I favolosi anni ‘60, gli anni della mia adolescenza e della mia prima giovinezza
Nata a Molina di Quosa, un piccolo paese della provincia di Pisa, vi ho trascorso i primi sedici anni della mia vita per poi trasferirmi, con la mia famiglia, a Lucca, dove ho frequentato l’istituto Paladini, la “gloriosa” scuola magistrale.
Nel 1964 c’è stato così il passaggio dal paese alla città, il passaggio da un posto piccolo, circoscritto, dove ero conosciuta e “controllata”, ad un ambiente dove potevo muovermi liberamente senza sentirmi “gli occhi addosso”.
Ed è a Lucca che nascono le amicizie importanti con cui comincio a frequentare il “movimento studenti”, una fucina di idee nuove e stimolanti.
A Molina facevo parte dell’Azione Cattolica, frequentavo le suore che gestivano la scuola materna, ovvero l’asilo come veniva chiamato in quegli anni. Con la mia mamma non mancavo mai alle liturgie domenicali e ai vespri feriali.
Ero dunque una credente convinta e piuttosto bigotta, ma a Lucca cominciai a respirare un’aria nuova.
Erano gli anni del Concilio Vaticano II. Lucca aveva, come vescovo ausiliare, Monsignor Bartoletti.
Il Concilio Vaticano II segnò un cambiamento radicale, perché passammo da una visione ecclesiocentrica ad una centrata sul Regno, cioè sulla trasformazione della società in senso evangelico.
Questo favorì il passaggio ad una visione più universale del Cristianesimo, che diventava sempre più calato attivamente nella storia e nella realtà quotidiana di ogni uomo e di ogni donna. Volevamo liberarci da una concezione vetero cattolica, da una religione capace di vedersi solo in contrapposizione con il mondo e mai vicina ad esso; da un Cristianesimo giudicante ed autoreferenziale si passò gradualmente ad un Cristianesimo desideroso prima di tutto di mettersi in ascolto, che vedeva nel mondo tutto e solo l’oggetto della sua missione e del suo interesse. Ci animavano gli ideali della pace, della non violenza, della giustizia, del superamento dei pregiudizi razziali, della solidarietà.
Leggevamo l’enciclica “Pacem in terris”, un manifesto -come disse Giorgio La Pira – che invitava tutti gli uomini a portare la loro pietra all’edificazione di questa nuova pacificata casa universale dei popoli. Eravamo tutti convinti che l’età della divisione e della guerra fosse finita, sostituita dal dialogo e dalla collaborazione fra i popoli.
Durante i nostri incontri, entravamo in contatto con esperienze del nostro territorio come quella di Don Sirio Politi e dei preti operai a Viareggio.
Nel 1964 la comunità del Bicchio trovava un suo momento importante nel pieno del Concilio vaticano II. Ci fu una folata di vento di rinnovamento che derivava dall’incontro di esperienze apparentemente periferiche, ma incentrate su persone di grande levatura e coraggio di cambiamento. Mario, un amico di vecchia data, ci parlava spesso di questa esperienza che lui aveva vissuto in prima persona e con grande entusiasmo; una chiesa viva, fuori dagli schemi, in mezzo agli operai, ai pescatori, ai poveri e agli emarginati. La chiesa del Concilio, la chiesa del Patto delle Catacombe che verrà firmato nel 1965 da un gruppo di vescovi, soprattutto latino-americani, che si impegnarono a vivere in “una chiesa povera per i poveri”.
Intanto cominciava a serpeggiare fra noi ragazzi un motto: “I CARE”. Era il motto dei giovani americani impegnati, ma era anche il messaggio scritto sulle pareti di una piccola scuola situata a Barbiana; un paesino di montagna privo di strade battute, di acqua e di corrente elettrica, composto da una piccola chiesa e da qualche casolare sparso tra campi e boschi di castagni.
Qui, il 6 dicembre 1954, arrivò don Milani. Un ragazzo del “movimento studenti” era stato a Barbiana e, appena poteva, ci raccontava quello che accadeva lassù, fuori dal mondo.
Prima di Barbiana don Lorenzo era stato viceparroco a Calenzano, dove si era reso conto subito del livello di ignoranza degli operai e dei contadini della zona.
In senso legale, l’analfabetismo era sparito. Non c’era nessun giovane a San Donato che non avesse fatto almeno la terza elementare e che non sapesse leggere e scrivere. Grandi erano, però, le limitazioni lessicali e questo toglieva loro la possibilità di comprendere il linguaggio dei giornali e dei politici, oltre a creare in loro una insicurezza che impediva di prendere la parola quando dovevano sostenere i loro diritti nelle controversie di lavoro.
Don Milani conquistava i giovani, ma provocava il risentimento della curia, dei tradizionalisti e dei preti che non la pensavano come lui.
Venne così trasferito a Barbiana, un paesino sperduto sul monte Giovi: sembrava un ideale penitenziario ecclesiastico per un prete tanto scomodo. Invece, proprio dalla sofferta solitudine di quella montagna, il messaggio di don Milani si diffonderà ovunque. Anche lì nacque subito una scuola che vide molti ragazzi della zona salire alla parrocchia di Sant’Andrea. La scuola serale, però, finì dopo tre anni, perché molte famiglie si erano spostate in piano per trovare un’occupazione.
Rimasero solo dieci famiglie che avevano i figli piccoli, scolari della pluriclasse di Padulivo. Erano bambini che conoscevano tutto sulla vita del bosco, ma non potevano esprimersi correttamente, visto l’ambiente in cui vivevano e il tipo di scuola che frequentavano. Il priore organizzò per loro un doposcuola e un corso di avviamento al lavoro, una tipologia di scuola che scomparve nel ’62 quando fu introdotta la scuola media unica. Il lavoro di gruppo, l’uso dei giornali, la lettura come la scrittura collettiva erano alla base del metodo di studio di Barbiana dove i ragazzi più grandi insegnavano ai più piccoli. Don Milani inventava sistemi nuovi per facilitare l’apprendimento e la correzione dei compiti.
La proposta educativa del nostro sacerdote e maestro continua ancor oggi a mantenere un carattere di grande originalità.
Fu rivoluzionaria in quanto si propose di donare la parola ai poveri e di compiere un atto di giustizia dando agli ultimi la possibilità di difendere i propri diritti.
Don Lorenzo morì poco dopo la chiusura del Concilio: il rinnovamento auspicato nei documenti conciliari è ancora presente nel messaggio proveniente da uno sperduto paesino del Mugello.
Accanto a don Milani, un altro prete veniva nominato spesso: Padre Ernesto Balducci. Nato nel 1922 a Santa Fiora sul monte Amiata, proveniva dall’ambiente operaio a fianco del quale si pose per tutta la durata della sua missione pastorale. Nel 1958 aveva fondato la rivista Testimonianze con cui partecipò all’ampio dibattito teologico e culturale che accompagnò la preparazione del Concilio con la partecipazione di Giorgio La Pira.
Nel 1964 padre Ernesto diventò professore alla Badia Fiesolana, le sue conferenze erano gremite di ragazzi; in particolare la sua difesa del primo obiettore di coscienza interessò i nostri amici prossimi al servizio militare.
Il problema dell’obiezione di coscienza nel nostro gruppo cominciò ad essere accostato a quello della guerra e al pacifismo, ma anche al significato dell’amore e della carità nella comunità cristiana locale, nazionale e universale.
Padre Balducci e don Lorenzo venivano accostati e presi come fari, come pietre miliari della nostra formazione.
Per concludere, alla fine del 1964 andammo tutti, con grande entusiasmo a vedere Il Vangelo secondo Matteo di Pierpaolo Pasolini. Il film fece sensazione e scatenò un aspro confronto intellettuale. Pasolini, nel 1962, aveva partecipato ad un convegno della Pro Civitate di Assisi, comunità che aveva aperto alla sinistra cattolica. Fu lì che venne a contatto con Il Vangelo secondo Matteo. Ne fu affascinato e concepì l’idea di trarne un film.
Scritto dunque, con l’assistenza dei Frati francescani, verrà considerato il più artistico e duraturo frutto del Concilio. Premiato al festival di Venezia, applaudito dai Padri conciliari, il film sarà il principale e più vivo veicolo di dibattito degli anni Sessanta.
A noi ragazzi del Movimento il film piacque tantissimo e riuscimmo a portarlo nelle parrocchie dove i preti più aperti avevano organizzato un cineforum.
E così, nel 1964, venivano gettati i semi di quelle che saranno le mie scelte future: l’insegnamento, la scuola di italiano per gli stranieri, la lettura della Bibbia con il metodo della teologia della liberazione, i contatti con il “Centro nuovo modello di sviluppo” di Francuccio Gesualdi, l’impegno verso gli altri e non ultima la mia passione per il cinema.
Anna Calloni
Ho conosciuto Togliatti dopo la sua morte. Perché il 21 agosto del 1964, quando morì, non avevo ancora otto anni e non era proprio un buon momento per me: da lì a qualche mese non sarei più stata figlia unica. E come molti primogeniti sanno, non è cosa da poco. Quasi una decina di anni più tardi, ormai liceale con identità in cerca di definizione, incontrai Togliatti per la prima volta: lo vidi in un quadro, era I funerali di Togliatti dipinto da Renato Guttuso. Grande, epico. Quel quadro mi segnò: riconoscevo persone che vedevo e ascoltavo tutti i giorni, che leggevo… volti di donne e di uomini che erano parte di quel popolo lì rappresentato in una coralità senza tempo, un popolo del quale sentivo già di cominciare a far parte. Andavo alle assemblee, imparavo canzoni che arrivavano a commuovermi quando alle manifestazioni la mia voce con quella degli altri era un’unica voce. E, soprattutto, leggevo; compravo il giornale con due amici, per risparmiare: Paese Sera e L’Unità. Volevo essere pronta alle continue obiezioni che venivano fatte alla mia generosa passionalità, così più di ogni altra cosa volevo dimostrare che sapevo quel che facevo e dicevo. Era adesione convinta alla causa, la mia, non entusiasmo adolescenziale e semplice omologazione.
Mi iscrissi all’università: l’Orientale di Napoli, Lingue e letterature Straniere, indirizzo storico linguistico. Scopro che il docente titolare di Storia contemporanea è Luigi Cortesi. Il corso da lui tenuto è su “Le Origini del Pci”. Corro ad iscrivermi. Già sapevo, allora, chi era stato Togliatti, la sua esperienza nel Comintern, la sua proposta di una «via italiana al socialismo» e il «partito nuovo». Ma le lezioni di Cortesi, la lettura da lui suggerita di Miloš Hájek, mi disvelò del tutto la figura di Togliatti e mi condusse esattamente dove volevo arrivare: interrogarmi sul passato e riflettere sul presente. E fu con questa autonoma riflessione che si andò definendo con maggiore chiarezza la mia identità, la mia appartenenza, la militanza. La mia storia nella storia collettiva e nella storia di un partito che in quel momento storico (siamo nella seconda metà degli anni ’70) riconosce la via democratica e parlamentare al socialismo come eredità e patrimonio del pensiero di Togliatti.
«Oggi non c’è più soltanto un’avanguardia dietro di te, Togliatti. C’è un popolo che ti saluta con il pugno chiuso, che ti saluta anche col segno della croce; perché questa è la grandezza di un rivoluzionario, di non essere solo il dirigente di una parte, ma il capo amato di tutto il popolo».
Così riporta Deaglio nel suo capitolo “1964”, citando un passaggio dell’orazione funebre tenuta dal giovane segretario della Fgci Achille Occhetto. È il 25 agosto 1964. Vent’anni prima della morte di Enrico Berlinguer. Ventisette anni prima della svolta della Bolognina.
Ho rivisto pochi anni fa a Bologna il quadro di Guttuso. Riconoscendone, come l’età rende ovvio, ancor più persone.
Aegli Dikeos
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