Una poesia di Federico García Lorca

Federico García Lorca, 1898-1936. (Photo by: Universal History Archive/Universal Images Group via Getty Images)

Nell’anniversario della fucilazione di Lorca, all’inizio della guerra civile spagnola, lo ricordiamo con una sua poesia, nella speranza che poi venga la voglia di conoscere di più il suo autore e di leggere ancora qualcosa della sua opera.

Il diciannove di agosto millenovecentotrentasei Federico García Lorca, poeta, musicista, pittore e drammaturgo, fu assassinato presso Granada dai gendarmi franchisti.

Un gruppo di amici mi ha invitato a una serata in suo ricordo dove ognuno di noi legge una sua poesia. Per caso ne ho trovata una che ritagliai da un giornale dieci anni fa e la depositai tra le pagine di un mio quaderno per metterla al sicuro, come un bene rifugio. Si intitola “Casida de las palomas oscuras”. Mi piace partecipare a un ricordo di García Lorca con le sue parole, per me oscure come le colombe del titolo della poesia, e non è colpa del caldo. Il significato profondo penso sia ignoto non solo a noi che oggi leggiamo un classico come Lorca, ma forse anche al suo stesso autore nel momento in cui la scriveva, quasi che fosse soltanto una mano che scrive sotto dettatura di qualcosa, non so dire cosa. Leggiamo la traduzione del breve testo, ventidue versi in tutto.

 

Federico García Lorca

da Diván del Tamarit (1934)

 

Qasida delle colombe oscure

 

Tra i rami dell’alloro

Vidi due colombe oscure.

Una era il sole,

l’altra la luna.

“Commarelle”, gli dissi,

“dov’è la mia sepoltura?”

“nella mia coda”, disse il sole.

“Nella mia gola”, disse la luna.

E io che stavo camminando

con la terra alla cintura

vidi due aquile di neve

e una ragazza nuda.

Una era l’altra

e la ragazza era nessuna.

“Aquilette”, gli dissi,

dov’è la mia sepoltura?”

“Nella mia coda”, disse il sole.

“Nella mia gola”, disse la luna.

Tra i rami dell’alloro

Vidi due colombe nude.

Una era l’altra

e le due erano nessuna.

 

 

La pubblicazione era a cura di Walter Siti, accompagnata da qualche dato, poche caratteristiche tecniche e un “commento alla buona, parlando come viene, anche dei classici, senza timori reverenziali e accademici (…). Cercando di trovare in ogni testo qualcosa che sia emozionante qui e ora con qualche sfacciataggine”.

Una prima versione del testo, con qualche variante, si intitolava Canzone. Divan in arabo significa Canzoniere. Il Diván del Tamarit è una raccolta scritta da Lorca poco prima di morire, a trentotto anni, e pubblicata postuma nel 1940. Il Diván è attraversato dalla sofferenza dell’erotismo, con titoli che si richiamano “all’amore disperato e all’amore che non si lascia vedere”, avverte Siti.

A una prima lettura la poesia sembra un nonsense infantile. Non a caso è dedicata proprio a un bambino “A Carlo Guillen, bambino in Siviglia”, figlio dell’amico e poeta Jorge Guillen e allievo di Francisco García Lorca, fratello di Federico. Eppure, che gran poesia questa poesia senza logica, misteriosa, oscura, con gli uccelli che parlano e si trasformano: le colombe diventano aquile e alla fine sono nude e si sciolgono.

Nei versi iniziali le colombe oscure sono il sole e la luna, principio maschile e femminile. Stanno l’uno accanto all’altra tra i rami dell’alloro. Poi incontrano due aquile, forti e delicate come la neve e una ragazza nuda. Le due colombe possono sciogliersi l’una nell’altra “e la ragazza era nessuna”, sparisce.

Nei due versi finali il categorico principio di identità è saltato: “Una era l’altra / e le due erano nessuna”, commenta Siti, che poi annota: “notte oscura” era chiamato dal mistico Juan del la Cruz “l’attimo di congiunzione amorosa dell’animo con Dio”. Subito dopo Siti aggiunge: “Nel 1983 sono stati finalmente pubblicati i Sonetti dell’amore oscuro: undici sonetti (fino ad allora censurati) in cui Lorca esprime apertamente l’amore per un uomo “giovane segretario alla Barraca, il teatro di cui Lorca era direttore”. È un amore infelice, perché l’amato ama a sua volta le donne e con esse lo tradisce: ride mentre Lorca piange (“le mie lamentele / erano colombe alla catena”).

Ecco la chiave di lettura che ci fornisce Walter Siti: “Insomma, propongo di leggere l’oscurità di questa poesia come l’immaginifica trascrizione della difficoltà di affermare un amore puro e sensualmente metafisico, al di là della banale opposizione dei sessi”. E poi riporta una frase tratta da un’intervista di Lorca: “normale non è l’amore omosessuale né quello eterosessuale: normale è l’amore senza limiti”.

Alla fine ci sono due colombe nude che fanno tenerezza, ma nella poesia risuona un’unica domanda che il protagonista rivolge alle colombe e alle aquile: “dov’è la mia sepoltura?”.  La tomba è sempre nell’oscurità: nella coda del sole e nella gola della luna. Dov’è la mia tomba? Domanda terribile, se si ricorda che il corpo di Lorca fu gettato in una fossa comune e ancora non è stato ritrovato.

Con un rapido tocco da maestro Siti spiega che questo aspetto dell’oscurità segnala un’altra fonte della poesia di Lorca, il surrealismo. “Il suo è un surrealismo laterale e allo stato nascente, antiscolastico e sentimentale”. Una delle ultime poesie di Lorca è Congedo: “Se muoio, / lasciate il mio balcone aperto // Il bambino mangia arance (Dal mio balcone lo vedo). // (Il mietitore taglia il grano / Dal mio balcone lo sento). // Se muoio, / lasciate il mio balcone aperto”.

Siti conclude preso da un dubbio sul fatto “che molto surrealismo programmatico sia stato un gigantesco fenomeno difensivo (sociale in questo caso): rispetto alle semplici terribili verità del totalitarismo in Europa”.

 

Forse è venuto il momento di sentire la musica di questa poesia provando a leggerla ad alta voce in lingua originale e, grazie anche al commento di Walter Siti, scoprire qualcosa che ci era sfuggito in un altro tempo e sentire che ora ci emoziona.

 

Federico García Lorca

da Diván del Tamarit (1934)

 

 

Qasida de las palomas oscuras

 

Por las ramas del laurel

Vi dos palomas oscuras.

La una era el sol,

la otra la luna.

“Vecinitas”, les dije,

“¿dónde está mi sepultura?»

“En mi cola”, dijo el sol.

“En mi garganta”, dijo la luna.

Y yo que estaba caminando

con la tierra por la cintura

vi dos águilas de nieve

y una muchacha desnuda.

La una era la otra

y la muchacha era ninguna.

“Aguilitas”, les dije,

“¿dónde está mi sepultura?”

“En mi cola”, dijo el sol.

“En mi garganta”, dijo la luna.

Por las ramas del laurel

vi dos palomas desnudas.

La una era la otra

y las dos eran ninguna.

 

 

Post scriptum

Antonio Tabucchi, nel corso di una cerimonia di premiazione nel 2001, lesse il racconto Diciannove di agosto, una storia di finzione in cui uno zingaro racconta allo scrittore di aver assistito, in gioventù, a Granada, all’uccisione del poeta Federico García Lorca. Il racconto è stato pubblicato nella nuova edizione de “Gli Zingari e il Rinascimento”.

 


La bellezza del quotidiano

Crespi cattura in questo quadro un brandello di realtà, forse uno squarcio della Bologna settecentesca, un’immagine della vita quotidiana che oggi potrebbe essere oggetto della fotografia di strada.

La scena si svolge nel cortile di una casolare di campagna, sembra una casa malridotta, malsana. Una donna sulla sinistra, impegnata a lavare panni, se la prende con l’uomo sulla destra che sta urinando al muro, sembra che voglia lanciargli contro l’oggetto che ha in mano. Un gatto bianco si affaccia dalla finestrella poco sopra la testa dell’uomo allungando la zampa (è infastidito, vuol giocare?). Un’altra donna sotto il porticato guarda la scena. Una scena banale che viene trasformata in qualcosa d’altro dal modo in cui viene rappresentata. C’é indugio sui particolari che dà vita alle cose, dà loro dignità. Lo sguardo crea le cose non nel senso in cui l’idealismo vede il rapporto tra pensiero e realtà ma nel senso che ciò che conta è il modo in cui l’oggetto viene guardato . Nel “De visione Dei” Nicola Cusano afferma a proposito di Dio e dell’uomo “io sono perché tu mi guardi”. Lo sguardo è un gesto d’amore che dà vita all’oggetto guardato. Montanari nel suo testo L’ora d’arte dice del quadro di Crespi  “è una poesia che accarezza la povera materia di cui sono fatti i nostri giorni. E ne svela la bellezza semplice”. La bellezza non è una proprietà dell’oggetto ma dello sguardo che scopre l’oggetto e lo trasforma in soggetto. Il quotidiano in sé è un dato e può essere terribile o affascinante. Purtroppo spesso non siamo noi a scegliere lo sguardo con cui il quotidiano ci appare, ma noi possiamo cercare di non perdere le occasioni, fortunate contingenze, che ci consentono di gettare sulle cose sguardi luminosi in grado di svelare la bellezza del mondo e della vita. La pittura, la fotografia, la filosofia, la letteratura sono strumenti per creare queste fortunate contingenze.

massimocec ottobre 2021


Fotografare e dipingere oggetti insignificanti

Perché dobbiamo interessarci degli oggetti insignificanti, delle situazioni di vita quotidiana, perché dibbiamo dipingerli, fotografarli. La pittura ad esempio fino al Seicento è stata una pittura prevalentemente finalizzata all’esaltazione del sacro, dell’epico, del potere. Dal Seicento ha iniziato a fasi strada una pittura attenta al quotidiano, agli oggetti della vita quotidiana. E’ la sfida tecnica che spinge questi pittori a interessarsi del quotidiano, la sfida della rassomiglianza, dell’immagine che sfida l’occhio dell’osservatore a distinguere l’immagine dalla realtà? Se fosse questa la spinta la fotografia sarebbe l’esito felice del percorso intrapreso dai pittori oltre quattro secoli fa. Ma allora avrebbe ragiona Pascal nei Pensieri a dire “”Quanta vanità nella pittura che suscita ammirazione per la rassomiglianza con cose di cui non ammiriamo affatto gli originali.”. Che cosa altro può esserci? Non è forse il tentativo di elevare il quotidiano ad un livello più alto, estetico ed etico, un altro modo di gettare uno sguardo sulla vita?

massimocec ottobre 2020


Sono un uomo di campagna e vorrei riuscire a fotografare questa mia natura

Io sono in fondo un uomo generato dalla campagna e sostanzialmente estraneo alla città e al suo spirito. Il mio mondo d’origine è quello contadino. Ma la mia campagna, lo devo riconoscere, non è una campagna reale, è la campagna della libertà e del silenzio, degli stati d’animo di quel bambino solitario che veniva lasciato solo a girovagare per i campi in compagnia di un piccolo cane, la campagna degli sterminati campi interrotti da piccoli agglomerati sparsi come isole in mezzo al mare o come i paesi che si incontrano sulle montagne. Nelle fotografie forse cerco di rappresentare questo miraggio di libertà, di silenzio, di luoghi dove poi, dopo aver girovagato nello spazio vuoto e silenzioso, è possibile incontrarsi, raccontarsi, ascoltare, comunicare e tali luoghi non possono che essere a misura d’uomo, nidi sparsi e accoglienti come lo sono i vecchi rifugi di montagna.

massimocec ottobre 2020


LULA

Marina di Pisa, luglio 2010 – San Giuliano, giugno 2012. Era una gattina così chiamata in omaggio all’ex operaio metalmeccanico diventato Presidente del Brasile. Era affettuosa, piccolina e piena di vita. Il giorno di Natale cadde dal tetto, fu amorevolmente curata, ma rimase con una zampina rigida, come una ballerina. Zoppin zoppetto è vissuta per due anni. Amava la vita gattosa e le piccole grandi cose di cui la vita di un gatto è fatta. Le piaceva acciambellarsi sul divano, sdraiarsi sull’amaca in giardino, stare all’aria aperta e giocare con l’altra gattina Paolina, che ora piange la sua scomparsa come la piangiamo noi. Ora riposa sotto l’ulivo, dove un giorno si arrampicò e non riuscì a scendere se non con l’aiuto di Laura. Le rimase per sempre la paura del vuoto e dell’abisso. Che, forse, sono anche le nostre paure.

Odellac Maggio 2018


Esche fotografiche per ricordi

Strani legami con un lontano immaginario mondo infantile in un estate afosa e immobile, imbalsamata dalla sensazione del tempo che passa. Una fotografia esca di ricordi, di immagini di volti che non ci sono più ma che rimangono presenti. Questa foto richiama i miei disegni realizzati con piacere nelle sere invernali intorno a un tavolo accanto a persone intente alle loro occupazioni ma presenti. Colori accesi, Casupole smilze e longilinee che occupano tutto lo spazio. Sembra la foto di un ricordo visivo e invece è la foto di un pezzetto di realtà. 743deaaf5c8b14743a871836f8db7bSi sa che la fotografia è solo un pretesto per dar sfogo all’immaginazione e che l’immaginazione è l’unico strumento che abbiamo per dialogare con una realtà infinita che non si lascia cogliere se non per sporadiche tracce, complicati indizi, dal finito dei nostri pensieri e dei nostri artifici che abbiamo architettato per afferrarla. L’artificio poi una volta prodotto è in grado di andare oltre e creare, nel suo dialogo con i soggetti con cui viene a contatto, altre realtà. Le fotografie sono quindi esche e nessuno sa cosa abboccherà. Nonostante ciò grazie a loro riusciamo a dialogare con la realtà e anche con quella particolare realtà che siamo noi stessi.
Fotografia: Bosa, di Marco Carmassi


Fotografi e filosofi

Robert  Adams “Lungo i fiumi”

“I fotografi, diversamente dai filosofi, cercano di mettere a fuoco quello che c’è, piuttosto che quello che non c’è.”

Sarà vero?

 


Ma dove è la tecnologia?

Il Caffè dei Maledetti Fotografi  Spazio LABottega, Pietrasanta

Interviste dal vivo di Enrico Ratto

Mario Giacomelli

E la macchina fotografica ? Tu non hai una macchina come noi tutti, Kodak o Nikon o Leica.

Io non so cosa hanno gli altri. Io ho una macchina che ho fatto fabbricare, una cosa tutta legata con lo scotch, che perde i pezzi. Io non sono un amante di queste cose. Ho questa da quando ho iniziato, sempre la stessa. Con lei ho vissuto le cose, belle o brutte, con lei ho diviso tanti attimi della mia vita. Mi rattrista solo l’idea di staccarmi da lei.

Ma questa macchina da dove viene ?

L’ho fatta fare io. Ho smontato un’altra macchina di un amico mio, togliendo tutte le cose inutili. Per me l’importante è che ci sia la distanza e… cosa c’è d’altro? Io non so came funzionano queste cose. L’importante è che non passi la luce. È una cassa senza niente.

E che film ci metti ?

Quello che trovo.

Ma un film 35 millimetri ?

Non mi chiedere i millimetri. I film grandi, non quelli piccoli. Non il piccolo formato. Mai avuto.

Centoventi ?

Non mi dire mai i numeri! Io so solo una cosa: il sei per nove e ridotto a sei per otto e mezzo.

Cioè fai dodici foto con un rullino ?

Non ricordo. Mi sembra che ne faccia dieci, non dodici. Dieci immagini. Per me questo è importante. Una volta ho vinto un apparecchio di piccolo formato, in un concorso, ma non sono riuscito a fotagrafare, era troppo veloce, non c’era più la partecipazione come con la mia macchina, non avevo il tempo di pensare, scattavo quasi inutilmente. E perdevo la gioia più bella, che è questo aspettare, questo preparare l’immagine, girare, cambiare il rullino. Invece questa è giusta per me, per il mio carattere.

E che velocità ha questa macchina ? Un trentesimo? Un centesimo ?

Non ricordo. So che non arriva oltre il duecentesimo. Per fare i paesaggi dall’aereo, me ne faccio prestare un’altra, da un amico, ci sarebbe da vergognarsi, però non me ne frega niente. Per me va bene lo stesso, perché io, se potessi, fotograferei senza macchina, non ho questo grosso amore per la meccanica.

E il diaframma che apertura ha?

Secondo le volte. A Scanno, per esempio, le ho fatte quasi tutte a un venticinquesimo. In inverno faccio due e ventidue.

Diaframma ventidue e mezzo secondo.

So che c’è un due e un ventidue. È la chiusura dell’obiettivo, questo l’ho imparato a memoria.

Dunque chiudi completamente l’obiettivo.

Tutto chiuso, sempre uguale. Perché sono paesaggi. Invece quando faccio le figure no. Tengo l’obiettivo aperto perché c’è poca luce.

E i vecchi nell’ospizio?

I vecchi nell’ospizio è un altro discorso, adopero un lampo. Volutamente. Perché alla cattiveria di chi ha creato il mondo, di chi ci fa invecchiare, a questa cattiveria aggiungo anche la mia cattiveria. Non tanto per mostrare la materia della pelle, ma per aggiungere qualche cosa di ancora più forte, un contrasto. Il lampo modifica la realtà, la fa più mia.


Fotografia, dono o furto.

È luogo comune dire che la fotografia cattura o pesca o ancora ruba oggetti dalla realtà. La fotografia cattura, è vero, ma ciò che toglie alla realtà è una traccia potremmo dire quasi immateriale, una traccia di luce che inevitabilmente ciò che è presente nella realtà emana. Fare fotografie da un punto di vista materiale è un po’ come respirare. Se c’è un furto è un furto legato alla dimensione immateriale della realtà, a quello che oggi noi definiamo identità, un bene che da non molto tempo è stato riconosciuto e tutelato dalla legge in una forma ipergarantista, e ricondotto nella categoria della proprietà come lo sono tutti gli oggetti materiali. È questa attribuzione di proprietà all’identità che trasforma la fotografia di una sorta di furto. Il rapporto con l’identità delle persone e dei luoghi è un rapporto complesso che non può ridursi a semplice rapporto di proprietà. Intanto l’identità è una dimensione sociale dell’individuo o dell’oggetto, del luogo. Ciascuno di noi nel momento in cui scende in strada si espone allo sguardo degli altri e in questo esporsi, in questa relazione si crea l’identità; dietro questo rapporto c’è l’atteggiamento di socialità di cui l’uomo non può fare a meno. Anche per i luoghi potremmo dire la stessa cosa.

In linea di massima direi che la fotografia rientra nella categoria del dono, è legata a questa esposizione sociale inevitabile perché inevitabili sono gli sguardi e in questo atto sociale gratuito si crea l’identità. L’uso improprio o economicamente vantaggioso dello sguardo è un’altra cosa.

La fotografia è un dono inteso come scambio di beni finalizzato a creare relazioni, un’offerta di sé senza chiedere niente in cambio, ciò che si crea è una relazione basata sul sentimento di dipendenza da parte di chi riceve e sulla gratuità, sulla liberalità di colui che dona (Marcel Mauss) nel rispetto della volontà di chi dona. Si tratta quindi di capire quando dal dono si passa ad un altro tipo di scambio, allo scambio di equivalenti finalizzata alla creazione di una relazione di tipo economico. Solo in questo caso la fotografia può diventare un furto, quando nello scambio il rapporto di dipendenza diventa un rapporto di vantaggio soprattutto di carattere economico.


È una bella fotografia, somiglia ad un quadro

“È una bella fotografia, somiglia ad un quadro” è una frase comune che però rivela una concezione diffusa, quella della gerarchia delle immagini. Esiste un livello più basso, quello della produzione meccanica l’immagine, è un livello alto, quello della produzione manuale, fotografie più belle sono quelle che si avvicinano alla pittura e quindi all’arte.

Pittura e fotografia non sono gerarchicamente separate: sono due modalità diverse di costruire immagini, una legata in modo indissolubile soggetto che ne è la fonte, l’altra potenzialmente libera da questo vincolo. Una volta prodotta però anche la fotografia è una realtà immateriale visibile attraverso elementi materiali, una traccia di luce trasformata in punti luminosi o in segni d’inchiostro che acquista un senso per chi l’ha prodotta e per chi la guarda. Nella loro eterogeneità rimane una sorta di analogia che in ogni caso non può essere oggetto di una stratificazione gerarchica. Non è quindi possibile né distinguerle come indice e come immagine nè collocarle sullo stesso piano all’interno di una scala di valore.