Ostranenie
Era la parola che l’amica Ludmilla, di ritorno dalla sua terra natia, aveva pronunciato mentre teneva un libro in mano scritto in russo da Vladimir Propp; mi spiegò che si trattava di uno studio sulle narrazioni fiabesche, le forme e le strutture della narrazione e che Ostranenie voleva dire “straniamento”. Dovetti aspettare qualche anno – fino al 1966 – per leggerlo tradotto in italiano ma, nel frattempo, avevo letto le opere di Calvino e non potei trattenermi dal passare a Ludmilla il suo saggio “Cibernetica e fantasmi. Appunti sulla narrativa come processo combinatorio” e incoraggiarla a leggere I nostri antenati. Ne parlammo a lungo e, in questi giorni, mi ritorna in mente quello che Calvino scrisse nella sua “Nota” del 1960 a I nostri antenati a proposito del Visconte dimezzato: “dimidiato, mutilato, incompleto, nemico a se stesso è l’uomo contemporaneo. Marx lo disse ‘alienato’, Freud ‘represso’; uno stato d’animo d’antica armonia è perduto.” Oggi – per effetto della pandemia – Calvino forse aggiungerebbe: “mascherato.”
Fu una palla di cannone a dividere a metà il visconte ma oggi sono armi ben più terribili a sconvolgere l’armonia.
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Eléna si sedette al tavolino che avevamo l’abitudine di occupare quando ci si ritrova per il magico caffè delle 11; lei, originaria di Kyiv, insisteva su questa grafia perché in lingua ucraina (l’Ucraina divenne uno stato indipendente negli anni Novanta e, anche se poco noto, l’ucraino è una lingua a sé stante; la grafia “Kyiv” riflette la storia dell’Ucraina e la lotta per l’autonomia) mentre “Kiev” è la grafia russa. Eléna fa la segretaria presso l’ottico del sobborgo in cui abito a Auckland, Nuova Zelanda; un sobborgo nel quale coabitano russi, ucraini e bielorussi. I genitori di Eléna e sua nonna sono ancora a Kyiv: il padre medico e la madre professoressa di storia al liceo. Ero già passato varie volte dal negozio per offrirle la mia solidarietà che lei aveva accettato con grande emozione. Oggi non me la sentivo di chiedere notizie di casa; dopotutto la TV ci aveva bombardato di scene strazianti, di devastazione e terrore: perché rinverdire quella tristezza? Cercai di intavolare una conversazione parlando di Giorgio Scerbanenco; non lo consceva né sapeva che questo mio giallista preferito aveva il padre ucraino ma quando mi chiese che cosa aveva scritto, non me la sentii di raccontarle la trama di I milanesi ammazzano al sabato o I ragazzi del massacro: di violenza ne avevamo già abbastanza. Rimanemmo senza dire niente.
Ostranenie
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Poco dopo entrò Natalía che gestisce un negozietto di abbigliamento; come d’abitudine si sedette vicino a Eléna e le mise la mano attorno al braccio e così rimasero fino a quando non arrivò il caffè. Natalía viene dalla zona Primorsky Kray, di cui fa parte Vladivostok dove finisce la transiberiana e dove sono finiti tanti miei sogni: è una vita che ci vorrei andare e ne parliamo quasi ogni volta che siamo insieme: non oggi. Mentre beveva il caffè grosse lacrime scesero sulle guance di Eléna; feci finta di non accorgermene e Natalía, che non poeva vederla in faccia, le strinse il braccio ancora più forte.
Ostranenie
Ekaterina ci raggiunse con i suoi due figli: lei a prendere un caffè e loro due il meritato dolce dopo le lezioni in lingua russa che la scuola comunitaria offriva ogni sabato mattina. Ekaterina insegnava alle materne; aveva viaggiato, anche a New York; era nata a Simbirsk, ora Uljanovsk, patria di Lenin; fu lui, con il commissario per l’istruzione popolare a includere nel programma culturale, tra i pittori, Michelangelo oltre a Rembrandt e Leonardo ma Ekaterina non sapeva dell’interesse particolare di Shostakovich per la poesia di Michelangelo. Ekaterina mi aveva raccontato come San Pietroburgo divenne Leningrado in onore di Vladimir Lenin. Fu solo nel 1991 che la città acquisì il nome di San Pietroburgo in modo definitivo, ad eccezione del 9 maggio, quando la città torna a chiamarsi Leningrado in memoria dell’assedio; di questo e della sinfonia per Leningrado ne parlammo a lungo dopo essere stati al concerto della Auckland Symphony Orchestra per ascoltare l’opera di Dimitri Shostakovich. Mi raccontò delle varie peripezie che ritardarono la rappresentazione: solo nel 1942 fu data dall’orchestra del teatro Bolshoi e, io aggiunsi, nello stesso anno dalla NBC Symphony diretta da Arturo Toscanini. Shostakovich trovò ispirazione in alcuni sonetti di Michelangelo e li aveva inseriti in una sinfonia: ne aveva già composte quindici ma era tanto affezionato a questa musica che la considerava la sua sedicesima: in questa sinfonia ricorda il travaglio dello scultore-poeta e anche la sua vita. A Shostakovich – che si considerava un esiliato durante il regime di Stalin – interessava, appunto, il tema dell’esilio che gli ricordava quello di Dante.
La sera prima ero andato in pizzeria dove lavorava Alexej, grande ammiratore del giocatore ucraino Andriy Shevchenko. Per anni se ne era parlato delle sue prodezze con il Milan, per anni me ne ero compiaciuto: come dimenticare l’ultimo rigore che ci valse la Coppa dei Campioni nel 2003 in finale contro la Juve e come dimenticare quello parato nella finale di Istanbul con il Liverpool nel 2005: in vantaggio di 3 a zero nel primo tempo gli inglesi ci rimontarono e poi giocarono per arrivare ai rigori (chi aveva detto “Perfida Albione?), l’unico modo in cui avrebbero potuto vincere e così fu. Avrei voluto congratularmi con i successi di Shevchenko come tecnico della nazionale ucraina e gli avrei risparmiato i suoi ultimi impegni con il Genoa. Scherzosamente chiamavamo il giocatore di calcio “il poeta del pallone” perché Alexej mi aveva parlato di un altro Shevchenko, il famoso poeta Taras (nato a Moryntsi come lui) e di cui andava fiero perché è considerato non solo il fondatore della letteratura ucraina ma, oltre ad essere un ottimo pittore, un patriota impegnato. Un sera – dopo le adeguate libagioni – Alexej (che faceva il cameriere solo per sbarcare il lunario) aveva recitato, con grande passione e emozione, alcuni versi da “Testamento”. Intravvidi Alexej in cucina ma, al contrario del solito, non venne fuori a salutarmi; il cameriere cipriota che mi portò la pizza mi disse che Alexj mi salutava e che era troppo triste per venire a parlare.
Ostranenie
Durante la mia abitudinale passeggiata lungo la spiaggia di Takapuna al largo della quale c’era il campo di regata per la Coppa America, oggi notai che in una delle case – tutte di persone abbienti con un’asta per la bandiera nel giardino che dà sulla spiaggia e che durante la Coppa sventolava la bandiera neozelandese – alla bandiera locale era stata sostituita quella dell’Ucraina; Eléna mi aveva detto che il giallo rappresenta le messi di frumento e il blu il cielo; vidi in questa bandiera un segnale: forse Ostranenie è lemma che deve rientrare nei libri e che sotto il cielo antipodeo sventola la bandiera della solidarietà e di quella armonia calviniana che non deve andare persa.
Bruno Ferraro maggio 2022
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