1961

L’Italia compie cent’anni, ma oggi pochi lo ricordano

 

Pochi ricordano… ma che cosa pochi ricordano? Il centenario dell’Unità d’Italia celebrato a Torino o l’evento rievocato, cioè la nascita ufficiale dello Stato italiano avvenuta in seguito alla proclamazione del Regno d’Italia del 17 marzo 1861 a Torino con la legge n. 4671 del 17 marzo 1861 del Regno di Sardegna che così si esprimeva: “Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato; noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue: Articolo unico: “Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi Successori il titolo di Re d’Italia. Ordiniamo che la presente, munita del Sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.” Un inizio che può essere definito di parte in quanto sanciva la vittoria dei moderati e della casa Savoia che addirittura non si preoccupava neppure di modificare la denominazione del proprio re conservando nel titolo Re d’Italia quel “secondo” che evidenziava il fatto che l’Italia nasceva come dilatazione del Regno di Sardegna e non come nuova formazione politica sulla base della spinta di una volontà popolare e di una fase costituente come volevano i democratici, da Mazzini a Cattaneo.

Credo che l’oblio riguardi entrambi, l’evento del 1861 e la sua rievocazione del 1961, anno in cui a Torino si è celebrato il centenario dell’unità d’Italia. Io perlomeno non ne ho nessun ricordo. Non è strano. Nella mia famiglia prevaleva un sentimento di appartenenza politica, quella comunista. È riconosciuto da molti storici, tra i quali Emilio Gentile e Gian Enrico Rusconi, oltre a Ernesto Galli della Loggia, ipercritico nei confronti della vicenda resistenziale e della Costituzione, che il sentimento patriottico uscito dalla Resistenza ha avuto una vita difficile perché in Italia hanno prevalso due altri sentimenti di appartenenza, quelli rivolti ai due grandi partiti di massa, il Partito Comunista diviso tra l’internazionalismo socialista, la fede all’Unione Sovietica e l’adesione agli ideali democratici della nuova patria, e quello della Democrazia Cristiana, legata a sua volta ad un universalismo religioso ed erede di un atteggiamento di diffidenza nei confronti dello Stato considerato in qualche modo un rivale rispetto alla cattolicità e alla Chiesa.

Non erano appartenenze certamente ostili alla patria, ma in qualche modo rivali rispetto a tale ideale. I valori più genuinamente patriottici erano portati avanti dal Partito d’Azione che però non ha avuto la forza di imporsi anche perché il partito, già minoritario nell’immediata fase successiva alla conclusione della guerra, si è presto disciolto disperdendo anche l’eredità valoriale di cui era portatore.

Inoltre è necessario ricordare che il sentimento patriottico uscito dal Risorgimento e legato a ideali democratici e libertari si è presto trasformato in un sentimento di grandezza e di potenza che ha portato, dopo aver imbalsamato l’eredità del Risorgimento in una falsa immagine conciliatrice in cui Garibaldi, Vittorio Emanuele II, Cavour e Mazzini appaiono uno accanto all’altro come se fossero membri di una stessa setta, all’affermarsi del nazionalismo aggressivo e animato da una vena di conquista che ha spinto l’Italia verso imprese coloniali in gran parte fallimentari, verso la partecipazione alla prima guerra mondiale sulla spinta di un illusorio irredentismo libertario estraneo allo spirito di fondo della guerra che altro non era che uno scontro tra paesi che aspiravano a sopraffarsi a vicenda, ed è stato poi fatto proprio dalla dittatura fascista che ha inglobato gli ideali patriottici in quelli totalitari e razzisti del fascismo, trasformando la patria nella patria fascista, la nazione nella nazione fascista, cancellando completamente ogni riferimento ai valori della libertà e della democrazia, della solidarietà che erano incarnati nella patria risorgimentale, almeno in quell’idea di patria portata avanti dai democratici mazziniani e da Cattaneo. Il fascismo, quindi, ha lasciato un’eredità pesante con cui è ed è stato difficile fare conti. La parola patria, la parola nazione richiamavano per gli italiani immagini che si volevano cancellare, quelle delle grandi adunate, della proclamazione di grandi vittorie che tali non erano, di guerre combattute in altri angoli del mondo oltre che sul suolo italiano per affermare una grandezza illusoria, basata essenzialmente su una forza militare che neppure avevamo.

Proprio mentre sto scrivendo queste righe ho sotto gli occhi un inserto del Corriere della Sera dedicato all’inno di Mameli. Ricordo l’esegesi di Benigni a Sanremo nel 2011 nel 150° dell’Unità d’Italia, entrato nella sala a cavallo di un destriero bianco e sventolando il tricolore, e le critiche rivolte ai contenuti dell’inno e alla lettura fattane da Benigni da parte dello storico viareggino Alberto Mario Banti, ripresa recentemente da Tomaso Montanari, e il recente libro di Massimo Castoldi L’Italia s’è desta (Roma, Donzelli, 2024) che tenta un’esegesi più ragionata e storicamente fondata. Sono testimonianze che confermano le difficoltà che hanno gli italiani a rapportarsi con la vicenda risorgimentale, una vicenda complessa, leggibile in modi molto diversi tra loro, contesa da una parte e dall’altra come se fosse depositaria di patenti di legittimazione di identità partigiane.

Non è un caso quindi che non esista in Italia una festività legata alla proclamazione e quindi alla nascita dello Stato unitario. Non è neppure un caso che per molti decenni, compreso quello degli anni ‘60, non sia stato semplice neppure cantare l’inno d’Italia, il Canto degli italiani di Goffredo Mameli. Io ricordo di averlo cantato in età giovanile soltanto nei periodi in cui venivo mandato in montagna insieme ad altri bambini provenienti da mezza Italia, nelle colonie estive del CIF (Centro Italiano Femminile), organizzazione cattolica, a Pontepetri, vicino a San Marcello Pistoiese, dove ogni mattina dovevamo assistere rigidamente inquadrati in file per città di provenienza all’alza bandiera e la sera all’ammaina bandiera cantando appunto in ciascuno dei due appuntamenti il Canto degli italiani.

Negli ultimi decenni ci sono stati tentativi di recuperare i valori del Risorgimento, tentativi portati avanti soprattutto dai presidenti della Repubblica a partire da Carlo Azeglio Ciampi, ex azionista, seguito poi da Napolitano e da Mattarella. L’occasione è stata fornita dall’affacciarsi di spinte separatiste a cominciare da quella della lega affiancate per il Nord affiancate a quella dei neoborbonici per il Sud. Purtroppo, l’eredità di quei tentativi di recuperare il valore della patria come ideale di democrazia, di fratellanza, di solidarietà è stata fatta propria da forze che hanno recuperato l’idea della patria e della nazione nei loro aspetti meno edificanti che possono essere riassunti nel principio “prima gli italiani”, un principio tradotto in atteggiamenti di chiusura nei confronti della diversità, sia essa la diversità approdata in Italia attraverso l’immigrazione sia quella interna alla comunità europea.

Ma non è rimasto neppure il ricordo di quelle celebrazioni del 1961 a Torino, come giustamente fa notare Deaglio. Nei sei mesi della celebrazione Torino era diventata una sorta di Disneyland italiana, come la definisce Nico Ivaldi nel suo libro rievocativo di quei momenti, Italia 61. L’evento che cambiò Torino (Torino, Susalibri, 2021),  una città in cui gli oltre sette milioni di visitatori che vi giunsero potevano trovarsi di fronte a “treni volanti, teleferiche vertiginose, cinematografi a 360 gradi, computer giganteschi” con un hard disk pesante una tonnellata, “automobili futuristiche, prodigi architettonici”, insomma un grande parco dei divertimenti. Di tutto ciò oggi sono rimasti solo ruderi. Ruderi sono ciò che rimane della scenografia predisposta per celebrare il centenario, ruderi dell’enorme Palazzo del Lavoro, ruderi della monorotaia, ruderi dell’ovovia che portava sulle colline, ruderi del Palazzo a Vela di cui rimane soltanto il tetto all’interno del quale è stato ricavato un palazzetto dello sport in occasione delle Olimpiadi invernali del 2006 e ora ospita una pista sul ghiaccio. Dove non ci sono ruderi ci sono soltanto ricordi vaghi come quello del grande cinematografo circolare ideato da Walt Disney e offerto dalla Fiat ai visitatori in cui più di 1000 persone in piedi potevano vedere le bellezze dell’Italia proiettate sulle pareti circolari del grande edificio che ricordava in qualche modo un circo.

Non sono solo ruderi fisici quelli che sono rimasti. Rudere è innanzi tutto il concetto di lavoro che stava dietro la celebrazione torinese, il tema centrale di quelle celebrazioni. Un lavoro che significava progresso, benessere e che rappresentava anche in molti casi l’elemento più importante dell’identità sociale. Oggi il lavoro è qualcosa di più sfuggente, difficile da definirsi, legato a procedure, sistemi organizzativi di cui non siamo ancora padroni culturalmente.

Ruderi sono anche quelli dell’Italia in pieno boom economico che non esiste più, ruderi sono anche quelli della Fiat e dei suoi stabilimenti, l’industria al centro di quel boom, importatrice del modello di produzione americano, dispensatrice di un enorme quantità di lavoro poco retribuito e offerto perlopiù a una massa di ex contadini provenienti dal sud Italia, accolti a Torino con ostilità, rifugiati in alloggi improvvisati. Una Fiat tra l’altro rappresentata nelle celebrazioni del centenario dalla presenza costante, quasi fosse lui l’organizzatore e il gestore dell’evento, del giovane avvocato Giovanni Agnelli, come viene descritto ancora da Nico Ivaldi “Sempre a suo agio, sempre pieno di premure verso l’ospite come un padrone di casa che si rispetti. In effetti lo era”.

Rudere è anche la configurazione politica del governo Fanfani che in quel momento stava guidando l’Italia, monocolore democristiano con l’astensione del Partito Socialista anticipatrice dei futuri governi di centrosinistra, insediatosi grazie ad un altro rudere, la gigantesca protesta popolare dell’anno precedente, partita da Genova e dilagata in tutta Italia, protesta costata anche vittime e che era riuscita ad affossare il governo di destra guidato da Tambroni, sostenuto dall’appoggio esterno del Movimento Sociale Italiano, una formazione neofascista che non aveva partecipato alla fase costituente e non aveva rotto i legami con il regime di Mussolini.

Ruderi sono anche quelli di una classe operaia che cominciava a farsi sentire, a pretendere salari dignitosi condizioni di lavoro umane e che oggi è quasi scomparsa sostituita da una massa di lavoratori in gran parte precari, dispersi, privi di un’identità, sopraffatti da un’ideologia neoliberista che cominciò ad affermarsi anche come mentalità diffusa proprio a Torino all’inizio degli anni ’80 con la marcia antisindacale dei quarantamila quadri Fiat.

Rudere è anche l’ordine, l’efficienza cui si svolsero le manifestazioni. Deaglio ricorda che “tutto funzionò alla perfezione, non ci fu nessun incidente, nessuna protesta, nessun crimine, nessuna spiacevolezza” anche se il 24 luglio una marea inattesa di spettatori che volevano assistere allo spettacolo finale, il “Comicissimo” sfogò la propria delusione per i ritardi e l’impreparazione da parte degli organizzatori sfasciando sedie, bruciando manifesti e alimentando un clima che avrebbe potuto trasformarsi in tragedia, un episodio attribuito a nostrani “teddy-boys” che in qualche modo anticipavano i tempi.

Rudere è anche il sentimento di solidarietà che legava i lavoratori, in gran parte immigrati, e che oggi vedono nei nuovi immigrati un pericolo, dimenticando il loro passato neppure troppo lontano nel tempo.

Rudere è anche la pubblicità avveniristica ricordata da Deaglio nelle sue pagine sul 1961 di un famoso prodotto, Moplen, che significava in sostanza plastica, un prodotto ospitato nel padiglione italiano della mostra torinese che ben presto prese il posto delle altre materie prime nella fabbricazione di utensili, di una grande varietà di oggetti, di giocattoli per la sua leggerezza, infrangibilità, impermeabilità, vivacità di colori possibili. Nella pubblicità di Carosello Gino Bramieri rispondeva alla domanda “E mo’? Moplen” mentre grossi giocattoli come le automobili per bambini cadevano dalle scale senza rompersi  e delle voci sottofondo cantavano “È leggero, resistente, è inconfondibile, è Moplen”. Anche quel sogno si è infranto ed è diventato un rudere perché, come dice Deaglio nel suo testo, quel materiale così attraente in realtà è un pericolo perché la natura non è in grado di sbarazzarsene. Rimane per centinaia d’anni integro, si infiltra dovunque, negli mari, nei corpi degli animali e in particolare dei pesci. La plastica è quindi il simbolo di un sogno che si è infranto, il sogno di una tecnologia in grado di risolvere tutti i problemi e che invece si rivela anche pericolosa, ingannatrice, incapace di essere il motore di sviluppo senza che vi sia l’intervento e il controllo dell’essere umano che la dirige, che è in grado di scegliere e porre dei limiti.

Rudere è anche il sogno che stava dietro alla manifestazione legata al centenario dell’Unità d’Italia, il sogno di coloro che a Torino “avevano visto il futuro, avevano visto Disneyland”. Un sogno cui era facile prevedere il dissolversi semplicemente dando un’occhiata ad un’altra città che Deaglio ricorda nel suo libro nello stesso anno, Napoli.

Dobbiamo allora rassegnarci a vivere in mezzo ai ruderi? Questa è la domanda che possiamo e dobbiamo farci. Io credo di no, credo che dobbiamo trasformare i ruderi in memoria storica per poter edificare grazie a tale memoria e a uno sguardo aperto al senso del possibile, una società migliore, vivibile, democratica, solidale, inclusiva, non claustrofobicamente avvinghiata su se stessa, capace di fare i conti con il proprio passato per vivere il presente e proiettarsi nel futuro. Rassegnarsi a vivere nei ruderi è arrendersi, lasciarsi prendere dalla rassegnazione o dalla nostalgia, entrambi sentimenti utili per sopravvivere ma non per vivere.

 

massimocec


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La foto di copertina. Un interessante anacronismo