L’emù di Ceserani

 “George, George”: ripeteva Remo perché John, il proprietario del podere, così gli aveva consigliato di fare per chiamare quest’animale che aveva prescelto questo podere per scorrazzare lungo il recinto di fil di ferro ogni giorno e si aspettava qualche leccornia che, puntualmente, gli veniva offerta. A Remo erano state date delle carote e delle patate, il cibo preferito da offrire a George.

Eravamo ad Armidale, su un altopiano del New England, a 1.000 metri tra Sydney e Brisbane: all’interno della lunga barriera anti-conigli che era stata eretta per mantenere lontane queste bestiole che, introdotte da un ignaro inglese per farne oggetti di caccia, avevano avuto il sopravvento, moltiplicandosi in modo esponenziale e mettendo a repentaglio le coltivazioni; chi aveva disegnato il recinto che corre per migliaia di chilometri lungo la costa orientale, non aveva fatto i conti con la capacità dei conigli di scavare sotto il recinto. I primi colonizzatori inglesi avevano introdotto – oltre che ai conigli e alle volpi per la caccia – anche i serpenti e, dalle loro navi, i roditori che avevano trovato un paradiso offerto dalla uova di uccelli che non volano e che non hanno nessun modo di difendersi da questi predatori.

E paradiso era per chi ama la natura: canguri e pavoni dappertutto, cockatoos bianchi dal becco giallo, rosella e altri tipi di pappagallini; l’emù, però, non era comune. John era fiero di questa presenza e permetteva solo a pochi di andarlo a trovare; mia moglie ed io stavamo costruendo la casa a pochi chilometri di distanza, a una decina di chilometri dal centro abitato più vicino e, quindi, lui – abile con utensili e generoso con i suoi consigli pratici in tante cose – era il nostro vicino più vicino.

Mentre Adriana trafficava in cucina – era l’unico posto riscaldato – Remo si sedette sull’unico divano disponibile e, con grande sorpresa uscì fuori con questa frase: “Tu ed Adriana avrete tante cosa da dirvi.”  Dopo cena – e una buona bottiglia di Shiraz (la Hunter Valley dove si trovano alcuni dei migliori vigneti australiani non distava molto lontano e ci andavo spesso per assaggi e provvigioni divine) – riuscii finalmente a parlare a Remo di letteratura e delle cose che mi interessavano. Remo aveva trovato sugli scaffali la mia copia di Catch 22 di Joseph Heller, quella con la copertina nera e la scritta rossa: in copertina una bocca aperta nell’atto di gridare qualcosa e sul retro una foto dell’autore.

“L’ho tradotto” disse Remo. Mi spiazzò completamente perché, prima di tutto pensavo che questo libro fosse impossibile a tradurre in italiano, e poi perché non sapevo che Remo conoscesse l’inglese così a perfezione.

“Con il titolo Comma 22”, riprese dopo una beve pausa dandomi il tempo di formulare una domanda intelligente sul perché del titolo e sulle difficoltà della traduzione. La serata – grazie anche alla bottiglia di Shiraz – continuò con approfondimenti linguistici e mie espressioni di meraviglia per come Remo le aveva risolte.

Non volevo approfittare troppo della sua presenza per chiedergli consigli e cose varie sulle mie ricerche in corso. Fu lui – il giorno dopo, quando chiese di andare a salutare George che, però, non si fece vedere perché non era mattiniero – ad invitarmi ad andare a trovarlo a Pisa qualora vi capitassi. Remo e Pisa – dopo che mi fece conoscere colleghi ed amici alla Sapienza e alla Normale – divennero i miei punti di riferimento accademico e lo sono tuttora; e non solo per ragioni accademiche ma anche per le amicizie che nel corso degli anni si sono formate e alimentate nonostante i 20.000 chilometri di distanza.

Il mio rapporto di amicizia e collaborazione con Remo si andò rafforzando per tanti anni ma tuttora penso con affetto: che cosa sarebbe successo se non fosse stato per George, l’emù australiano.

Bruno Ferraro gennaio 2021

 

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