Una questione molto discussa sulla natura della fotografia riguarda il dilemma se essa sia arte oppure no. Io ritengo che sia un falso problema e tutto dipende da quale uso si fa del concetto di arte. In altri termini le argomentazioni sono più interessanti della conclusione.
Interessante è infatti cercare di vedere come chi ha sostenuto che la fotografia è arte o che non lo è ha argomentato per dimostrare la verità della sua tesi.
Una prima strada intrapresa da coloro che volevano affermare la natura artistica della fotografia è stata quella di attaccare il concetto di arte, demolire la sua solidità per creare delle brecce che possono facilitare l’ingresso di elementi prima esclusi. Questa è la strada seguita da chi dice che, dopo l’affermarsi delle avanguardie del Novecento, non è più possibile utilizzare il concetto di arte così come era stato utilizzato, ad esempio, da Baudelaire, il quale sosteneva che un oggetto artistico è il prodotto della capacità manuale di realizzare un oggetto e di uno spirito creativo che rimanda all’impalpabile, all’immaginario, alla capacità dell’anima di dargli vita. Per Baudelaire “Poiché l’industria fotografica era il rifugio di tutti i pittori mancati, scarsamente dotati o troppo pigri per compiere i loro i studi, questa frenesia universale aveva non solo il carattere dell’accecamento e dell’imbecillità […] Se si concede alla fotografia di sostituire l’arte in qualcuna delle sue funzioni, essa presto la soppianterà o la corromperà del tutto, grazie alla alleanza naturale che troverà nell’idiozia della moltitudine” . La capacità creativa collegata alla abilità manuale non sono più però un elemento discriminante se si accetta che gli oggetti proposti da Duchamp siano opere d’arte. Il Ready made sostituisce il principio di “rappresentazione” con quello di “presentazione”; è la scelta dell’autore a determinare la natura artistica del soggetto e non la sua capacità di produrlo. In questo senso la fotografia può essere arte perché, anche se realizzata attraverso un processo meccanico in cui una macchina azionata da un operatore apre un forellino da cui passa un fascio di luce che colpisce una superficie sensibile, è pur sempre il prodotto di scelte di tipo estetico, creativo e non solo oggettivo e documentario. Il concetto di arte che scaturisce da tale prospettiva è un concetto flessibile (e ciò è per me positivo perché se ne riconosce la natura non oggettiva) ma nello stesso tempo anche debole sul piano dell’intersoggettività e quindi dell’utilizzabilità sociale. Il ruolo del soggetto può diventare sempre più forte fino ad arrivare a poter considerare artistico ciò che egli sceglie come tale, senza criteri condivisi per decidere cosa cade sotto quel concetto. L’arte può diventare una sorta di carrozzone su cui si può salire liberamente per poter dare dignità a ciò che ciascuno sceglie come proprio prodotto personale significativo. Secondo me l’arte contemporanea è caduta in parte nel tranello teso dalla debolezza del suo stesso concetto.
La seconda strada è quella di considerare la questione se la fotografia è arte oppure no una questione mal posta nel senso che essa cerca di affrontare un problema che non è un problema. In altre parole non è importante stabilire se la fotografia è arte oppure no perché da un lato non si considera l’arte uno strumento per dare dignità alla propria opera e dall’altro non si ritiene possibile decidere se qualcosa rientra o no sotto tale concetto nel momento in cui tale cosa viene prodotta. La scelta di fotografi come Scianna, Berengo Gardin, Basilico mi sembra si muova in questa direzione aprendo, in qualche modo, anche uno scenario interessante sul piano della “politica” culturale. Il punto di partenza è determinato non tanto dalla natura del concetto di arte ma dal modo con cui esso è utilizzato. Può essere utilizzato come strumento di conoscenza in quanto consente di stabilire se determinati oggetti possiedono certe caratteristiche dopo aver definito i criteri. Può essere però anche utilizzato come strumento per la costruzione di gerarchie sociali o culturali. In questo caso il problema non è se l’oggetto ha o no certe caratteristiche (uso scientifico del concetto per classificare la realtà), ma piuttosto se l’oggetto è degno o no di essere incluso in un certo livello della gerarchia sociale o culturale (uso pratico del concetto e strutturale la realtà). Il concetto di arte così com’è usato da Baudelaire, da Croce e da molti altri è un concetto che stabilisce gerarchie all’interno di una concezione stratigrafica delle forme della cultura. Il concetto di arte si presta bene a tale uso in quanto è un concetto magmatico, che non riesce a definire in modo preciso alcun oggetto. Quando parlo di acqua so di che cosa parlo; sono, in linea di massima, in grado di stabilire se un oggetto cade o no sotto quel concetto. Anche se parlo di fotografia, di pittura, di architettura, so di cosa parlo. Se parlo di arte però calano le nebbie e stabilire su un oggetto cade o no sotto quel concetto non è più un’operazione di classificazione ma un’operazione di strutturazione e costruzione culturale. I fotografi che rifiutano di entrare nel gioco della costruzione delle gerarchie semplicemente dichiarano di uscire da questa inutile polemica affermando un modello culturale alternativo, il modello che si basa sulla rete delle attività umanane piuttosto che sulla piramide, anche perché non può esistere una teoria dell’arte.
“Non esiste una teoria dell’arte che sia vera non perché nessuno l’ha prodotta ancora, ma perché una teoria del genere preclude il concetto di arte. Una teoria dell’arte – un’asserzione vera sulle sue proprietà necessarie e sufficienti, sulla sua essenza, sulla sua natura, sul suo comune denominatore – non è semplicemente difficile da formulare, ma è logicamente impossibile, perché stabilisce i criteri definitivi di un concetto, l’uso stesso del quale dipende dal fatto che non esiste un insieme di criteri del genere. Non esiste alcuna teoria dell’arte che sia vera, allora, perché non può esistere. Il concetto di arte, come mostra il suo uso, è aperto. Una teoria dell’arte presuppone o implica l’assunzione falsa che il concetto di arte è chiuso, governato da criteri necessari e sufficienti, che corrispondono alle proprietà definitive dell’arte, i quali criteri possono essere formulati all’interno di una definizione di “arte” che può allora dirigere il corretto parlare di arte.”
Morris Weitz, Arte come concetto aperto, in Che cosa è arte, a cura di Simona Chiodo, Novara, De Agostini 2007, p. 47
Dire allora che il fotografo è un fotografo e chi fa fotografie fa fotografie e non fa arte non è enunciare una tautologia, ma significa considerare inessenziale la questione se la fotografia sia arte oppure no. È un’attività umana che, come tutte le attività, si basa su tecniche e tecnologie e con una propria dimensione culturale e il concetto di arte rimane un concetto aperto perché tutti questi elementi non sono dati una volta per tutte. Non esiste attività umana che non si muova su due livelli della tecnologia e della cultura, a cominciare da quelle che sono semplici risposte a bisogni fisiologici come il mangiare e il riposare. Questo non vuol dire che non è possibile in assoluto stabilire se una certa forma culturale rientra o no nel campo dell’espressione artistica. Molto probabilmente questa operazione deve essere fatta a posteriori, da un punto di vista scientifico, dagli studiosi che vengono dopo, che stabiliscono criteri nell’ambito di un contesto, di una forma di vita e sulla base di ciò costruiscono una storia e un’estetica. Chi fa fotografie fa qualcosa che non è possibile, nel momento in cui si fa, stabilire se rientra oppure no nell’ambito artistico. Semplicemente fa fotografia seguendo i suoi gusti e i suoi interessi. Importante è farle bene, rispettare i canoni tecnici ed estetici propri di una certa fase dell’evoluzione di quella specifica forma (padronanza tecnica e competenza , capacità d’uso per esprimere ciò che si vuole esprimere ) e arrivare anche a padroneggiarli in modo tale da renderli automatismi e nello stesso tempo diventarne talmente padrone da poterli cambiare e adattare ai bisogni espressivi. André Kertész, il grande fotografo ungherese del secolo passato, diceva: “Io credo che tu debba essere un perfetto tecnico per esprimere te stesso come vuoi. Allora puoi scordarti della tecnica”. Un tale livello di padronanza consente anche di poter modificare le regole senza demolire la forma dell’espressione propria di quel certo linguaggio. La creatività, l’immaginazione e l’innovazione anche della dimensione sintattica nascono solo dalla padronanza.
La considerazione della natura artistica di un oggetto inoltre non è una meccanica conseguenza della sua qualità estetica. Questa idea trova una conferma anche nella lettura recente di un testo di Olivier Lugon, Lo stile documentario in fotografia. Da August Sander a Walker Evans 1920 – 1945, in cui vengono presentate tre foto molto simili della stessa porta della 13° strada di New York, una di Walker Evans, una di qualche anno più recente di uno sconosciuto documentarista e la terza di Berenice Abbott. La prima è conservata presso il museo di Arte Moderna di New York, la seconda nei registri di una società per la tutela del patrimonio, la terza è stata stampata in un libro e conservata in un museo di storia come fonte storiografica. Da che cosa nasce il diverso destino di ciascuna di queste foto che ritraggono lo stesso soggetto con modalità e tecniche analoghe? Non certo dalla loro qualità artistica intrinseca. Molto probabilmente dal loro essere state inserite in certi percorsi piuttosto che in altri. Per questo dico che non è importante stabilire in anticipo la finalità del proprio agire ma piuttosto preoccuparsi di fare bene ciò che si fa e questo è il principio del buon artigiano, di colui che sa fare il proprio mestiere e lo fa con coscienza e scrupolo. In fondo tale concetto rimanda al concetto aristotelico di virtù, all’elemento cioè che Aristotele mette al vertice della sua scala di valori per ciascun individuo, il far bene ciò per cui siamo portati. Ascanio Celestini ha scritto in Faberblog a proposito del suo lavoro di scrittore:
“Ma che, tutto sommato, il mio lavoro consiste nel raccogliere storie e raccontare storie. In mezzo, tra la prima e la seconda occupazione, c’è quello che succede nella testa del narratore, nella mia testa, cioè in una specie di bottega artigiana. Si, perché credo che il mio lavoro sia quello dell’artigiano. (…) Un artista cerca di scrivere un libro perfetto, di dipingere il miglior quadro del secolo, di eseguire una musica in maniera sublime. L’artigiano no. Costruisce una sedia e poi un’altra e poi un’altra ancora. Non le conta nemmeno. Non pensa di fare la sedia perfetta, la madre di tutte le sedie. Pensa ad approfondire la propria esperienza e a mettersi a disposizione del cliente. Una sedia è il posto dove mettere il sedere. Deve essere comoda, stabile, solida e possibilmente anche leggera e infine bella. Ma è probabile che la bellezza sia una condizione secondaria, se non del tutto inutile. L’artigiano pensa che (o comunque si comporta in questa maniera) la sua opera attraversi tutte le sedie che costruisce nel corso del tempo. Sedie che dimentica perché dalla costruzione di esse accumula esperienza. Il suo lavoro è un flusso nel quale fa scivolare le sedie.”
Enrico Prada su L’Infinito Istante, una rivista online di fotografia, commenta:
“…come l’artigiano accumula sedie, così il fotografo accumula fotografie, ed esperienza. Come l’artigiano non pensa di fare la madre di tutte le sedie, allo stesso modo il fotografo pensa a scattare una foto e poi un’altra e poi un’altra ancora, mettendosi a disposizione del pubblico. Come l’artigiano costruisce una sedia che è, prima di tutto, utile e poi bella, anche il fotografo costruisce immagini che sono (o dovrebbero essere) prima di tutto leggibili, delle descrizioni del mondo al servizio dello spettatore e poi (ma non necessariamente) belle.
Grazie a questa definizione allargata mi è stato facile ripensare, ad esempio, all’accumulo delle foto di Parigi scattate da Atget, all’accumulo dei ritratti di August Sander, all’accumulo dei fatti di cronaca nera raccolti da Weegee, alla New York di Klein, all’epica del lavoro di Salgado, agli Zingari di Kudelka. Tutti lavori in cui i fotografi non hanno pensato alla singola (bella) immagine, ma a scattare una foto e poi un’altra e poi un’altra ancora, mossi dalla volontà di descrivere al meglio il mondo che volevano rappresentare. In altre parole, hanno mostrato immagini che erano prima di tutto comode da capire, e coerenti. Perché, parafrasando Celestini, il lavoro del fotografo è un flusso costruito nel corso del tempo, un flusso nel quale scivolano le immagini che raccogliamo ogni giorno.”
E chi fa fotografie per il proprio piacere, come capita a me, non è che un artigiano che produce per l’autoconsumo.
Che il prodotto di un certo lavoro venga poi considerato artistico è una questione che riguarda solo i “posteri”.
febbraio 2013 massimocec
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