Dialogo tra un vecchio e un giovane

Sono raccolte nelle pagine cui si accede dal link sotto riportato una serie di riflessioni che risalgono agli anni Ottanta e Novanta, anni in cui potevo considerami un giovane laureato e poi un giovane insegnante. Le avevo raccolte in alcuni quaderni un po’ alla rinfusa. I temi affrontati erano i più disparati. Dalla politica, alla filosofia, alla letteratura, alle situazioni esistenziali personali, all’arte.

Scrivere in quel periodo era una sorta di bisogno. Avevo meno di trent’anni e avevo trascorso la mia adolescenza e la mia prima giovinezza tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta in una città come Pisa, città universitaria, epicentro di gran parte delle fasi di scontro politico anche violento di quegli anni.

Non ho mai partecipato attivamente a tali scontri ma ho subito il fascino di personaggi e gruppi politici che li hanno animati. Al liceo ho avuto come docenti di filosofia e storia Fausto Barcella, morto suicida qualche anno dopo il suo insegnamento nella nostra classe, Gian Mario Cazzaniga, Remo Bodei e Vittorio Campione. Sono stato tentato per un certo periodo di entrare nel Centro Karl Marx, una dei gruppi, insieme a Lotta Continua e alla Lega dei comunisti, sorto dal Potere operaio pisano nell’autunno del  ’69 grazie proprio a due dei miei  docenti di filosofia del liceo, Cazzaniga e Campione. Era un gruppo che si definiva leninista e non-spontaneista, a differenza di Lotta continua verso il quale nutrivo una profonda avversione sia per il carattere aggressivo e intollerante sia per quello che a me sembrava una sorta di improvvisazione culturale nell’analisi politica, ma mi frenò soprattutto il carattere marcatamente intellettuale del gruppo, un carattere che mi metteva a disagio perché sentivo la mia preparazione inadeguata e perché, nonostante tutte le dichiarazioni di condivisione ed esaltazione della classe operaia, figlio di un operaio, percepivo un senso di estraneità di fronte a linguaggi e concetti che ritenevo lontani dal soggetto che avrebbe dovuto giocare un ruolo da protagonista nel percorso politico teoricamente elaborato o in corso di elaborazione. Mi iscrissi prima alla Federazione giovanile e poi alla “cellula” universitaria del PCI.  Lo feci quasi per un sentimento di solidarietà nei confronti di mio padre, vecchio comunista e in quel periodo sotto la minaccia di licenziamento da parte della fabbrica in cui lavorava da oltre venti anni.

Ho vissuto nel PCI momenti ed esperienze importanti anche emotive in occasioni delle stragi neofasciste della questura di Milano, di piazza Della Loggia, dell’Italicus. Ricordo una notte passata con molte altri “compagni” nel Giardino Scotto a Pisa, dove si stava svolgendo la festa dell’Unità e dove erano attesi gli Intillimani, per seguire le notizie dal Cile. Era l’11 settembre 1973, il giorno in cui il generale Augusto Pinochet guidò il colpo di stato che pose fine all’esperienza del governo socialista di Salvator Allende. In seguito ho condiviso in modo netto e convinto le principali scelte di Berlinguer, dalla linea dell’austerità al compromesso storico, e mi sono avvicinato a posizioni come quelle di Giorgio Amendola e Luciano Lama. La mia condivisione, soprattutto del compromesso storico, forse era dovuto a non aver bene compreso l’intento di Berlinguer di arrivare attraverso tale strategia ad una sorta di società socialista. Rileggendo le pagine che Scalfari dedica a tale fase  politica nel suo libro La sera andavamo in via Veneto, forse ho scoperto che la mia prospettiva era più vicina a quella di Moro, cioè un’alleanza per riformare lo stato in senso democratico e liberale. Molto più consapevole invece la condivisione delle prospettive legate ai temi morali e a quelli dell’austerità, tanto che quando la strategia del compromesso storico fu abbandonata e sostituita da quella dell’alternativa, iniziai a trovare stimolanti le idee di Ugo La Malfa che ritenevo più coerenti rispetto a quelle tematiche. Ricordo anche il giorno del rapimento di Moro e quello del ritrovamento del suo cadavere, anche questi vissuti insieme ad altri “compagni” con la chiara percezione di condividere con loro uno stato d’animo che comprendeva la pietà per la morte insensata di una persona colpevole di professare idee di utilizzarle per portare avanti una politica non condivisa dai suoi assassini, la paura per un pericolo incombente e minaccioso che paradossalmente occultava, prendendolo a modello, un altro pericolo, quello neofascista, la repulsione per una condotta che stentavo a definire politica e che mi sembrava soltanto e chiaramente criminale. Ho apprezzato il momento in cui il PCI ha deciso di schierarsi nettamente contro il terrorismo di sinistra, oltre naturalmente a quello di destra, superando quelle incomprensibili incertezze che in una prima fase spezzoni del partito avevano manifestato sotto la copertura di ambigue posizioni legate all’idea della presenza in quelle formazioni criminali di “compagni che sbagliano”. Durante tutto il periodo di militanza nel PCI rimase vivo però il mio senso di disagio e in fondo anche di distacco nei confronti del partito e dei suoi riti, anche se affiancato da un sentimento di profonda ammirazione, per i personaggi che mi sono trovato di fronte frequentando la “cellula” universitaria pisana, da Nicola Badaloni, a Massimo D’Alema, Giovanbattista Gerace, Riccardo Di Donato, Marco Maestro, Giuseppe De Felice.

Con la fine degli anni Settanta si era affievolito sempre più il mio legame con il PCI e dopo la morte di Berlinguer non ho più rinnovato la tessera, non riuscendo però a trovare un soggetto politico in grado di prenderne il posto. Sempre più mi sentivo estraneo all’appartenenza a quel partito, al ruolo di “compagno” e soprattutto alle scelte politiche che mi sembravano da un lato poco capaci di affrontare il gigantesco fallimento del socialismo reale e dall’altro non in grado di formulare proposte per affrontare  la nuova realtà sociale e politica che si stava delineando in tutto il mondo occidentale, una realtà in cui gli elementi negativi erano predominanti (dal sempre più aggressivo neoliberismo in Italia mascherato dal socialismo craxiano, alla forza crescente dei gruppi eversivi di destra, alle posizioni suicide dell’estrema sinistra incuranti dei mutamenti in atto, al montante disinteresse per la politica basata sui valori del Buongoverno e dell’etica pubblica da parte di una classe politica sempre più scadente e sempre più legata al tornaconto personale, al dilagante sbraco culturale in nome di un individualismo esasperato e godereccio, concentrato sul mito della ricchezza e del successo personale conseguito senza riguardi nei confronti dell’etica e della dignità personale), ma non vedevo alternative oscillando tra vaghi richiami da parte di forme non ben definite di socialismo liberaldemocratico che non si concretizzavano in alcun soggetto politico e meno che mai dal socialismo craxiano e l’ambientalismo dei verdi. Mi sembrava di percepire una sorta di spazio politico vuoto, uno spazio che in qualche modo collegavo al fallimento del progetto politico del Partito d’azione. Una percezione che mi ha portato ad avvicinarmi incautamente al Partito Repubblicano, verso il quale però ho subito avvertito una profonda distanza legata al suo essere parte di una maggioranza di governo poco interessata ad affrontare i problemi dei più deboli. È stato in quel momento che ho in qualche modo individuato come riferimento politico non un partito ma un giornale, La Repubblica di Eugenio Scalfari, un giornale che avevo criticato nel periodo in cui sono stato iscritto al PCI perché lo ritenevo inutilmente polemico nei confronti delle scelte politiche operate dai dirigenti di quello che consideravo il mio partito e che invece in quel momento di disincanto mi appariva come illuminato, ispirato da un sano atteggiamento  critico, oggettivo. Contemporaneamente ho iniziato ad interessarmi alla storia, riprendendo una mia passione adolescenziale, un interesse che ho coltivato prendendo una seconda laurea durante la quale ho avuto la fortuna di frequentare le lezioni di Chiara Frugoni, grazie alla quale ho scoperto la ricchezza della storia come forma di sapere quando riesce ad uscire dal suo orizzonte politico militare, quando diventa la storia di tutti e di tutto, sulla scia degli storici delle Annales, della microstoria, della storia come sapere indiziario come la definisce Carlo Ginzburg, e ad alimentare una forte curiosità verso l’arte e in particolare verso la pittura.

Ritornando agli anni Settanta, devo dire che se la politica non era riuscita ad attrarmi fino in fondo, avevo trovato però nella filosofia una sorta di valvola di sfogo. Anche in questo caso un ruolo di primo piano era costituito dai personaggi incontrati durante le lezioni universitarie, primo tra tutti Aldo Gargani, ma poi anche Giorgio Colli,  Vittorio Sainati, Silvano Tagliagambe, Alfonso Iacono, Paolo Cristofolini, Sandro Barbera, Giuliano Campioni, oltre logicamente a Nicola Badaloni e Francesco Barone (e del suo allievo Marcello Pera, allora suo assistente), i due punti di riferimento culturalmente e politicamente contrapposti, uno comunista e l’altro liberale, del corso di laurea di filosofia, ma entrambi intimamente conservatori. In particolare mi aveva attratto un angolo dell’immenso spazio occupato dalla storia delle idee, lo spazio occupato dalla cultura austriaca tra la fine Ottocento e i primi decenni del Novecento, lo spazio occupato da Wittgenstein, Musil, Roth, Hofmannsthal, Kraus, Mahler, Carnap, Schlick, Loos, Kokoschka, Schoenberg, Schnitzler, Trakl, Rilke, Popper, Neurath, dal loro modo di sentire e vivere intellettualmente (e non solo) la crisi che la società e la cultura del loro tempo stavano attraversando, dalla ricerca degli strumenti culturali per affrontarla. Mi attraeva anche il senso di novità che circondava questo spazio, un senso di novità sia rispetto al provincialismo idealista crociano sia al marxismo, ma anche una liberazione nei confronti dello specialismo, del tracciamento di confini tra la varie forme di sapere, sulla spinta anche di un confronto complicato, dialettico, contraddittorio con il pensiero di Friedrich Nietzsche, ammirato e insieme rifiutato. Grazie allo studio di questo spazio sociale e culturale si sono aperti per me nuovi interessi che avevano al loro centro il linguaggio e il rapporto tra linguaggio e realtà, la scienza, la natura e il ruolo della scienza, in particolare della fisica, della logica e della matematica, in rapporto alle altre forme di sapere, la narrativa, la poesia, la musica, la pittura, l’architettura, sullo sfondo però di una mia situazione esistenziale precaria, senza lavoro e con poche prospettive di trovarlo, in bilico tra l’amore per la filosofia, con però la consapevolezza che il mondo delle idee e soprattutto il mondo che i cultori professionali delle idee avevano creato per se stessi in fondo non era il mio mondo, e il bisogno di guadagnarsi da vivere, senza un rapporto sentimentale e con un profondo senso di solitudine che talvolta sfociava in crisi di panico, aggravato dalla mancanza di un forte legame con la famiglia ma alleviato dalla presenza di amici che sono rimasti tali fino ad oggi.   Ho cercato di coltivare questi interessi girovagando per l’Italia inseguendo convegni, conferenze, raccogliendo e leggendo tutti i libri che uscivano. Ho anche tentato di entrare alla Normale per seguire il perfezionamento risultando idoneo ma non ammesso. Nel frattempo, spinto dall’urgenza di trovare un lavoro, ho iniziato a rivolgere lo sguardo verso altre direzioni, in particolare la scuola e le biblioteche. Ho seguito dei corsi per bibliotecario e ho partecipato a numerosi concorsi. Ne ricordo uno all’Argentario perché il presidente della commissione era Susanna Agnelli. Ne ho vinto anche uno, a Montecatini, ma non ho mai preso servizio perché contemporaneamente avevo vinto anche i concorsi per la scuola. Devo dire che non sono mai riuscito a interessarmi alle problematiche della biblioteconomia e della gestione della biblioteche. Invece un profondo interesse è nato in me in quel periodo per la linguistica e, in particolare, per la lettura e per la scrittura. Ho scoperto autori come Ferdinand de Saussure, Lev Semënovič Vygotskij, Tullio De Mauro e la storia della lingua italiana, Maria Luisa Altieri Biagi, Raffaele Simone, Noam Chomsky, Umberto Eco e la semiologia, autori che hanno contribuito ad aprire in me sul linguaggio nuovi punti di vista anche  in una prospettiva non solo teorica ma anche pratica, quella dell’insegnamento. Nel frattempo, per sopravvivere, ho sfruttato una risorsa che non ha poi lasciato traccia nelle fasi successive della mia vita. La pallacanestro. Sono stato un mediocre giocatore e un mediocre allenatore, ma in quegli anni mi sono servito della pallacanestro per racimolare qualche soldo facendo l’istruttore. Questa attività non ha lasciato traccia perché c’è sempre stata una sorta di incompatibilità tra me e il mondo dello sport. Per un certo periodo ho anche allenato una squadra femminile di A2 e per farlo ho dovuto seguire i corsi di allenatore per due mesi a Roma all’Acquacetosa. È proprio lì, a contatto con il mondo dello sport ad alto livello che ho sentito di essere un estraneo che alla fine scopre, come accade al lettore che si identifica con il protagonista de La sentinella di F. Brown e alla fine scopre che è lui l’alieno, alieno anche nel mondo accademico, nel partito, tra individui per i quali contano solo alcuni valori ma non le persone che incontrano. È un discorso molto complesso e in cui non sono mai riuscito a trovare il bandolo della matassa. È naturale che per un atleta contino soprattutto le sue capacità sportive e che un allenatore sia attento soprattutto a quelle come per un filosofo è evidente che contino soprattutto le sue conoscenze, le sue capacità intellettuali. Ma anche nel mondo dello sport, nell’università, nei vertici di un partito i rapporti sono tra persone e raramente nelle esperienze che ho avuto tale substrato comune è riuscito ad emergere. In tali ambiti si concretizza una sorta di feticismo dei ruoli che occulta le relazioni tra persone. Forse però non era solo l’estraneità al mondo dello sport, al partito e al feticismo dei ruoli a farmi sentire alieno, ma anche la mia idiosincrasia verso ogni forma di appartenenza. Ho sempre giocato solo perché mi piaceva giocare e come allenatore ero più interessato a conoscere i miei allievi come persone che non a formarli come atleti, nonostante i giorni passati a studiare tecniche, strategie di allenamento, a seguire corsi e seminari. In fondo era accaduto così anche per il partito, il non essere capace di identificarmi con qualcosa di collettivo, di condiviso come la squadra ma anche la famiglia. Mi sentivo al sicuro solo all’interno di rapporti personali diretti e non mediati da una qualche struttura di condivisione. Una sorta di animo anarchico non tanto per le istituzioni, verso le quali ho sempre nutrito una forma critica di rispetto, ma per le condivisioni basate sul coinvolgimento emotivo. Anche come insegnante non sono mai riuscito a percepire la classe come unità o l’appartenenza ad una scuola come fonte di orgoglio ma ho tendenzialmente visto solo i singoli studenti come interlocutori. In tale prospettiva ho sempre avuto una sorta di preferenza per l’amicizia rispetto ai legami familiari. All’insegnamento invece, oltre che risorsa inesauribile di rapporti umani di tutti i tipi ma comunque essenziali per la mia vita personale, devo molto anche sul piano teorico, la scoperta dell’interculturalità, dell’importanza e della difficoltà del rapporto con il diverso, la necessità di non dare niente per scontato quando entrano in gioco le relazioni interpersonali e la scoperta della natura flessibile e molteplice dell’intelligenza come descritta da Howard Gardner o dal Jerome Bruner che affianca alla dimensione paradigmatica la dimensione narrativa della mente a più dimensioni, e poi ancora il ruolo della discussione e del dialogo nello sviluppo della conoscenza e del sapere come descritto da Clotilde Pontecorvo o da Lucia Lumbelli, un sapere e una conoscenza che altro non possono essere, nonostante le distorsioni prodotte dalla scuola competitiva e individualista, se non un prodotto sociale e cooperativo. In quegli anni ho scoperto anche la geografia, soprattutto nei suoi legami con la storia. A partire dai testi dell’architetto divulgatore Giulio Mezzetti, capace di guidare, con il suo stile multidisciplinare poco accettato dagli specialisti, gli occhi inesperti dei lettori a esplorare caratteri di ambienti e di paesaggi del presente e del passato, a innervare la scienza da una fitta trama di venature storiche, per approdare a Braudel e al suo Mediterraneo.

Le note che oggi rileggo mentre le trascrivo e in qualche caso le commento sono nate dalla necessità trovare in quel groviglio descritto prima un bandolo, un filo conduttore. Giustificavo le mie note di quegli anni scrivendo: “Queste note non sono un prodotto, ma la registrazione di un processo. L’individuo mangia per sopravvivere e il prodotto sono quegli elementi che il corpo produce metabolizzando i cibi che poi chiamiamo vita, movimento e tutto il resto.  L’alimentazione è un processo e sul processo influiscono le condizioni psico – fisiche dell’individuo. Ciò che scrivo non sono i prodotti della mia mente ma il processo di alimentazione che precede il prodotto, se un prodotto mai vi sarà, qualunque esso sia, un pensiero, una teoria, un comportamento, un atteggiamento. Senza una buona masticazione e una buona digestione non vi sarà comunque alcun prodotto utile, e per masticare e digerire bisogna mescolare saliva e acidi gastrici con il cibo introdotto dall’esterno. Infine il nostro corpo provvederà a fondere i nostri liquidi e umori con la poltiglia che viene immessa dalla bocca e solo allora sarà possibile un prodotto”. Il prodotto è stata la mia vita in questi quaranta anni. Quelle note quindi erano un processo in atto che si è realizzato in una forma che è la mia vita, per questo oggi a distanza di anni mi incuriosisce il giovane che ero e con il quale vorrei interloquire così come un padre parla con il figlio, anche se il dialogo non può che essere a senso unico perché quel giovane non esiste più.

Un’ultima domanda può riguardare la presenza di una raccolta di pensieri in un sito dedicato prevalentemente alla fotografia. Mi sbaglierò, ma credo si possa fotografare non solo con la macchina fotografica ma anche con le parole. I pensieri qui raccolti possono essere visti come istantanee di un processo che si sviluppa nel tempo, e come gli attimi colti dalle fotografia, anche questi pensieri sono istanti di quel processo destinati a perire nel momento in cui vengono pensati se la parola scritta non li estrae e li congela in un qualche serbatoio. La parola scritta, come la fotografia, li salva momentaneamente dalla loro morte, li colloca in uno spazio più resistente di quello della memoria. Nello stesso tempo li solidifica, li rende altro. Dell’utilità di un’operazione del genere non so dire. Forse l’unico destinatario sono io stesso, il mio bisogno di guardare indietro e cercare di intravedere il cammino che ho percorso. Rileggendoli, possiamo non riconoscerci in quei pensieri, come possiamo non riconoscerci nelle fotografie, nel senso che avvertiamo il mutamento, le trasformazioni del tempo. Ma possiamo anche avvertire che in qualche modo abbiamo almeno cercato di dare un senso al nostro cammino senza farci sopraffare dalla nostalgia per ciò che oggi non c’è più o dalla stupida moda di cercare di fermare il tempo con vari accorgimenti. Certo non è possibile annullare la dimensione tragica dell’esistenza, la percezione di avvicinarci al momento conclusivo della nostra vita, ma non possiamo farci niente. Possiamo solo cercare un po’ di conforto nel riordinare la memoria e insieme vivere ciò che ci rimane da vivere nel miglior modo possibile.

Dialogo tra un giovane e un vecchio 

massimocec novembre 2020