Una descrizione della memoria che mi sembra azzeccata l’ho trovata in un racconto della raccolta “Racconti con figure” di Antonio Tabucchi Sera di pioggia su una diga d’Olanda:
Sembra di essere in un romanzo di Simenon, disse l’uomo, la sera di pioggia, le cittadine di provincia che abbiamo attraversato, la diga d’Olanda, questa mia pipa.
A proposito, scusa, ti dà noia se fumo? Spense l’automobile e mise i fari di posizione.
…
Ti ricordi Arles?
Era il cinquantotto, disse lei.
No, ribattè lui con convinzione, era il cinquantanove.
No, disse lei con dolcezza, era il cinquantotto, nel cinquantanove siamo stati a Saint-Rémy, a visitare l’asilo psichiatrico di Saint-Paul-de-Mausole, e poi a Auvers-sur-Oi- se, dove lui morì, a Arles ci siamo stati nel cinquantotto, era settembre.
L’uomo si grattò la testa e si sistemò il nodo della cravatta.
Nel mio ricordo avevo invertito gli anni, disse, ma come al solito hai ragione tu.
E che io ho tenuto un diario, disse lei, tutto qui. …
Avrei dovuto tenerlo anch’io, disse lui senza rispondere alla domanda, invece tutto quel periodo è affidato solo alla memoria, e la memoria è piena di buchi, si sa, è fatta di detriti.
Anche i diari sono pieni di buchi, disse lei, cosa credi?, a volte ho tentato di rileggere il mio diario per riafferrare quei giorni ed è pieno di buchi, sono solo lacerti, mi pare addirittura che lo abbia scritto un’altra persona, voglio dire la stessa persona che è anche un’altra persona.
…
E così hai le foto di quei tempi?
Tutte, tutta la nostra Provenza. Potrei farne una copia e mandartele. Non so, disse lei, forse è meglio di no, forse preferisco guardare con l’occhio della memoria. Però mi piacerebbe averne una di te, del tuo viso di allora.
Ho un autoritratto che feci allo specchio in un albergo di Arles, sussurrò lui, ti ricordi?, ricordi che albergo era?
Il nome non lo ricordo, ma era in rue Lépic, era senz’altro in rue Lépic.
Come fai a ricordarti il nome della strada?
Perché in quella stessa strada lui aveva abitato e dipinto, disse lei, aveva un atelier sull’angolo di rue Lépic e noi ci fermammo in un alberghetto di quella stessa via perché ci parve di buon auspicio.
Fu di buon auspicio?
Lei fece finta di non avere capito.
Fu di buon auspicio?, ripetè lui a voce più alta.
Sì, certo, disse lei, è stata una cosa bellissima, solo che le lancette ingoiano tutto in un attimo, è terribile, non ti pare?
Terribile cosa?, disse lui.
Così, disse lei. Uno attraversa la vita quasi senza accorgersene, e poi ci ripensa dopo, quando la vita è passata.
…
Ti ricordi L’Anguille?, chiese lei.
Certo, disse lui, era un ristorante, ma non era a Arles, dov’era e com’era?, aiutami a ricordarlo meglio.
…
Nel leggere questo breve racconto la mia memoria è andata a ripescare un’immagine, la fotografia di un auto ferma davanti ad un paesaggio marino con a bordo due ospiti apparentemente immobili con lo sguardo fisso sulla distesa marina scattata da Gianni Berengo Gardin. La prima sensazione che la foto ha suscitato in me è stata quella di una sorta di disagio malinconico legato alla percezione di solitudine, incomunicabilità. E la mia memoria oramai si muove in uno scenario simile a quello della foto di Berengo Gardin, una memoria “piena di buchi … fatta di detriti”. E i detriti altro non sono che i ricordi, frammenti di un passato che procedono per associazioni, visti attraverso un prisma che li deforma, li scompone, li rielabora, li proietta su uno schermo che si accende e si spegne spesso casualmente, altre volte invece grazie a impulsi occasionali. E la memoria porta con sé continuamente la percezione di un tempo che scorre, un tempo oramai vissuto che può essere recuperato solo grazie alla presenza di questo grande schermo che funziona a scatti, senza continuità, senza la possibilità di distinguere il dato brutale dalla cornice che lo avvolge, lo ritaglia, lo trasforma.
Ancora Tabucchi in un altro breve testo, Messaggio dalla penombra, contenuto nella raccolta I volatili di Beato Angelico descrive un particolare stato che lui definisce penombra:
“… Mi è dato di ripercorrerlo, questo tempo che più non è mio e che è stato nostro, ed esso corre svelto all’interno dei miei occhi: così rapido che io vi scorgo paesaggi e luoghi che abbiamo abitato, momenti che abbiamo diviso, e anche i nostri discorsi di un tempo, ricordi?, parlavamo dei parchi di Madrid e di una casa di pescatori dove avremmo voluto vivere, e dei mulini a vento, e delle scogliere a picco sul mare una notte d’inverno quando mangiammo il pancotto, e della cappella con gli ex-voto dei pescatori: madonne dal volto di popolane e naufraghi come burattini che si salvano dai flutti attaccandosi a un raggio di luce piovuta dal cielo. Ma tutto questo che mi passa dentro gli occhi, e che io pure decifro con esattezza minuziosa, è così rapido nella sua inarrestabile corsa che è solo un colore: è il malva del mattino sull’altopiano, è lo zafferano nei campi, è l’indaco di una notte di settembre, con la luna appesa all’albero sullo spiazzo di fronte alla vecchia casa, l’odore forte della terra e il tuo seno sinistro che io amavo con maggiore intensità, e la vita era lì, placata e scandita dal grillo che abitava accanto, e quella era la notte migliore di tutte le notti, perché era una notte liquida, come la polpa di un’albicocca.
Nel tempo di questo infinito minimo, che è l’intervallo fra il mio ora e il nostro allora, ti dico arrivederci e fischietto Yesterday e Guaglione. Ho posato il mio pullover sulla poltrona accanto alla mia, come quando andavamo al cinema e aspettavo che tu tornassi con le noccioline.”
E anche questo stato di attesa di nessuno o meglio di qualcuno che esiste solo nella memoria, di rievocazione quasi rituale del passato rappresentata dalla ripetizione di un gesto, fa parte della mia memoria che è il presente che si nutre del passato. Forse l’immagine della memoria che viene fuori da queste parole è l’immagine che può avere un uomo che ha vissuto gran parte della sua vita, che sente la vecchiaia bussare insistentemente alla sua porta e che vive in un presente dove i ricordi occupano uno spazio notevole rispetto agli stimoli del mondo che lo circonda. La memoria infatti non è il passato ma il presente, ciò che ora noi siamo. La memoria non è un archivio riposto in qualche angolo della nostra mente o in un gruppo di neuroni nel nostro cervello, ma una manifestazione pulsante della nostra esistenza e con l’avanzare del tempo rende sempre più spazio fino ad invadere gran parte delle aree della mente avvolta fino a difficile rapporto con la realtà. I ricordi, i detriti e lacerti di Tabucchi, non sono solo i lasciti del passato ma sono granelli che in parte costituiscono il nostro esserci. Per questo la memoria assolve anche un ruolo sociale, quello di supporto dell’identità sia essa identità personale o collettiva, di gruppo, di famiglia, nazionale. La memoria non è granitica, non è duratura, ma è strettamente legata alla persone che la portano dentro di sé ed è destinata a sparire con loro e con loro sparisce anche il passato come vissuto. La consapevolezza dell’inevitabile scomparsa del memoria ha due conseguenze, la prima riguarda la necessità di rallentare il processo di erosione della memoria legata alla natura del soggetto biologico che la mantiene in vita, costruendo supporti esterni della memoria attraverso celebrazioni e ricorrenze. La memoria però così rischia di diventare anch’essa un oggetto esterno, destinatario di momenti rituali e nello stesso tempo vuoti di senso, un oggetto indecente da esibire, da lustrare ogni tanto per essere poi riposto in un cantuccio. La seconda conseguenza è legata soprattutto alla memoria come elemento del presente e dei conflitti che lo animano. Tali conflitti sono solo apparentemente conflitti del passato ma piuttosto conflitti del presente che vengono proiettati sul passato, conflitti che riguardano i vivi che agiscono nel presente. Anche tale conseguenza condanna la memoria a perdere la sua natura intima, a incrinare il suo rapporto privilegiato con il portatore del ricordo. Il prisma deformante biologicamente presente nei meccanismi della memoria viene allora sottomesso a pressioni esterne estremamente potenti e distruttive che producono immagini sempre più distorte fino a diventare irriconoscibili da parte dell’autentica memoria. Le ombre prodotte dall’effetto distruttivo del prisma sottoposto alle pressioni esterne paradossalmente prendono consistenza, sembrano più nitide, i contorni diventano meno sfumati, meno evanescenti, ma è una consistenza artificiosa che non proviene dalla sorgente autentica della memoria ma dalle luci esterne che affievoliscono il potere generatore della sorgente interna. La memoria diventa allora pura immaginazione illusoria e pretestuosa al servizio del più forte. Per questo è giusto che ad un certo punto la memoria lasci posto alla storia, all’unico modo che abbiamo per costruire un dialogo difficile ma possibile con l’essere che è stato e che ha cosparso il suo passaggio di tracce di per sé inerti da vivificare attraverso l’interpretazione, la ricostruzione dei legami, il riempimento degli spazi vuoti presenti tra una traccia e l’altra mediante il lavoro di un pensiero critico, rigoroso, distaccato. La storia non è memoria, è narrazione di trame sostenute dall’esigenza di documentare, di ricercare prove, di costruire un’immagine soggettiva del passato basata sul confronto, la mediazione, la negoziazione tra storici, l’argomentazione. È quindi una dimensione pubblica del passato. E questa dimensione pubblica non sostituisce la memoria l’elemento privato che lega ciascun essere umano con il suo passato come elemento essenziale dell’esserci.
massimocec luglio 2021