo comune di conoscenze e competenze della riforma francese e alla scuola delle competenze che sta dilagando nella letteratura e nella normativa scolastica italiano. Se però si cerca di scavare si scopre che dietro quei termini ci sono spesso soltanto formule vuote poco utilizzabili didatticamente.
Il nostro esame è stato quello della riforma, con una commissione formata da un presidente, quattro membri esterni e un membro interno, il professor Campione, una sorta di difensore d’ufficio di tutti noi. Come sempre accade, alcuni si sono preparati coscienziosamente, altri hanno affrontato l’esame con una giovanile spavalderia mista a incoscienza. Io ero tra quelli. Gran parte dei pomeriggi li avevo trascorsi nella casa al mare del mio amico Claudio senza però aprire libro. Mi aiutò forse la mia capacità di scrivere qualcosa di sensato scegliendo una traccia che in qualche modo mi aveva portato su un terreno amico, quello della storia. La traccia riguardava una celebre lettera che Antonio Gramsci dal carcere, nel 1937, scrisse al figlio Delio: “Carissimo Delio, mi sento un po’ stanco e non posso scriverti molto. Tu scrivimi sempre e di tutto ciò che ti interessa nella scuola. Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono fra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi, non può non piacerti più di ogni altra cosa. Ma è così? Ti abbraccio. Antonio”. Oltre al tema di italiano mi sembra di ricordare anche l’aiuto di qualche foglietto durante la prova di matematica pervenuto con la complicità del membro interno. Il colloquio fu comunque un disastro. Non ricordo neppure le materie su cui fui interrogato e che non avevo preparato. L’esito fu inevitabilmente il voto minimo.
L’altro elemento, come già detto, che animava le discussioni sul piano didattico era l’utilità o meno del latino. Era una discussione viziata da due pregiudizi, da un lato il mito del latino come strumento per la ginnastica della mente e dall’altro l’inutilità del latino. Il primo pregiudizio, quello del mito del latino come ginnastica della mente, si basa sull’idea che il latino sia una lingua dotata di una sorta di una potente struttura logica interna in grado di trasferire a chi lo studia virtuose capacità di ragionamento. Per questo deve essere insegnata a tutti, almeno nelle scuole destinate a formare la classe dirigente. È evidente che è soltanto un mito per diverse ragioni. Prima di tutto perché tutte le lingue hanno una loro struttura logica che secondo alcuni è talmente profonda da essere unica per tutte le lingue nei suoi tratti essenziali. Nella maggior parte del mondo nascono logici e matematici senza studiare il latino. Se veramente si pensa che la formazione di un pensiero logico sia un limite da superare allora ci si dovrebbe forse chiedere se è utile l’introduzione dello studio della logica, della logica dei predicati, della logica delle proposizioni, della logica formale del Novecento: si affronterebbe così direttamente la lacuna senza la mediazione di uno strumento indiretto e incerto rispetto alla sua efficacia. Ma credo che la questione sia più complessa. Il sapere, infatti, non si riduce alle capacità di ragionamento o meglio le forme di ciò che noi chiamiamo ragionamento sono molte e non sempre facilmente descrivibili. Certamente c’è un sapere che è il prodotto del ragionamento logico deduttivo, il sapere della logica formale, delle geometrie, di gran parte della matematica, ma è solo una parte di ciò che noi chiamiamo ragionamento. C’è poi un sapere che qualcuno ha definito come sapere indiziario, il sapere della storia, della medicina, le conoscenze che servono per esercitare la giustizia, un sapere che si basa sulla probabilità e non sulla certezza e utilizza come strumento la retorica non nella sua forma eristica me in quella aristotelica dell’argomentazione e della ricerca della prova. Anche il sapere che comunemente viene chiamato scientifico rientra in tale forma quando ciò che si cerca non sono ricostruzioni particolari e contingenti ma aspetti generali, teorie che hanno una validità universale o presunta tale. C’è ancora un sapere narrativo che si basa sulla ricerca di senso a partire dalla molteplicità delle esperienze vissute attraverso la costruzione di un orizzonte temporale che si basa sulla selezione di fatti, di esperienze con lo scopo di individuare una catena ordinata in ciò che abbiamo di fronte, un sapere complementare al sapere paradigmatico proprio del sapere logico deduttivo e del sapere indiziario. Corollario del sapere narrativo è il sapere dell’immaginario, la capacità di vedere e disegnare ciò che ancora non c’è, fondamentale sia per la produzione artistica e letteraria sia per la scienza che deve elaborare ipotesi da trasformare poi in teorie. Ancora c’è un sapere emotivo finalizzato alla conoscenza del proprio mondo interiore, delle emozioni, delle passioni che ci sostengono e ci permettono di vivere ed empaticamente del mondo dell’altro mediante capacità di ascolto. C’è infine un sapere pratico, la capacità di utilizzare materiali e strumenti teorici per realizzare ciò che individualmente o collettivamente sogniamo, immaginiamo, progettiamo: un pittore per essere tale deve saper tradurre le proprie immagini mentali in quadri, un architetto in edifici, ponti, giardini. E tutti questi saperi si intrecciano, si sostengono a vicenda. È il latino allora la soluzione dei deficit della scuola? Io credo innanzi tutto che la cultura scolastica soffra di un deficit di cultura scientifica che non vuol dire scarsa conoscenza della scienza (forse c’è anche questo) ma della natura della conoscenza scientifica. E la conoscenza scientifica è data da un intreccio tra le varie forme di sapere, compresa la conoscenza della sua storia e quindi della sua identità. In secondo luogo, è debole nella scuola il lavoro sul sapere emotivo, sul sapere dell’immaginario e sul sapere partico. Chi invece si schierava contro il latino, e mi sembra che questo argomento fosse molto diffuso anche nella nostra classe, lo faceva in nome della sua inutilità prendendo però a riferimento un concetto ristretto di utilità, un concetto che prende in considerazione solo l’aspetto pratico e immediato. Che cosa è utile per la formazione di un adolescente è cosa ben diversa da che cosa è utile per riparare una bicicletta che non funziona. I tempi da prendere in considerazione per valutare l’utilità di uno strumento formativo sono molto più lunghi e le variabili quasi infinite. Il concetto di utilità inteso nella sua accezione più ristretta non può essere utilizzato per valutare il ruolo dell’insegnamento del latino nella scuola italiana. Il latino svolge essenzialmente due funzioni, una quella di elemento identitario, di elemento che connota la nostra cultura e l’altra quella di strumento indispensabile per lo studio della cultura antica europea. Tenendo presenti questi due piani, si può affrontare il discorso del ruolo e dello spazio del latino nella scuola. E sul piano dell’identità dobbiamo ancora distinguere tra identità culturale e identità di status. Talvolta la difesa del latino è la difesa di coloro che hanno fatto studi classici e quindi di quel gruppo sociale che in qualche modo crede di potersi distinguere grazie all’aver studiato il latino dal resto della popolazione. Non è questa l’identità di cui parlo, ma l’identità di una cultura sovranazionale che ha svolto un ruolo fondamentale, positivo e negativo, nello sviluppo dell’umanità, una cultura che oggi deve affrontare il problema della debolezza di una cultura europea condivisa e del confronto con altre culture. In quegli anni del nostro liceo prevalse la tesi dell’inutilità e praticamente il latino quasi sparì negli ultimi anni. Alla luce di ciò forse sarebbe utile rivedere lo spazio e le modalità con cui insegnare il latino nella scuola e rivedere anche la legge di liberalizzazione degli accessi all’università perché difficilmente è possibile recuperare lo studio del latino e forse anche del greco se si decide di affrontare un certo tipo di studi. Anche senza ritornare alla chiusura degli accessi forse basterebbe introdurre l’obbligo di sostenere esami di lingua e letteratura latina e nei casi necessari di lingua e letteratura greca per poter studiare alcune epoche o alcuni argomenti. Ho sentito il peso delle mie lacune per l’assenza di una buona preparazione liceale nel momento in cui mi sono interessato allo studio di alcuni autori non solo antichi ma anche contemporanei. Per questo considero demagogica quella riforma. Ho dovuto faticare molto per colmare i vuoti lasciati dal liceo e dal mio modo di affrontarlo.
Per quanto riguarda i nostri insegnanti, devo dire che alcuni sono spariti totalmente dalla memoria, altri li ricordo perché qualcuno me li ricorda, me ne parla, solo pochi sono rimasti impressi in modo netto: sono quegli insegnanti che hanno lasciato una traccia, che in un modo o nell’altro hanno contribuito a farmi trovare una mia via per affrontare la vita. In qualche caso sono cambiati i sentimenti rispetto al loro ruolo per noi, talvolta migliorando la loro immagine che io avevo, quasi mai, nel mio caso, in senso negativo. Per questi insegnanti è presente una forma di riconoscenza a posteriori nei riguardi di una figura da cui si è appreso ciò che ha dato i suoi frutti. Questi insegnanti sono i docenti di storia e filosofia, Gian Mario Cazzaniga, Remo Bodei, Vittorio Campione, una docente di italiano Alessandra Peretti, allora moglie di Adriano Sofri, e in forma complessa e contraddittoria un docente di matematica, il terribile professor Angelo Mazzari.
Mi ricordo con tenerezza delle difficoltà di Remo Bodei, destinato a diventare uno dei più grandi filosofi italiani, allora supplente appena tornato da una borsa di studio dalla Germania e in procinto di diventare docente alla Normale, ad affrontare l’”allegro disordine” della nostra classe ignara di chi aveva di fronte; riuscimmo addirittura a fargli inaugurare una delle tante configurazioni variabili della nostra aula con il taglio della cimosa. Ma anche l’insegnamento di Gian Mario Cazzaniga, anche lui diventato poi docente universitario di filosofia, non lasciava indifferente; con il suo particolare accento e tono di voce, riusciva a catturare almeno la mia attenzione e a eserciate una sorta di fascino carismatico, anche se non riusciva a stimolare la mia voglia di studiare. Infine, Vittorio Campione, futuro consigliere del ministro Luigi Berlinguer, il docente che ha definitivamente influito sulla mia scelta degli studi universitari e sulle mie scelte politiche. Grazie ad alcuni colloqui con lui decisi di iscrivermi a scienze politiche, abbandonata poi per filosofia perché non avevo chiaro in che cosa consisteva lo studio del diritto privato, e di iscrivermi al PCI di Enrico Berlinguer, la figura politica che ancora oggi costituisce un mio punto di riferimento sia per il suo stile di far politica oramai scomparso, sia per le sue due intuizioni che ancora oggi valide, la necessità del compromesso per affrontare i grandi problemi, i momenti critici di una società e l’austerità come modello non di tipo morale ma ideale in un mondo sull’orlo di un abisso per la mancanza di risorse. La mia esperienza nel PCI non è durata a lungo pur avendomi aiutato a costruire un mio orizzonte politico attraverso il quale guardare il presente. La sezione universitaria alla quale mi ero iscritto era stracolma di personaggi illustri, da Massimo d’Alema, a Nicola Badaloni, a Marco Maestro, a Gian Battista Gerace, a Riccardo Di Donato, ma era anche pervasa da una sorta di spirito elitario tipico degli intellettuali di sinistra. certo non in tutti ma in particolare in Massimo D’Alema, verso il quale avvertivo un’istintiva antipatia pur riconoscendone le doti intellettuali e politiche, e in alcune altre figure minori con un ruolo però importante e ciò mi teneva lontano; misuravo anche la distanza tra loro e la sezione frequentata da mio padre, costituita da operai, casalinghe, insegnanti che si davano da fare per organizzare feste e discutevano più concretamente dei problemi di ogni giorno. Inoltre, ho scoperto che non mi trovavo a mio agio in un partito, nel sentirmi chiamare compagno. Una sorta di spirito anarchico individualista e una tendenziale preferenza per atteggiamenti politici liberal democratici mi hanno poi portato ad uscire dal PCI e credo che il clima della nostra classe in qualche modo abbia giocato un ruolo in queta scelta.
Per quanto riguarda il professor Angelo Mazzari, figlio di Alessandro Mazzari, autore di un manuale, Complementi di Matematica ad uso dei licei scientifici ancor oggi venduto nelle librerie di vecchi libri dotati di un qualche valore documentario, il mio ricordo e il modo con cui oggi lo vedo sono cambiati in positivo. Era un insegnante molto severo e circolava negli anni del liceo la voce che fosse fascista. Molto probabilmente non era vero. Era il clima che divideva secondo una logica binaria, bianco o nero, con me o contro di me e chi non era con te anche se non era poi contro era quasi sempre era un fascista. Visto con gli occhi di oggi mi sembra di intravedere in lui una qualità, quella dell’equità intesa come dare a ciascuno secondo i suoi meriti e trattare tutti allo stesso modo. Certo è una forma di ciò che chiamiamo equità e nella scuola è altrettanto importante anche l’equità intesa come dare a ciascuno sulla base dei suoi bisogni tenendo conto della sua situazione iniziale. Sono due forme di equità che debbono trovare un equilibrio altrimenti o si cade nel degrado culturale o si perpetuano differenze legate alle differenze sociali e non al merito. Il professor Mazzari, secondo me, comunque utilizzava correttamente almeno la prima forma di equità e ciò non è secondario. Inoltre, percepivo in lui, ma non sono in grado di dire se questa mia percezione fosse vera, una grande competenza in matematica e una sorta di amore per tale materia. Forse il fatto che dalla nostra classe siano uscite diverse matematiche e una di loro sia diventata docente ordinaria di tale disciplina all’Università di Pisa può deporre a favore della presenza di tale competenza.
Per quanto mi riguarda, pur essendo stato un pessimo studente, la matematica ha sempre esercitato su di me un suo fascino anche se legato a questioni che oggi definirei filosofiche. Mi ricordo in seconda, quando studiavamo geometria su un piccolo manuale color marrone che in sintesi riproduceva la struttura degli Elementi di Euclide con le sue definizioni, i suoi postulati e i suoi assiomi che Euclide chiamava nozioni comuni. Proprio le definizioni mi mettevano in crisi, quelle definizioni che introducevano elementi che non potevano avere alcun posto nella realtà (l’adimensionalità del punto, l’unidimensionalità della linea e così via) e sulla base di esse però veniva costruito tutto l’edificio della geometria. Non ne ho mai parlato con nessuno perché in fondo ciò che a scuola dovevamo fare era applicare le regole, ripetere dimostrazioni, come fanno del resto alcuni matematici che non si pongono affatto il problema della natura dei concetti che usano. Mi stupì poi, leggendo un breve romanzo dall’autore austriaco Robert Musil, il suo primo romanzo, I turbamenti del giovane Törless scoprire che problemi del genere e situazioni come le mie erano possibili e degne di interesse. Certo il problema del giovane Törless, era di un livello molto più alto del mio e riguardava i numeri immaginari:
«[…] Durante la lezione di matematica, a Törless venne all’improvviso un’idea. Già negli ultimi giorni aveva seguito con particolare interesse le lezioni, pensando: “Se tutto questo costituisce davvero la preparazione alla vita, come dicono, dovrà pur trovarvisi almeno un accenno di ciò che io vado cercando”.
E aveva pensato proprio alla matematica, ancora preso da quei pensieri sull’infinito. E infatti, nel bel mezzo della lezione, aveva avuto una sorta di illuminazione. Appena finita l’ora andò a sedersi accanto a Beinberg, che era l’unico con il quale potesse parlare di cose simili.
“Ehi, tu l’hai capita bene poco fa?”
“Che cosa?”
“La storia dei numeri immaginari”
“Sì. Non è poi così difficile. Bisogna solo ricordare che l’unità di calcolo è data dalla radice quadrata di meno uno.”
“Ma è proprio questo il punto. Quella radice non esiste. Qualsiasi numero, che sia negativo o positivo, elevato al quadrato dà un valore positivo. Per cui non può esserci un numero reale che sia la radice quadrata di qualcosa di negativo.”
“Giustissimo; ma perché non si dovrebbe tentare ugualmente di applicare l’operazione di estrazione della radice quadrata anche a un numero negativo? Naturalmente questo non potrà dare alcun valore reale, e infatti anche per questo il risultato è detto immaginario. E’ come se si dicesse: qui di solito si siede sempre un tale, perciò mettiamogli anche oggi una seggiola; e se anche fosse morto nel frattempo, facciamo come se venisse.”
“Ma come si può se si sa con certezza, con matematica certezza, che è impossibile?”
“Appunto, si fa come se fosse possibile. Un qualche risultato ne uscirà. In fondo, con i numeri irrazionali non è la stessa cosa? Una divisione che non finisce mai, una frazione il cui valore non risulterà mai e poi mai per quanto tu continui a calcolare. E che mi dici, poi, del fatto che due parallele si devono incontrare all’infinito? Io credo che a essere troppo scrupolosi la matematica finirebbe per non esistere più.”
“Questo è vero. Se uno se l’immagina così, è davvero bizzarra. Ma la cosa singolare è proprio che ciononostante con quei valori immaginari o comunque impossibili si possano fare calcoli perfettamente reali e raggiungere alla fine un risultato concreto!”
“Beh, per arrivare a questo i fattori immaginari devono elidersi a vicenda durante il calcolo.”
“Sì, sì, tutto quello che dici lo so anch’io. Ma pure non resta un che di curioso in tutta la faccenda? Come posso spiegarmi? Prova a pensarla così: in un calcolo del genere, tu hai all’inizio dei numeri solidissimi, in grado di quantificare metri, pesi o qualsiasi altro oggetto concreto, comunque numeri reali. Alla fine del calcolo, lo stesso. Ma l’inizio e la fine sono tenuti insieme da qualcosa che non c’è. Non è un po’ come un ponte che consti soltanto dei piloni iniziali e finali, e sul quale tuttavia si cammina sicuri come se fosse intero? Un calcolo del genere mi dà il capogiro; come se un pezzo del cammino andasse Dio sa dove. Ma la cosa davvero inquietante per me è la forza insita in questi calcoli, una forza capace di sorreggerti fino a farti arrivare felicemente dall’altra parte.”
Beineberg ghignò: “Parli già quasi come il prete: “…Tu vedi una mela- e sono le oscillazioni della luce, è l’occhio eccetera -, e allora allunghi la mano per rubarla- e sono i muscoli e i nervi che la fanno muovere. Ma tra l’una e l’altra azione vi è qualcosa che fa nascere l’una dall’altra- ed è l’anima immortale, che qui ha peccato… Già già, nessuna delle vostre azioni è spiegabile senza l’anima, la quale vi suona come foste tasti di un pianoforte…” ”. E imitò la cadenza con la quale il sacerdote era solito raccontare questa antica parabola. “Peraltro, tutta questa storia non mi interessa un gran che.”
“Io invece pensavo che dovesse interessarti, e molto. Perlomeno, io non ho potuto non pensare subito a te, perché questo- se è davvero così inspiegabile- sarebbe quasi una conferma di quello a cui credi tu.”
“Perché non dovrebb’essere inspiegabile? Ritengo possibilissimo che gli inventori della matematica si siano fatti lo sgambetto da soli. Infatti, ciò che sta al di là del nostro intelletto non potrebbe essersi voluto prendere gioco di quello stesso intelletto? Ma in queste cose io non mi ci metto, non portano a un bel nulla. […]»
Törless rimane talmente affascinato dalla lezione del suo giovane docente di matematica, al punto da chiedergli di essere ricevuto per ottenere ulteriori delucidazioni. Durante il colloquio il docente, riferendosi ad un libro di Kant, dice a Törless:
«E se lei potesse coglierne fino in fondo il senso s’imbatterebbe di continuo in simili concetti necessari al ragionamento, che determinano tutto pur non essendo, loro, senz’altro comprensibili. È qualcosa di molto simile a quello che succede in matematica».
Törless va via insoddisfatto della risposta del professore, acquista e legge il testo del filosofo Kant, ma non comprende nulla. Da lì nasce il turbamento indotto da quelli che sono i misteri della matematica, in quanto il giovane cerca di trovare in essa un riscontro naturale. Infatti, in una successiva discussione con l’amico Beineberg afferma:
«“ Ma non mi interessa niente, Beineberg! Tu non mi capisci. Non hai neppure idea di quello che mi interessa. Se mi tormenta la matematica e se mi…” ma qui rifletté in fretta e non disse nulla di Basini, “se mi tormenta la matematica è perché dietro ci cerco qualcosa che è molto diverso da quel che cerchi tu: niente di soprannaturale, proprio il naturale cerco, io… hai capito?”».
Durante il secondo anno mi sembra di ricordare che il professore di matematica fosse un certo Morganti, un uomo piccolo ma simpatico, che affrontava la materia soprattutto da un punto di vista pratico, un po’ come Beineberg. Logicamente non ho mai neppure pensato di porre a lui questioni del genere, ma non le ho dimenticate. Quando mi sono trovato all’università le ho riaffrontate insieme a quelle legata al rapporto tra logica, matematica e filosofia, al concetto di numero, ai problemi dell’infinito, della numerabilità dell’infinito, dei fondamenti della matematica. Ancora una volta mi sono dovuto scontrare con le lacune eredità del liceo, il non aver affrontato quel poco di analisi che si fa negli ultimi anni, le derivate, gli integrali. Anche per questo, per il suo essere ai miei occhi un profondo conoscitore della matematica, l’immagine del professor Mazzari è cambiata, mi ha offerto delle occasioni che io ho sprecato.
Evidentemente l’esperienza della classe G del Liceo Dini di Pisa anni 1967 – 72 ha avuto su di me un ruolo importante se poi ho deciso di rimanere nella scuola e ci sono rimasto quasi per quaranta anni, prima come docente e poi nei secondi venti anni come preside. Sono stato in tutti gli ordini e gradi di scuola, dalle scuole dell’infanzia, alle scuole elementari, alle scuole medie, agli istituti professionali e tecnici, ai licei scientifici e classici. Mi sono occupato direttamente di disabilità, di bisogni educativi speciali, di inclusione degli alunni stranieri dal punto di vista organizzativo e per la formazione dei docenti. Sono contento di aver concluso questa lunga esperienza ma sono anche soddisfatto di aver fatto questo lungo e variegato percorso professionale che mi ha dato molto.
Nel mio ruolo di preside sono stato talvolta accusato da alcuni docenti di esser troppo schierato dalla parte di studenti. Lo si può comprendere visto il mio passato di studente e comunque ho sempre accettato e condiviso questa percezione perché penso che la scuola sia prima di tutto per gli studenti, il che non vuol dire che essi abbiano sempre ragione o che si debbano accettare acriticamente i loro atteggiamenti, il loro comportamento, i loro risultati. Il mio stare dalla parte di studenti è il frutto anche dei ricordi del mio essere stato studente, il riconoscere la loro centralità, il loro diritto ad essere ascoltati, ad essere presi sul serio nel momento in cui manifestano nei modi più disparati i loro bisogni, anche quando si proteggono con delle robuste corazze che vanno dall’indifferenza, alla contrapposizione netta nei confronti della scuola. Compito dell’istituzione scolastica, oltre a quello di fornire una solida preparazione di base, è intaccare questa corazza che non è sempre la stessa, che si manifesta nei modi più disparati. Anche molti studenti che apparentemente si mostrano diligenti e studiosi si difendono dietro una corazza altrettanto spessa di quella di coloro che si contrappongono, si ribellano, non accettano le regole. Lo studio fine a se stesso, l’apprendimento non accompagnato da curiosità, da motivazione, da coinvolgimento personale non costituisce un obiettivo formativo raggiunto perché non infrange la corazza protettiva come non la infrange l’atteggiamento esclusivamente punitivo. La scuola deve far nascere la voglia di conoscere, la curiosità, il piacere legato al mutamento delle proprie idee quando non funzionano, non riescono ad entrare in contatto con la realtà e non riescono a produrre utopie realistiche, quando sono refrattarie al confronto, al dialogo, e ostacolano la voglia di superare i propri limiti e la percezione delle condizioni che rendono possibile la condivisione dello stesso spazio nello stesso tempo, l’accettazione del senso di quel limite che invece non deve essere superato ma riconosciuto perché costituisce un elemento fondamentale per la formazione di un individuo e della possibilità di condividere uno spazio e un tempo comuni, accettazione altrettanto importante della spinta a superare quei limiti che invece sono semplicemente ostacoli. La sfida per la scuola è in gran parte legata a questa sorta di contraddizione, spingere a superare alcuni limiti e spingere ad accettarne altri laddove i confini tra le due tipologie non sono così netti e visibili, ma la contraddizione è anche un elemento vitale e dobbiamo saper convivere con esse. Stare dalla parte degli studenti vuol dire saper leggere dietro le corazze di cui si dotano i ragazzi un bisogno che credo sia molto più diffuso di quanto spesso noi percepiamo. Un bisogno che a mio parere è presente in tutti i giovani anche se talvolta non riescono ad esprimerlo chiaramente o lo vivono in modo confuso, mischiato ad ansie, incertezze, paure che la nostra società non aiuta ad affrontare. Il bisogno di un riferimento e di una guida per iniziare un proprio percorso autonomo. Stare dalla parte degli studenti vuol dire tentare di dare una risposta a questo bisogno che consiste anche nella richiesta di punti di riferimento che aiutino a individuare i limiti o meglio i confini e i luoghi in cui questi confini possono diventare permeabili nel rispetto degli altri e della propria esistenza.
Il ruolo centrale per fornire queste riposte è giocato dai docenti, dalla loro capacità di smuovere le corazze. Noi della classe sezione G ne abbiamo incontrati alcuni. Oggi forse è molto più difficile riuscire ad avere questo ruolo. La scuola ha perso gran parte del suo peso culturale, mancano gli strumenti in una società in cui la tecnologia sta diventando sempre più capillare. Le famiglie si rapportano alla scuola come ad una sorta di negozio in cui basta pagare per avere il prodotto voluto. Purtroppo, non si capisce che la scuola non è un servizio a domanda ma richiede condivisione e partecipazione per raggiungere dei risultati. Oggi le famiglie che non sono soddisfatte aprono contenziosi assurdi, noi affrontavamo direttamente il confronto con la scuola e con i docenti, senza la mediazione delle famiglie, e quando intervenivano non era certo per difendere noi ma per sostenere la scuola. Nonostante tutto ciò la scuola rimane l’unica possibilità per dare risposte ai bisogni formativi dei giovani e credo che la nostra esperienza di classe liceale lo confermi.
Ritornando alle foto di classe dalle quali tutto il discorso è partito, possiamo chiederci che cosa ci dicono. Credo siano un po’ come le tracce utili per la ricostruzione di quel sapere indiziario che non arriverà mai ad acquisire uno statuto oggettivo, un “è stato così”, anche perché non sono tracce neutre ma intrise di emozioni, stati d’animo, ideali, passioni, sentimenti. Sono esche per la memoria e per il presente, per conoscere se stessi come siamo a partire “da quello stato embrionale” che la foto mostra, e per ri-conoscere chi ha avuto un ruolo nel determinare quel che siamo oggi. Una fotografia in sé non può fare molto di più che lanciare queste esche ma noi possiamo abboccare e lasciarci trascinare dalla memoria non per arrivare non in un punto preciso ma semplicemente per girovagare in cerca di quei legami che ancora possono dare qualcosa.
massimocec novembre 2020
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Cari amici, compagni di classe, scrivo queste note perché dopo essere stato molto incerto se venire al pranzo del 14 alla fine ho deciso di non venire. Il motivo, come ben potete immaginare, è la mia paura di questo dilagare del contagio. Qui a Massa ho molti amici che si sono presi il virus e qualcuno di loro sta anche abbastanza male. Dopo una timida apertura a Maggio legata anche alla speranza di passare un’estate più tranquilla, è ritornata questa paura che mi spinge ad isolarmi. Avevo anche pensato di fare il presidente degli esami di maturità proprio per rivivere un po’ quell’atmosfera nel 50º anno dal nostro esame, ma dopo che è stato tolto l’obbligo della mascherina ho rinunciato.
Anche quello che è successo a Sandro ha rafforzato questa mia paura perché ha rimesso in primo piano la nostra fragilità, la fragilità di persone oramai settantenni. Ammiro lo spirito con cui Sandro ha affrontato la sua situazione, un atteggiamento che forse io non sarei stato capace di avere. Del resto è lo spirito che lo ha sempre contraddistinto.
Con lui ho sempre avuto un rapporto bivalente. Da un lato lo ammiravo, la sua amicizia era una sorta di sostegno per le mie incertezze, dall’altro lo odiavo perché non tralasciava mai l’occasione di prendermi in giro. Lo sentivo e lo sento comunque come una colonna della classe con le sue battute, la sua ironia, il suo modo buffo di parlare e di muoverti, il suo vespino azzurro. Doti che sono rimaste intatte e che ancora oggi mi spingono ad aspettare con curiosità e a leggere con piacere i suoi interventi nella chat della classe. Mi ricordo ancora bene dell’ultima interrogazione che abbiamo fatto con il Mazzari, l’interrogazione per l’ammissione all’esame di maturità. Era tutto l’anno che il Mazzari ci dava la caccia, noi eravamo riusciti a sfuggire ad ogni suo tentativo di catturarci. Quella volta però non fu possibile, ci prese forse in un momento di distrazione, un momento in cui non ci eravamo accorti del pericolo. Fu un’interrogazione a senso unico nel senso che solo il Mazzari parlava. Ad un certo punto, non so come e perché, il Mazzari tirò fuori una domanda banale, di fisica, che cos’è spazio fratto tempo. Uno di noi, non ricordo chi, ma potremmo essere stati entrambi vista la nostra irresponsabilità culturale di quel periodo nel senso che proprio non ci sentivamo responsabili delle sciocchezze che tiravamo fuori dalle nostre bocche, lanciò la sua fulminante risposta, fulminante nel senso letterale del termine: la luce. Credo che fu in quel momento che il Mazzari decise di ammetterci, per non essere costretto più a sentire cose terrificanti come quella. Gettarci fuori dalla scuola era forse l’unica alternativa allo strangolamento sul posto con tutte le conseguenze di una simile azione.
Ricordo ancora bene l’esame di maturità ma non per l’ansia che in genere accompagna questo rito iniziatico della vita di gran parte degli adolescenti ma per l’assoluto disinteresse con cui l’ho affrontato. Solo in pochi momenti ricordo di aver provato ansia, forse solo il giorno prima delle prove. Passavano i giorni senza aprire libro. Mi ha aiutato molto il titolo del tema di italiano perché ho sempre avuto un debole per la storia. Ricordo che in terza media la sera leggevo il manuale di storia come si leggeva un romanzo e quella frase di Gramsci rivolta al figlio era un invito ad esplorare, nonostante le mie scarse basi culturali, i motivi di una passione del genere. Del compito di matematica non ricordo niente e dell’orale ricordo soltanto che ad un certo punto un commissario o forse il presidente mi chiese se conoscevo qualcuno che leggesse bene le poesie. Io risposi la prima cosa che mi venne in mente: Alberto Lupo. Non ricordo quale fu la reazione della commissione ma la immagino.
Non avevo compreso bene che quella era la conclusione di una fase della vita, una fase importante in cui forse avevamo imparato soprattutto a rapportarci con gli altri, a confrontarci, a riconoscerli e a riconoscere noi stessi. Non avevo ben compreso che quella era una fase conclusiva perché con molti dei compagni della classe i rapporti sono continuati anche dopo la conclusione del liceo. Infatti, come premio per l’esito dell’esame, forse per me più per lo scampato pericolo che per il successo ottenuto nelle prove di maturità, organizzammo due gite, una con Alessandro Volk e Claudio Comite sul lago di Garda in treno e in tenda al seguito, credo, di un cugino di Alessandro che suonava nei locali notturni di una delle località turistiche sul lago di Garda, e una con la mia mini in Calabria con Massimo Giovannelli, Valerio e Claudio Comite. Non so come riuscimmo a far entrare in quella macchinetta, oltre a noi quattro, anche tenda, sacchi a pelo, bagagli e un po’ di viveri, ma ci riuscimmo. Forse quelle due gite furono il vero epilogo dell’esperienza liceale, un epilogo spensierato, inconsapevole come spesso avviene quando si è giovani.
Dopo quell’estate sono rimasti solo alcuni rapporti individuali con alcuni compagni, con Lucia Franchini, con Claudio Comite, con Marco Bagliacca, con Roberto Pancaldi, rapporti che però erano privi di quella atmosfera di gruppo che si viveva durante il periodo liceale e che dava al ritrovarsi pomeridiano un sapore diverso.
Rivedervi dopo tanti anni a San rossore l’anno passato è stata un’emozione forte. Alcuni volti li ho riconosciuti subito. Altri invece ho stentato a collegarli ai volti che erano rimasti impressi nella mia mente. In particolare, mi ha colpito Maria Grazia, la Benedettini, o meglio, per me, chi si spacciava per la mia vecchia compagna di classe. Ricordavo una capigliatura scura, folta, enorme che sovrastava una bella ragazza alta che per un certo periodo di tempo è stata davanti a me nel banco, una ragazza riservata ma simpatica. Un paio di volte, forse infastidendola, l’ho accompagnata anche quasi fino a casa allungando notevolmente il mio percorso in quanto lei abitava nella zona di San Giusto e io a Porta Piagge. Sono arrivato a casa, entrambe le volte, con un notevole ritardo, dovendo sopportare i rimproveri di mia madre e devo dire anche un po’ affaticato, ma mi piaceva parlare con lei. La ricordavo bene e, forse a causa di quel ricordo nitido, non riuscivo a rivedere nella persona che avevo di fronte e che si era presentata come la Benedettini i tratti di quella ragazza che qualche volta avevo accompagnato verso casa dopo l’uscita della scuola. Non c’era qualcosa che potesse somigliare a una sorta di delusione, a un confronto tra il prima e il dopo, ma piuttosto una sorpresa perché invece altri volti presenti nella memoria si erano fatti riconoscere tranquillamente in quelli che erano lì di fronte a me. Del resto, sono le sorprese che riservano questi tipi di incontri a distanza di anni.
Dopo quell’incontro a San Rossore più volte ho ripensato a quegli anni, a che cosa aveva significato per me, per noi quell’esperienza. Stranamente quando mi capita oggi di ripensare alla classe VG non mi ritornano in mente gli episodi della vita di classe, ma piuttosto i momenti della vita fuori e intorno alla classe come se questi fossero i momenti più importanti che la vita di classe aveva innescato. Ho ripensato spesso al momento in cui ho scoperto la passione per la montagna grazie a Marco Bagliacca e a Claudio Comite che in una domenica d’inverno, armato solo di scarponi militari e di blue-jeans, mi hanno portato sulla cima innevata della Pania e poi, non contenti, mi hanno fatto percorrere la cresta che porta al Pizzo delle Saette. Anche in quel caso, come per l’esame di maturità, non mi sono reso conto del pericolo che stava correndo non sapendo come si va in montagna, senza attrezzatura, con la neve e il ghiaccio. Certo avrei potuto scoprire mia passione per la montagna in modo meno traumatico ma del resto, chi voleva seguire Marco, non poteva sperare in una situazione diversa. Marco ha sempre avuto una certa insofferenza per ciò che è un limite. Noi avevamo i vespini e andavamo in giro per i dintorni di Pisa e lui andava con il lambrettino in Calabria, noi siamo passati alla lambretta e alle vespe 125 o tutt’al più alla Guzzi Stornello e lui aveva la Guzzi V7, noi avevamo le prime esperienze con le ragazze, lui aveva già una moglie e una figlia, cosa potevo aspettarmi?
Questo esser sempre oltre esercitava in me contemporaneamente una sorta di attrazione e di repulsione. La distinzione tra i due stati d’animo non era netta e molto spesso ciò che producevano questi continui superamenti del limite era una sorta di oscillazione tra due poli, un’oscillazione tra l’ammirazione e la difficoltà comprendere il perché degli eccessi. Un’oscillazione che mi sembrava di intuire anche nel mio grande amico Valerio, compagno di tante avventure scolastiche, pomeridiane ed estive, un’amicizia che mi ha lasciato in eredità un cane che ha vissuto a lungo e negli ultimi anni ha condiviso la sua vecchiaia con quella di mio nonno ultranovantenne che accompagnava nelle sue solitarie e lente passeggiate sul viale delle Piagge.
Stranamente di Valerio ora il ricordo più nitido che ho sono le visite, in compagnia spesso di Claudio, nello scantinato del palazzo di Marco, quando Marco era impegnato nelle sue vacanze estive in non so quali luoghi, molto probabilmente dello stesso tipo delle vacanze attuali alle Eolie, uno scantinato invaso dall’acqua putrida che dovevamo attraversare percorrendo instabili tavole di legno, visite finalizzate a ripulire le gabbie e a dar da mangiare agli uccelli che Marco teneva al buio in quello scantinato per non so quali motivi legati alla caccia.
Questo essere oltre, in modo completamente diverso, e questa oscillazione tra l’ammirazione e l’incomprensione l’ho vissuta anche nei confronti di Daniela e Franco. Ho un ricordo che non riesco a collocare bene nel tempo, il ricordo di una sorta di festa organizzata in una casa, mi sembra sulle colline intorno a Pisa, una casa dove Daniela e Franco avevano deciso di vivere isolandosi dal resto del mondo, coltivando, per quel che ricordo, un orto, un’esperienza radicalmente alternativa coerente con le loro scelte di quel momento. Avevo già vissuto questa attrazione per ciò che è radicale quando in terza liceo avevo deciso di andare con loro e con la loro amica, Laura, in alternativa alla gita istituzionale organizzata alla classe, in lambretta a Napoli con le tende. Non è stata un’esperienza semplice perché le scelte radicali non sono state mai per me scelte facili da accettare. L’opposizione drastica fino all’ultimo dei miei genitori, la decisione di partire lo stesso, la paura anche di un’esperienza che per me era totalmente nuova, dormire in tenda, affrontare da soli un mondo che mi appariva qualche modo anche pericoloso costituivano un bel bagaglio di ansia. Eppure l’ho fatto e mi è servito. Non ricordo neppure quando e come si è manifestata la scelta radicale di Franco e Daniela. C’è come un salto nella mia memoria perché il ricordo precedente di Daniela è quello di una festa organizzata a casa sua in prima liceo, una festa tipica degli adolescenti di quel periodo. Era la mia prima festa. Non sapevo ballare ed ero indeciso se andare. Ricordo di quella festa una canzone, La Bambola di Patty Pravo, che mi rimase impressa e ancor oggi quando la sento mi suscita una certa emozione, forse perché mi riporta indietro a quella festa che costituì una sorta di ponte, di passaggio da un mondo ad un altro, dal mondo di una tarda fanciullezza a quello della prima adolescenza. Del resto fino all’estate precedente io portavo i calzoni corti e credo che anche il mio amico Giovannelli, mio compagno di classe e di banco alle medie e anche lui, credo, esordiente ad una festa, portasse i pantaloni corti anche se all’inglese, quegli strani pantaloni che arrivavano al ginocchio. Di quella festa ricordo anche i tentativi inutili di una volenterosa compagna, una certa Pampana, una compagna che poi ha cambiato classe, di insegnarmi a ballare, e infatti non ho mai imparato. E, a proposito di feste, mi ricordo ancora di una festa in maschera a casa di Elena Boffo. Io non ero mai stato ad una festa in maschera dopo i carnevali dell’età infantile. Non sapevo se andare né cosa mettermi. Alla fine trovai una giacca e un panciotto di mio nonno e la sua coppola. Assunsi l’aspetto di un mafioso o quello di un pastore sardo, non so, e andai. Fu divertente.
Ricordo poi il mare, le vacanze estive passate insieme ad alcuni compagni prima, nel periodo iniziale dell’estate, a Marina dove abitavano le sorelle Arata, che per la classe erano un tutt’uno con Marina di Pisa, e poi al bagno Tirrenia, il bagno di Lucia Franchini, che costituiva una sorta di punto di raccolta per i nostri incontri estivi, oltre alla casetta nella pineta del bagno Marta di Claudio Comite.
Quando è iniziata l’esperienza universitaria devo dire che mi sono trovato perso, immerso in uno stato d’animo che rasentava lo sconforto. Mi mancava tutto, mi mancavano l’incontro quotidiano con i compagni, la loro presenza fisica, i rituali tipici delle mattinate scolastiche, la possibilità di vederci il pomeriggio. È cominciato una sorta di percorso di studio solitario che solo grazie all’amicizia con Lucia e al fatto che entrambi abbiamo scelto di fare filosofia si è trasformato, dopo un inizio incerto, in un percorso positivo. Lucia è stata importantissima per me. Abbiamo preparato insieme una grande quantità di esami e tra lo studio della filosofia del diritto di Hegel e quello dell’epistemologia di Popper trovavamo il tempo di discutere di politica, delle nostre esperienze sentimentali, della società che ci circondava e che volevamo diversa. La sua scomparsa ha lasciato in me non solo un vuoto profondo, ma anche una sorta di sensazione di presenza di discorso che è rimasto sospeso e che non può concludersi. La presenza di Lucia era diventata ad un certo punto talmente forte per me che per sopportane il peso nelle condizioni in cui dovevo viverla ho dovuto allontanarmi fisicamente da lei. Quando l’ho rivista dopo tanti anni a San Rossore ho scoperto che avevo tante cose da dirle, tante cose che avrei voluto ascoltare da lei. Non ho fatto in tempo e spesso la notte la rivedo sdraiata, immobile, silenziosa come l’ho vista l’ultima volta. Non riesco a dimenticarla e quel discorso incompiuto, che non può essere portato avanti, mi fa sentire il peso e le condanne che ci riserva la nostra età. Non posso nascondere che l’assenza di Lucia incide sul mio stato d’animo.
Spero possiate capire quindi quanto sarebbe per me importante essere presente al pranzo in ricordo del nostro esame di maturità, non per l’esame in sé ma per ciò che rappresenta per noi, la paura però mi frena. Forse riuscirò a venire dopo pranzo per rivedervi. Scusatemi e perdonate la mia codardia.
massimocec luglio 2022
Caro Massimo,
Ho letto con molto piacere le tue considerazioni stimolate dall’aver rivisto ed osservato dopo tanti anni le nostre vecchie foto di classe.
Al tempo del liceo non ci siamo resi conto della grande fortuna che abbiamo avuto. Un gruppo di ragazzi messi insieme casualmente, o forse come scarto delle altre sezioni più nobili, alla fine è risultato un gruppo coeso, forse proprio perché estremamente etereogeneo, che è riuscito a crescere moltissimo, nonostante le premesse non fossero le migliori. Abbiamo avuto dei bravi docenti e, la cosa più importante molto diversi fra loro. Alcuni pessimi, autoritari e quasi pedofili come il prete di italiano e latino; altri che non sapevano come insegnare ed hanno imparato ad insegnare nell'”allegro disordine” che caratterizzava la nostra classe; altri ancora, forse più timorosi come il Mazzari, che volevano a tutti costi insegnarci e per farlo si rifugiavano dietro la severità trattando tutti sempre allo stesso modo e dando puntigliosamente a ciascuno esattamente i suoi meriti oggettivi. Non è forse il segreto per far funzionare bene una popolazione la etereogenità? in questo caso una popolazione di studenti e di insegnanti?
In biologia nella gestione degli ecosistemi è certamente così.
Ti ringrazio, quello che hai scritto ha avuto su di me lo stesso effetto che hanno avuto su di te le foto. Io da molti anni tengo le nostre foto al liceo come salvaschermo sul computer, sia al lavoro che a casa e accendo sempre il computer, anche se non devo usarlo. Quando apparivano le nostre foto del liceo mi sono sempre “fermato” e poi quando la foto veniva sostituita da un’altra, ripartivo sempre “più contento” senza neppure sapere il perché fino in fondo. E’ il mio modo per dirti che ti voglio bene
Grazie Massimo per le tue riflessioni molto profonde che ho letto tutte d’un fiato . Rivelano una persona molto sensibile e dotata di una capacità di scrittura critica non comune . Grazie
Che dire? per me quei ricordi non sono così lontani, anzi, sono ancora vivissimi come se il tutto si fosse svolto solo ieri. Condivido pienamente quanto da te riflesso sul ruolo di alcuni insegnanti in quello che sarebbe stato il nostro “sentire” di oggi, la nostra formazione culturale e sociale e forse anche politica. C’è da dire che le cose si capiscono sempre “dopo”, perchè al tempo lo spirito era quello goliardico che portava a fregarsene di tutto e voler buttare quasi sempre tutto quanto in caciara. Per quanto riguarda il prof. Mazzari, siccome io l’ho avuto anche dopo, all’Università come assistente, ti posso confermare la sua competenza in matematica, e ti confesso che anche ai tempi delle scuola, se io ho capito qualcosa in questa materia, lo devo alle sue spiegazioni, che nonostante il suo carattere “fascista” come lo definivamo noi, sono sempre state chiarissime, e per me coinvolgenti. E’ riuscito nel farmi piacere questa materia che invece di solito è molto arida. Al contrario ho sempre odiato la storia, cosa che invece ho rivalutato in vecchiaia, ed alla quale mi sono appassionato studiando da vecchio. Di una cosa invece sento di dovere “ringraziare” quelle sorte che come dice Alessandro, ci ha mescolati, con le nostre personalità e le nostre individualità, perchè di una cosa sono certo: la G è stato un susseguirsi di classi meravigliose, ed in qualche modo irripetibili, tanto che oggi ancora ci sentiamo, ci ritroviamo e siamo in continua discussione con tantissimo piacere, come fosse allora! Dei tuffi dalla piattaforma invece non mi ricordavo, ma ora che me lo hai scritto, mi ritornano in mente, insieme ad un senso di angoscia che allora non provavo, da perfetto incosciente. Un abbraccio (anche se col Covid non si può) e speriamo di potersi rivedere presto. Ciao
di protagonista di quell’impareggiabile e per certi aspetti meraviglioso gruppo che fu la sezione G di quei tempi che , successivamente , ha sfornato persone e personaggi di ottimo livello . Ringraziarti per questa tua fatica mi sembrerebbe troppo poco . Allora “ risolvi mi “ la questione con un grande abbraccio e , possibilmente , a rivederci insieme a tutti quando ciò sarà possibile .
Caro Massimo, ieri in serata, Roberto P. mi ha inviato l’ indirizzo per poter accedere alle tue pagine, ma essendo per me tardi (non sono cambiata in questo: mi addormento presto così come mi sveglio altrettanto presto) ho lasciato a stamani la lettura delle tue riflessioni. Come prima cosa ho dovuto perdermi in nozioni legislative per inviare una email all’INPS di Pisa nella difesa dei miei contributi assicurativi e l’attesa della prima mensilità della pensione di vecchiaia e finalmente libera, con grande curiosità ho cominciato a leggerti.
Non ci poteva essere migliore ricompensa alle mie “fatiche” precedenti!
Ho condiviso con te, passo per passo, la tua colta e nel contempo personale visione dell’iniziale e casuale incontro e del passato comune, dandomi l’opportunità di comprendere più chiaramente ciò che nel presente ci ha dato il piacere di risentirci, piacere che a volte ho giustificato come melanconia di una vita in gran parte vissuta dove il futuro può ormai essere solo una scoperta giorno per giorno, senza quegli spazi che da giovani ci immaginavamo. Ma non è proprio così, anzi tu mi hai fatto comprendere che queste storie collettive mantengono una vitalità individuale a prescindere dalla nostra età e che ora, più di allora, possano essere fonte di riflessioni e intuizioni conoscitive. grazie Massimo