C’era una volta in Italia

Dopo aver letto il progetto di Deaglio, scrivere una serie di testi dedicati a ricostruire non tanto la storia d’Italia, ma, decennio per decennio, la memoria degli ultimi anni della storia del nostro Paese, e, contemporaneamente, dopo aver percorso il primo di questi testi, quello dedicato agli anni ’60, viene da chiedere quale sia l’operazione culturale, lo scopo di tale progetto.

Senza dubbio non è un’operazione storiografica, non è neppure una sorta di autobiografia, di storia personale. Il primo volume della serie prevista è una sorta di Almanacco in cui, anno per anno, vengono richiamati eventi tra loro molto diversi, dai film usciti in quell’anno, alle canzoni, ai risultati sportivi (ciclismo e calcio innanzitutto), agli eventi politici, a quelli economici, alle grandi tragedie e alle grandi imprese. Tutto messo nell’unico contenitore costituito dal libro piuttosto voluminoso e dal formato imponente, elementi collocati uno accanto all’altro senza comunque creare confusione, anzi seguendo un ordine espositivo che facilita il richiamo dei ricordi.

Dopo aver letto il progetto di Deaglio mi è venuta in mente una recente conferenza dello storico Roberto Balzani proprio sul tema della memoria. Balzani, parlando della memoria sociale, ha illustrato i meccanismi che secondo lui sono stati utilizzati per tenerla viva. I meccanismi individuati dallo storico forlivese ed ex sindaco della sua città nonché attuale direttore del Museo Storico delle Liberazione di Roma, sono essenzialmente due.

Il primo meccanismo è quello della ciclicità tipica delle rievocazioni ufficiali, delle ricorrenze quali, ad esempio, il 2 giugno festa della Repubblica o il 25 aprile festa della Liberazione, il 1 maggio festa del lavoro, il 27 gennaio giorno della memoria, il 10 febbraio giorno del ricordo, un meccanismo forse ereditato dalla tradizione religiosa a sua volta debitrice nei confronti della cultura classica e forse, andando ancora più avanti, dei riti che tutte le popolazioni celebrano ciclicamente per mantenere vivo il ricordo di eventi e fatti importanti per l’identità comunitaria.

Il secondo, ancorato ad un passato più recente e al funzionamento della memoria personale, è invece legato alla fluidità nel tempo, è un metodo che rispecchia un po’ il flusso di memoria che però ha bisogno di ancorarsi a una qualche struttura per non perdersi nello sterminato spazio occupato dagli eventi del passato, una struttura che, con successo, è stata individuata nell’organizzazione in decenni. È evidente che tale tipo di organizzazione del tempo e soprattutto delle durate è un artificio perché le cose accadono non tenendo conto delle suddivisioni di tipo quantitativo rigide come quella in decenni. Suddividere però il tempo in durate regolari come i  decenni consente, talvolta con un po’ di sforzo, di rintracciare una sorta di senso dietro a quanto accade, un senso che viene individuato a posteriori e spesso in funzione del tipo di suddivisione, ma che è utile per agire sul meccanismo dell’oblio e del ricordo, meccanismo fondamentale della memoria. Abbiamo bisogno non solo di ricordare ma anche di dimenticare per costruire un senso per la memoria, è il decennio serve a tale scopo tanto che viene utilizzato, ad esempio, anche nei programmi televisivi che puntano sul c’eravamo anche noi e sul sentimento della nostalgia come strumento per crearsi un pubblico. È in fondo un meccanismo della memoria molto vicino a quello della memoria personale basata sullo scorrere del tempo.

Certamente a queste due modalità bisogna aggiungerne un’altra, quella affidata ai monumenti. Anche i monumenti hanno una funzione simbolica fondamentale: celebrare e insieme ricordare, in particolare nelle nostre città celebrare e ricordare la nazione cui apparteniamo. È una funzione molto recente nata soprattutto con l’avvento degli stati nazionali e la necessità di fondare la legittimità del potere della nazione sul consenso. Una volta i monumenti erano quelli dedicati ai re, ai papi, ai generali oppure ai protagonisti di vicende mitologiche. Con l’avvento della nazione i personaggi dei monumenti sono diventati gli eroi delle lotte per l’indipendenza, delle guerre contro i nemici della nazione, i martiri, i caduti per la patria. Non è un caso che i periodi in cui si sviluppa la “monumentomania” sono periodi immediatamente successivi a fasi importanti della storia nazionale, soprattutto le fasi successive a guerre. In Italia hanno animato la nascita di numerosi monumenti il Risorgimento nel momento in cui, dopo aver fatto l’Italia, era necessario creare il popolo italiano, la fase successiva alla Prima guerra mondiale quando il fascismo cercò di appropriarsi dei simboli e dei valori che si riferivano alla Grande guerra, il secondo dopoguerra in cui l’esigenza era quella di legittimare la Repubblica nata dopo la sconfitta della dittatura fascista. È chiaro il legame tra i monumenti e il bisogno di gettare radici per  sostenere, difendere, far nascere l’identità culturale.

Il libro di Deaglio e Carozzi è lontano da queste esigenze, dal dover rintracciare radici, individuare origini, legittimare identità. È una memoria, per così dire, ad uso personale richiamata per dare consistenza alla propria presenza nel mondo, per aiutare a trovare un senso al proprio esserci.

Nonostante tale caratteristica, è anche una memoria che non suscita l’ambiguo sentimento della nostalgia, un sentimento su cui è facile giocare per raccogliere consenso. Ciò che viene sollecitato dal libro di Deaglio è piuttosto l’invito alla riflessione perché la memoria evocata è sì una memoria legata al flusso del tempo e della vita, ma è anche una memoria in grado di dialogare con la ricerca storiografica senza tutti quei problemi che invece la memoria in cerca di radici per identità pone alla storia. Si può non essere d’accordo con qualche particolare interpretazione di un evento o di una situazione, ma è un disaccordo che tutt’al più può aprire la porta a un dialogo, ad una discussione tra amici. alla coralità, alla possibilità di un lavoro cooperativo per ricostruire la memoria.

Infine, è una memoria che apre le porte alla coralità. Ed è questa possibilità che con la nostra iniziativa intendiamo cogliere, utilizzare il libro per sollecitare i ricordi di una molteplicità di soggetti, farli dialogare, cercare di ricostruire un senso dell’esperienza di una vita, un senso che trova il suo strumento soprattutto nella narrazione che non vuol sostituirsi alla storia anche se non disdegna un confronto con essa ma anche nel confronto con altri soggetti portatori di memorie.

In conclusione, dopo tutti questi discorsi un po’ astratti, però una domanda vorrei farla agli autori. Perché avete scelto di partire dagli anni ’60? Perché avete deciso di escludere il periodo della ricostruzione? Non è una domanda polemica ma una domanda vera, suggerita dalla curiosità e forse dal senso di completezza che viene fuori dall’aver per tanti anni insegnato storia, un insegnamento in cui ogni taglio viene vissuto come una ferita, e di ferite ciascun insegnante deve subirne tante.

massimocec


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