Vero e falso in fotografia

Realtà e finzione: il rapporto sempre più sottile che intercorre tra vero e falso è divenuto una costante nella percezione contemporanea del mondo, specie in fotografia, complice l’ambiguità che da sempre caratterizza questo linguaggio.

Da “Generazione critica”

Il Caffè dei Maledetti Fotografi  

Spazio LABottega, Pietrasanta

Interviste dal vivo di Enrico Ratto

John G. Morris: la verità viene prima della bellezza?

Pensa che oggi ci sia una differenza tra fotografia e immagine?

Io uso indifferentemente i termini fotografia e immagine. Se intende dire che l’immagine è una fotografia alterata, o ritoccata, in realtà semplicemente non credo nell’utilizzo o nell’efficacia di Photoshop nel fotogiornalismo.

Il fotogiornalismo dev’essere descrizione pura della realtà? 

Penso che il fotogiornalismo debba solo raccontare la Storia. Per esempio le 11 fotografie del D-Day di Robert Capa, le uniche che quel giorno si sono salvate e che ho curato nella redazione londinese di LIFE,  pur rovinate, quasi per niente nitide, non le considero astratte. Raccontano perfettamente la Storia.

Una fotografia è bella o è vera?

Quando guardo una foto, voglio solo sapere che cosa la foto vuole dirmi, il suo messaggio. La verità viene prima della bellezza.

Ferdinado Scianna: la verità viene prima della bellezza?

Che rapporto c’è tra bellezza e verità in una fotografia? Lei direbbe mai di una donna se è bella o vera? O di un film. O della Guernica di Picasso: è bella o vera? Che cosa c’è di più inutile di una fotografia bella. E dire che è vera, è un abuso. La foto è credibile, funzionale, tenta una possibile verità fotografica, parziale, soggettiva. La fotografia è traccia e forma. Se è bella senza raccontare, non serve a niente. E d’altra parte non può servire nemmeno se racconta qualcosa senza una sua dimensione formale.

massimocec


La monotonia della fotografia

anche se  il continuo mutamento della superficie della vita garantisce che la fotografia non potrà ripetersi finché che la pratica avrà coraggio, non è forse vero che, data la natura dell’apparecchio, essa non può che produrre uno stile invariabile – la cosidetta “fotografia diretta” – che alla fine risulterà monotono?

…Quanto ai limiti della fotografia e alla questione dell’invariabilità del suo stile, credo tuttavia che vi sia del vero. A giudicare da un secolo e mezzo di esperienza si può dire che prevale un approccio caratterizzato dalla visione diretta, che ogni tanto viene a noia anche a me. La fotografia è un mezzo freddo, può essere espressivo, ma relativamente meno di altri, e a volte preferisco il calore di un segno a matita o di una pennellata. E’ però evidente che all’interno di questo stile immutabile sono possibili variazioni importanti: cose nuove che si verificano nel modo in cui i fotografi presentano antiche verità. L’uso di una inquadratura spinta, per esempio, è una naturale conseguenza dello sviluppo della fotografia, peraltro non trascurato dai pittori. Lo stesso vale per il diverso uso del colore e quello sempre più raffinato del flash. In concreto, ogni bravo fotografo cambia anche solo di poco la tecnica di approccio.

Rimane comunque essenziale il fatto che, in arte, lo stile non è mai importante in quanto tale. Per se stesso non può nemmeno essere capito, il che spiega l’equivoco pirandelliano sul significato di certa pittura contemporanea essenzialmente decorativa. Ma se i percorsi stilistici della fotografia sono limitati, almeno per certi versi e comunque rispetto alla pittura, le sue opportunità di essere nuova sono ampliate sorprendentemente dai modi in cui una particolare impostazione può combinarsi con la grande varietà dei soggetti potenzialmente accessibili all’apparecchio; una varietà molto più grande che in pittura.

Robert Adams, La bellezza in fotografia, Torino, Bollati Boringhieri 1995, pagg.  49 e 50

 

Se Robert Adams ha ragione, la fotografia gioca su tre variabili per non cadere nella monotonia: il soggetto, il come della raffigurazione del soggetto (la grammatica e la sintassi del linguaggio fotografico) e la tecnologia.

massimocec


Senso di realtà e senso del possibile

_MG_6595Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta aperta deve tener presente il fatto che gli stipiti sono duri: questa massima alla quale il vecchio professore si era sempre attenuto è semplicemente un postulato del senso della realtà. Ma se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità.  Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o tal altra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: beh, probabilmente potrebbe anche esser diverso. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe essere, e di non dar maggior importanza a quello che è, che a quello che non è” (da L’uomo senza qualità, trad. A. Rho, Torino, Einaudi, 1972)

È innegabile che per varcare una porta aperta senza subire danni è necessario tener presente che gli stipiti sono duri, e questo è il senso di realtà, senso che non può essere accantonato altrimenti le cose prendono il sopravvento e ci possono distruggere. Ma il senso di realtà non è sufficiente per vivere pienamente la propria esistenza perché le cose prendono il sopravvento anche se consideriamo gli stipiti come unico modo di manifestarsi di quella porta aperta. La porta è anche vuoto, mera possibilità di andare oltre. E ciò che troviamo oltre gli stipiti altro non è che una nuova manifestazione della stessa realtà. Il senso del possibile non è legato alla mera possibilità di evadere nella fantasia e nel sogno, ma è la capacità di vedere la realtà come un insieme di aspetti che cambiano, che si rivelano continuamente nuovi perché stanno oltre quella porta aperta, anche quando apparentemente rimangono gli stessi.

La realtà è sempre qualcosa di nuovo. Il tabaccaio Auggie nel film Smoke di Wayne Wang fotografa tutti i giorni alla stessa ora lo stesso punto di Brooklyn all’angolo tra la Settima Avenue e la Terza Strada. E quando il suo amico scrittore gli chiede perché tutti i giorni fotografi lo stesso punto della città che rimane sempre uguale, il filosofo tabaccaio risponde che non è così perché tutti i giorni c’è qualcosa di nuovo che vale la pena di essere fotografato. La realtà non si ripete meccanicamente, il suo manifestarsi è qualcosa di inaspettato e la fotografia è uno strumento per esplorare le infinite possibilità di mostrarsi delle cose. La fotografia è uno strumento per esplorare il senso del possibile perché da un lato essa non può fare a meno della realtà per esistere, per materializzarsi in un’immagine, e dall’altro non può fare a meno di rappresentare questa realtà in una forma ambigua, in un elemento surreale perché ogni fotografia e sempre un’astrazione, una segmentazione, un ritaglio della realtà. Ogni fotografia è un frammento di realtà isolato dalla continuità spazio-temporale, un frammento collocato in una dimensione in cui le indicazioni di spazio di tempo diventano labili. Gli oggetti sono separati dal loro contesto più ampio e diventano apparenze momentanee trasformate in oggetti materiali, solidificati.

L’esplorazione del senso del possibile quindi non è fuga nella fantasia, nell’immaginazione onirica ma è esplorazione delle molteplici possibilità con cui la realtà può manifestarsi perché la realtà non è solo un dato ma è il prodotto di relazioni e di una costruzione in cui i soggetti che la abitano giocano un ruolo attivo. Ogni soggetto che vive nella realtà è immerso in essa, circondato da altri soggetti, dalle cose, dagli sguardi, dai contatti diretti e a distanza con il mondo, ma la sua è un’immersione attiva, che modifica le relazioni e quindi il manifestarsi delle cose.

La realtà è un insieme di relazioni che possono rivelarsi come nuove, inusuali, inaspettate e la fotografia può aiutare a scoprirle, a renderle percepibili, visibili. Accostamenti inusuali di oggetti che rimandano a rapporti di non abituali, a scambio di ruoli, a punti di vista insoliti, l’isolamento di oggetti dal loro contesto che li trasfigura, mutando la loro identità non sono bizzarre invenzioni di avanguardie artistiche ma modalità di osservazione lente, riflessive, pensate della realtà, modalità che consentano alla mente di superare gli stereotipi visivi che ci tengono lontani dallo sbattere contro lo stipite ma non ci fanno andare oltre la porta aperta che sta davanti a noi.

Massimo Ceccanti


Lamp

lamp

Quando ho visto questa foto sono rimasto stupito.

Lamp è l’inconscio visivo che emerge dai ricordi nascosti della mente, dall’immagine introiettata di un dipinto?

Lamp è la foto di una ragazzina che oramai si avvicina a non esserlo più che sta esplorando i confini della sua immaginazione?

Lamp è la foto di una abitudine al guardare e al vedere?

Lamp è la foto corale di un rapporto tra genitori e figlia, difficile, ma che mostra il tessuto di cui è fatto?

Lamp è il prodotto di un amore, amore per l’arte, amore per i figli?

Lamp è il prodotto della creatività personale di quella ragazza che in poco tempo è divantata adulta quasi senza che me ne rendessi conto?

Qualunque cosa sia, grazie Laura.

 

Massimocec gennaio 2013