IL SESSANTOTTO
Il libro di Deaglio e Carozzi C’era una volta in Italia. Gli anni Sessanta, offre una ricca serie ben selezionata di articoli, documenti e testimonianze che trasmettono al lettore il clima di fermento e tensione che ha caratterizzato il “Sessantotto”, anno con il quale si sintetizza una vicenda storica iniziata nel 1966 e conclusa, di fatto, il 12 dicembre 1969 con la strage di Piazza Fontana. Questa documentazione ci offre tante “tesserine” da comporre in una sorta di “mosaico” da interpretare, complessivamente, nel loro significato storico. Operazione non scontata in considerazione delle tante ambivalenze che hanno caratterizzato il Sessantotto. Rivisito dunque quel fatidico anno con due sguardi: quello dell’adolescente che ero, e quello (per deformazione professionale!) del filosofo-storico che sono.
Ho frequentato il triennio del Liceo quando è esplosa la contestazione studentesca, quindi in una fase in cui era sotto tiro, si diceva allora, l’impianto autoritario e tradizionalista della scuola, i voti, le lezioni cattedratiche, le interrogazioni individuali, il nozionismo. Per la mia formazione culturale sono stati anni importanti. La scuola era soltanto uno dei momenti di incontro collettivo: assemblee, gruppi di studio, comitati, riunioni in sequenza frenetica, non facevano certo mancare opportunità di confronto e discussione. Era l’onda lunga del ’68, a cui partecipai intensamente, con uno spirito, però, che mi pose ai suoi margini. Diversamente da tanti protagonisti di quegli anni (oggi ben inseriti negli apparati di potere come teorici del nuovo corso del mondo), non ero mosso da ideali “rivoluzionari”, che sentivo lontani: vivevo un travaglio molto più interno alla cultura e alla scuola. Contestavo la scuola perché volevo studiare diversamente: non sopportavo il nozionismo, l’indifferenza di tanti professori, le analisi superficiali, lo studio fine a se stesso. Studiare di più e meglio, volle dire in alcuni casi rendere la vita impossibile a professori incapaci e impreparati. Non ho mai condiviso – e per questo sono rimasto ai margini – il filone dei voti politici, della dissacrazione della “cultura borghese” e dello scontro con la polizia come prassi di contestazione in sé.
Analogamente, avvertivo distanza dalle proclamate idealità rivoluzionarie (con i frequenti richiami alla rivoluzione culturale cinese), comunque importanti, a livello personale, per stimolare lo studio e l’approfondimento di realtà storiche e autori non contemplati negli ordinari percorsi di studio. Sempre con lo sguardo dell’adolescente, il ’68 è stato un anno che ha aperto straordinari spazi di creatività e socializzazione, oltre a quelli più direttamente riconducibili all’impegno politico-sociale: come si ricorda nel libro, il fenomeno della nascita di decine di gruppi e “complessini” che si radunano in cantine e garage con amplificatori, basso, chitarra, batteria ed organo. È proprio nel ’68 che, appassionato di musica, con alcuni miei compagni di scuola costituimmo un gruppo musicale che, con serietà e determinazione, ci tenne insieme fino al termine dell’Università. Esperienza straordinaria di espansione dell’anima, di cui ero consapevole già all’epoca: era un universo in movimento che consentiva di emanciparsi da regole, tradizioni e costumi che non avevano più corrispondenza nel nuovo scenario sociale della fine degli anni Sessanta. E qui subentra lo sguardo dello storico, per cui la questione si complica. Difficile, in poche battute, interpretare un fenomeno così articolato, ambivalente e complesso che da un lato ha prodotto proteste e denunce sacrosante e personalità di spessore intellettuale, dall’altro ha proclamato obiettivi ideologici (anch’essi storicamente validi), ma del tutto svuotati del loro contenuto reale, nel senso che sono stati utilizzati come mascheramento di altre finalità (non importa se consapevoli o meno). Ne è prova storica il “trasloco” di buona parte dei protagonisti rivoluzionari dell’epoca i quali, esaurito il movimento sessantottino, dal percepirsi come tanti piccoli Lenin, sono poi transitati in modo oscuro e silenzioso negli apparati strategici del capitalismo neoliberista i cui effetti devastanti sono sotto gli occhi di tutti. Nelle “Tesi della Sapienza”, elaborate a Pisa nel 1967 nel corso dell’occupazione del Palazzo dell’Ateneo pisano, si affermava che “Il movimento […] tiene conto della lotta di classe contro il sistema capitalistico nella sua totalità e ricerca l’unità con tutte le forze che lo contestano in pratica”. Dal “Grande Rifiuto” di una società che ha prodotto livelli di alienazione assoluta (teorizzato da Marcuse nel suo libro “L’uomo a una dimensione”, punto di riferimento ideologico degli studenti del Sessantotto), siamo approdati alla prassi dell’“Accetta tutto” così come richiesto dal capitalismo delle piattaforme e del consumo. Con la collaborazione attiva di tanti, troppi, ex contestatori. Fatte salve le dovute eccezioni, questo fenomeno di capovolgimento di finalità rivoluzionarie in finalità sistemiche è di tali proporzioni da non potersi spiegare con motivazioni di ordine individuale o ricorrendo alla categoria del “tradimento”, che storica non è. Quale può essere una spiegazione, storica?
Alla fine degli anni Sessanta le aspettative cresciute al tempo del miracolo economico o “età dell’oro” del capitalismo (miglioramento delle condizioni materiali di vita, maggiore disponibilità di risorse economiche, retribuzioni del lavoro più stabili, promessa di maggiori diritti, la scuola vissuta come promozione sociale, disoccupazione scesa ai minimi storici…) cominciano a vacillare, a fronte di una massa studentesca in grande espansione indotta dalle riforme scolastiche. Soprattutto nei ceti dediti al lavoro intellettuale le speranze di ascesa sociale sono frustrate dal progressivo restringersi degli sbocchi professionali. Emerge la contraddizione tra esigenze di autoaffermazione proprie della borghesia intellettuale e arresto della mobilità sociale attraverso i titoli di studio. Diverso il caso delle lotte operaie e dei Consigli di fabbrica (Porto Marghera, Pirelli a Milano…) che si sono scontrati con poteri sociali molto più forti rispetto a quelli che si opponevano al movimento studentesco. In estrema sintesi, il Sessantotto è stato il momento conclusivo di un ciclo storico “progressista” che si è aperto nel secondo dopoguerra con riferimento ad importanti valori quali l’egualitarismo, la possibilità di ascesa sociale, la libertà rispetto a tradizioni immobilizzanti, la vibrante denuncia delle guerre imperiali…; di questo insieme di istanze, nella nuova fase storica che si è aperta nei decenni successivi, sono state conservate e rideclinate solo quelle istanze funzionali al mercato capitalistico e alla promozione del consumismo. “Accetta tutto”: questo è ciò che caratterizza infatti il nostro orizzonte storico. A maggior ragione il libro di Deaglio e Carozzi è prezioso, perché conserva testimonianze che consentono di decentrare lo sguardo dal nostro presente.
Fabio Bentivoglio
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