Fotografare e dipingere oggetti insignificanti

La Lattaia, dipinto a olio su tela di Jan Vermeer, 1658-1660, Rijksmuseum di Amsterdam

Perché dobbiamo interessarci degli oggetti insignificanti, delle situazioni di vita quotidiana, perché dibbiamo dipingerli, fotografarli. La pittura ad esempio fino al Seicento è stata una pittura prevalentemente finalizzata all’esaltazione del sacro, dell’epico, del potere. Dal Seicento ha iniziato a fasi strada una pittura attenta al quotidiano, agli oggetti della vita quotidiana. E’ la sfida tecnica che spinge questi pittori a interessarsi del quotidiano, la sfida della rassomiglianza, dell’immagine che sfida l’occhio dell’osservatore a distinguere l’immagine dalla realtà? Se fosse questa la spinta la fotografia sarebbe l’esito felice del percorso intrapreso dai pittori oltre quattro secoli fa. Ma allora avrebbe ragiona Pascal nei Pensieri a dire “”Quanta vanità nella pittura che suscita ammirazione per la rassomiglianza con cose di cui non ammiriamo affatto gli originali.”. Che cosa altro può esserci? Non è forse il tentativo di elevare il quotidiano ad un livello più alto, estetico ed etico, un altro modo di gettare uno sguardo sulla vita?

massimocec ottobre 2020


Esche fotografiche per ricordi

Strani legami con un lontano immaginario mondo infantile in un estate afosa e immobile, imbalsamata dalla sensazione del tempo che passa. Una fotografia esca di ricordi, di immagini di volti che non ci sono più ma che rimangono presenti. Questa foto richiama i miei disegni realizzati con piacere nelle sere invernali intorno a un tavolo accanto a persone intente alle loro occupazioni ma presenti. Colori accesi, Casupole smilze e longilinee che occupano tutto lo spazio. Sembra la foto di un ricordo visivo e invece è la foto di un pezzetto di realtà. 743deaaf5c8b14743a871836f8db7bSi sa che la fotografia è solo un pretesto per dar sfogo all’immaginazione e che l’immaginazione è l’unico strumento che abbiamo per dialogare con una realtà infinita che non si lascia cogliere se non per sporadiche tracce, complicati indizi, dal finito dei nostri pensieri e dei nostri artifici che abbiamo architettato per afferrarla. L’artificio poi una volta prodotto è in grado di andare oltre e creare, nel suo dialogo con i soggetti con cui viene a contatto, altre realtà. Le fotografie sono quindi esche e nessuno sa cosa abboccherà. Nonostante ciò grazie a loro riusciamo a dialogare con la realtà e anche con quella particolare realtà che siamo noi stessi.
Fotografia: Bosa, di Marco Carmassi


Fotografi e filosofi

Robert  Adams “Lungo i fiumi”

“I fotografi, diversamente dai filosofi, cercano di mettere a fuoco quello che c’è, piuttosto che quello che non c’è.”

Sarà vero?

 


Ma dove è la tecnologia?

Il Caffè dei Maledetti Fotografi  Spazio LABottega, Pietrasanta

Interviste dal vivo di Enrico Ratto

Mario Giacomelli

E la macchina fotografica ? Tu non hai una macchina come noi tutti, Kodak o Nikon o Leica.

Io non so cosa hanno gli altri. Io ho una macchina che ho fatto fabbricare, una cosa tutta legata con lo scotch, che perde i pezzi. Io non sono un amante di queste cose. Ho questa da quando ho iniziato, sempre la stessa. Con lei ho vissuto le cose, belle o brutte, con lei ho diviso tanti attimi della mia vita. Mi rattrista solo l’idea di staccarmi da lei.

Ma questa macchina da dove viene ?

L’ho fatta fare io. Ho smontato un’altra macchina di un amico mio, togliendo tutte le cose inutili. Per me l’importante è che ci sia la distanza e… cosa c’è d’altro? Io non so came funzionano queste cose. L’importante è che non passi la luce. È una cassa senza niente.

E che film ci metti ?

Quello che trovo.

Ma un film 35 millimetri ?

Non mi chiedere i millimetri. I film grandi, non quelli piccoli. Non il piccolo formato. Mai avuto.

Centoventi ?

Non mi dire mai i numeri! Io so solo una cosa: il sei per nove e ridotto a sei per otto e mezzo.

Cioè fai dodici foto con un rullino ?

Non ricordo. Mi sembra che ne faccia dieci, non dodici. Dieci immagini. Per me questo è importante. Una volta ho vinto un apparecchio di piccolo formato, in un concorso, ma non sono riuscito a fotagrafare, era troppo veloce, non c’era più la partecipazione come con la mia macchina, non avevo il tempo di pensare, scattavo quasi inutilmente. E perdevo la gioia più bella, che è questo aspettare, questo preparare l’immagine, girare, cambiare il rullino. Invece questa è giusta per me, per il mio carattere.

E che velocità ha questa macchina ? Un trentesimo? Un centesimo ?

Non ricordo. So che non arriva oltre il duecentesimo. Per fare i paesaggi dall’aereo, me ne faccio prestare un’altra, da un amico, ci sarebbe da vergognarsi, però non me ne frega niente. Per me va bene lo stesso, perché io, se potessi, fotograferei senza macchina, non ho questo grosso amore per la meccanica.

E il diaframma che apertura ha?

Secondo le volte. A Scanno, per esempio, le ho fatte quasi tutte a un venticinquesimo. In inverno faccio due e ventidue.

Diaframma ventidue e mezzo secondo.

So che c’è un due e un ventidue. È la chiusura dell’obiettivo, questo l’ho imparato a memoria.

Dunque chiudi completamente l’obiettivo.

Tutto chiuso, sempre uguale. Perché sono paesaggi. Invece quando faccio le figure no. Tengo l’obiettivo aperto perché c’è poca luce.

E i vecchi nell’ospizio?

I vecchi nell’ospizio è un altro discorso, adopero un lampo. Volutamente. Perché alla cattiveria di chi ha creato il mondo, di chi ci fa invecchiare, a questa cattiveria aggiungo anche la mia cattiveria. Non tanto per mostrare la materia della pelle, ma per aggiungere qualche cosa di ancora più forte, un contrasto. Il lampo modifica la realtà, la fa più mia.


Fotografia, dono o furto.

È luogo comune dire che la fotografia cattura o pesca o ancora ruba oggetti dalla realtà. La fotografia cattura, è vero, ma ciò che toglie alla realtà è una traccia potremmo dire quasi immateriale, una traccia di luce che inevitabilmente ciò che è presente nella realtà emana. Fare fotografie da un punto di vista materiale è un po’ come respirare. Se c’è un furto è un furto legato alla dimensione immateriale della realtà, a quello che oggi noi definiamo identità, un bene che da non molto tempo è stato riconosciuto e tutelato dalla legge in una forma ipergarantista, e ricondotto nella categoria della proprietà come lo sono tutti gli oggetti materiali. È questa attribuzione di proprietà all’identità che trasforma la fotografia di una sorta di furto. Il rapporto con l’identità delle persone e dei luoghi è un rapporto complesso che non può ridursi a semplice rapporto di proprietà. Intanto l’identità è una dimensione sociale dell’individuo o dell’oggetto, del luogo. Ciascuno di noi nel momento in cui scende in strada si espone allo sguardo degli altri e in questo esporsi, in questa relazione si crea l’identità; dietro questo rapporto c’è l’atteggiamento di socialità di cui l’uomo non può fare a meno. Anche per i luoghi potremmo dire la stessa cosa.

In linea di massima direi che la fotografia rientra nella categoria del dono, è legata a questa esposizione sociale inevitabile perché inevitabili sono gli sguardi e in questo atto sociale gratuito si crea l’identità. L’uso improprio o economicamente vantaggioso dello sguardo è un’altra cosa.

La fotografia è un dono inteso come scambio di beni finalizzato a creare relazioni, un’offerta di sé senza chiedere niente in cambio, ciò che si crea è una relazione basata sul sentimento di dipendenza da parte di chi riceve e sulla gratuità, sulla liberalità di colui che dona (Marcel Mauss) nel rispetto della volontà di chi dona. Si tratta quindi di capire quando dal dono si passa ad un altro tipo di scambio, allo scambio di equivalenti finalizzata alla creazione di una relazione di tipo economico. Solo in questo caso la fotografia può diventare un furto, quando nello scambio il rapporto di dipendenza diventa un rapporto di vantaggio soprattutto di carattere economico.


È una bella fotografia, somiglia ad un quadro

“È una bella fotografia, somiglia ad un quadro” è una frase comune che però rivela una concezione diffusa, quella della gerarchia delle immagini. Esiste un livello più basso, quello della produzione meccanica l’immagine, è un livello alto, quello della produzione manuale, fotografie più belle sono quelle che si avvicinano alla pittura e quindi all’arte.

Pittura e fotografia non sono gerarchicamente separate: sono due modalità diverse di costruire immagini, una legata in modo indissolubile soggetto che ne è la fonte, l’altra potenzialmente libera da questo vincolo. Una volta prodotta però anche la fotografia è una realtà immateriale visibile attraverso elementi materiali, una traccia di luce trasformata in punti luminosi o in segni d’inchiostro che acquista un senso per chi l’ha prodotta e per chi la guarda. Nella loro eterogeneità rimane una sorta di analogia che in ogni caso non può essere oggetto di una stratificazione gerarchica. Non è quindi possibile né distinguerle come indice e come immagine nè collocarle sullo stesso piano all’interno di una scala di valore.


Kudelka: l’improvvisazione

Il Caffè dei Maledetti Fotografi  

Spazio LABottega, Pietrasanta

Interviste dal vivo di Enrico Ratto

Io non cerco di comprendere. Per me la cosa più bella è svegliarmi, uscire e andare in giro a guardare. Guardare tutto. Senza che nessuno stia lì a dirmi: Devi guardare questo o quello. Io guardo tutto e cerco di trovare ciò che mi interessa, perché, all’inizio, non so cosa potrà interessarmi. Mi succede anche di fotografare dei soggetti che altri troverebbero stupidi, ma che, personalmente, mi permettono di mettermi in gioco. Henri (Cartier Bresson) dice che lui si prepara prima di incontrare qualcuno o di visitare un paese. Io no: io cerco di reagire a quello che si presenta. Poi tornerò, magari ogni anno, magari per dieci anni di seguito, e così finirò per comprendere.

Ci sono delle cose che mi piacciono molto, ma che non pratico. La musica l’ho sempre un po’ praticata e mi piacerebbe ascoltarne più spesso, ma non ne ho la possibilità, per mancanza di tempo e di spazio.  Quando ero ragazzo leggevo molto, durante i miei studi un po’ meno, da quando ho lasciato la Cecoslovacchia non leggo quasi più. Sempre per la stessa ragione: perché non ho un posto per me. Quando viaggio, non so dove dormirò e penso a dove coricarmi solo quando è il momento di aprire il mio sacco a pelo. È una regola che mi sono data. Mi sono detto che devo saper dormire bene dovunque, perché il sonno è importante. In estate spesso dormo fuori, smetto di lavorare quando non c’è più luce e ricomincio il mattino presto. Un giorno vivrò diversamente e allora ricomincerò a leggere. Non sento questo modo di vivere come un sacrificio: per me sarebbe un sacrificio vivere altrimenti. Per quanto riguarda i miei punti di riferimento… non so quali sono.

Non so cosa sia importante per le persone che guardano le mie foto. Quello che è importante per me, è il fatto di farle. Io lavoro sempre, ma non ci sono molte foto che trovo veramente buone. Non mi sento veramente un buon fotografo. Penso che chiunque, se lavorasse come lavoro io, potrebbe ottenere gli stessi risultati.
Ma io non lavoro per provare il mio talento. Io fotografo quasi tutti i giorni, tranne quando fa troppo freddo per viaggiare a modo mio, come in questo momento. Qualche volta faccio delle buone cose, altre volte no, ma penso che col tempo qualcosa verrà fuori dal mio lavoro: non ho angosce in questo senso. Faccio anche molte foto sulla mia vita, come quelle all’inizio del tascabile: i piedi, l’orologio.

Quando sono stanco mi corico e se ho voglia di fotografare e non c’è nessuno attorno a me, fotografo il mio piede. Non sono grandi foto: certi le detestano. Ma ho sempre fotografato i luoghi in cui ho dormito, gli interni in cui mi sono trovato. È una regola che mi sono data, per non dimenticare queste cose. Un giorno, forse, farò un libro con nient’altro che queste piccole foto. Questo irriterà molte persone che pensano a me come al fotografo degli Zingari e non vogliono vedermi diversamente. Ma non mi preoccupo di ciò che la gente pensa. Io non cerco di cambiare la gente, e neanche il mondo.


Fotografia e filosofia

Contrariamente a quanto molti studiosi e critici hanno affermato, abbarbicandosi ancora a una certa concezione hegeliana dell’arte (ossia al fatto che Hegel accennasse al tendere dell’arte del nostro – in realtà del “suo” – tempo verso la filosofia), ritengo che proprio l’opposto di quanto Hegel postulava stia verificandosi: ossia dopo un apparente tendere verso la filosofia di certe forme d’arte concettuale, di musica aleatoria, dodecafonica (forme artistiche in cui l’elemento concettuale, iperrazionale cercava di avere la meglio) oggi si assiste invece a una tendenza opposta: a una defilosofizzazione dell’arte, a una desemantizzazione della stessa e quindi a un recupero di quei valori magici, mitici, persino terapeutici […] che sono stati ignorati per troppo tempo mentre meritano di riprendere il loro giusto ruolo.

Gillo Dorfles, L’intervallo perduto, Milano, Skira 2006, p.170

Ma di fronte a questa concezione del rapporto fotografia – filosofia proposto da Luigi Ghirri che pone al centro della sua ricerca “il guardare”, ossia la capacità al contempo razionale ed emotiva di decifrare i dati raccolti attraverso la percezione, trasformandoli in pensiero visivo.

Una risposta forse è rintracciabile in Ghirri, L’opera aperta, 1984:

“La fotografia penso che sia un formidabile linguaggio visivo per poter incrementare questo desiderio di infinito che è in ognuno di noi. Come ho detto prima, una grande avventura del mondo del pensiero e dello sguardo, un grande giocattolo magico che riesce a coniugare miracolosamente la nostra adulta consapevolezza ed il fiabesco mondo dell’infanzia… Borges racconta di un pittore che volendo dipingere il mondo, comincia a fare quadri con laghi, monti, barche, animali, volti, oggetti. Alla fine della vita, mettendo insieme tutti questi quadri e disegni si accorge che questo immenso mosaico costituiva il suo volto. L’idea di partenza del mio progetto-opera fotografica può paragonarsi a questo racconto. L’intenzione cioè di trovare una cifra, una struttura per ogni singola immagine, ma che nell’insieme ne determini un’altra. Un sottile filo che leghi autobiografia ed esterno.”


Perché tanti fotografi?

Nell’epoca attuale, dominata dalla tecnostruttura, il cui scopo è quello di creare continuamente nuovi bisogni, lo sviluppo dell’industria fotografica è, fra tutte le industrie, uno dei più rapidi. L’immagine risponde al bisogno sempre più urgente dell’uomo di dare espressione alla propria individualità. Oggi, nonostante i continui miglioramenti della vita materiale, l’uomo si sente sempre meno implicato nel gioco degli eventi e relegato a una parte sempre più passiva. Fare fotografie gli sembra un’esteriorizzazione dei propri sentimenti, una sorta di creazione. Di qui il numero crescente di fotografi dilettanti che si calcola oggi a centinaia di milioni e che tende vieppiù ad aumentare.

Gisèle Freund, Fotografia e società, Torino, Einaudi 2007, p.5


Vero e falso in fotografia

Realtà e finzione: il rapporto sempre più sottile che intercorre tra vero e falso è divenuto una costante nella percezione contemporanea del mondo, specie in fotografia, complice l’ambiguità che da sempre caratterizza questo linguaggio.

Da “Generazione critica”

Il Caffè dei Maledetti Fotografi  

Spazio LABottega, Pietrasanta

Interviste dal vivo di Enrico Ratto

John G. Morris: la verità viene prima della bellezza?

Pensa che oggi ci sia una differenza tra fotografia e immagine?

Io uso indifferentemente i termini fotografia e immagine. Se intende dire che l’immagine è una fotografia alterata, o ritoccata, in realtà semplicemente non credo nell’utilizzo o nell’efficacia di Photoshop nel fotogiornalismo.

Il fotogiornalismo dev’essere descrizione pura della realtà? 

Penso che il fotogiornalismo debba solo raccontare la Storia. Per esempio le 11 fotografie del D-Day di Robert Capa, le uniche che quel giorno si sono salvate e che ho curato nella redazione londinese di LIFE,  pur rovinate, quasi per niente nitide, non le considero astratte. Raccontano perfettamente la Storia.

Una fotografia è bella o è vera?

Quando guardo una foto, voglio solo sapere che cosa la foto vuole dirmi, il suo messaggio. La verità viene prima della bellezza.

Ferdinado Scianna: la verità viene prima della bellezza?

Che rapporto c’è tra bellezza e verità in una fotografia? Lei direbbe mai di una donna se è bella o vera? O di un film. O della Guernica di Picasso: è bella o vera? Che cosa c’è di più inutile di una fotografia bella. E dire che è vera, è un abuso. La foto è credibile, funzionale, tenta una possibile verità fotografica, parziale, soggettiva. La fotografia è traccia e forma. Se è bella senza raccontare, non serve a niente. E d’altra parte non può servire nemmeno se racconta qualcosa senza una sua dimensione formale.

massimocec