Venerdì 29 gennaio: c’era la luna piena e il morepork aveva cantato tutta la notte; secondo una tradizione locale quest’uccello – simile a una civetta – annuncia il bel tempo. Nell’altro emisfero la civetta è considerata un uccello di malaugurio ma qui siamo nell’emisfero del sud.
Sabato 30 gennaio: giornata calda, poco ventosa e, secondo il notiziario delle sette, favorevole all’imbarcazione americana che doveva rimontare lo svantaggio delle due regate perse il giorno prima; già c’era la Coppa America ma la mattinata avevo dovuto passarla al computer. Alle quindici – completamente sfatto dal lavoro e dalla calura – mi sono avviato, per distrarmi e in cerca di un po’ di refrigerio, a una delle mie spiagge preferite: Milford Beach. Per chi non conoscesse i miei luoghi, Milford fa parte della lunga estesa sabbiosa che rappresenta la North Shore, la zona a nord di Auckland dove abito da più di trent’anni. Tutta questa costa è una spiaggia eccetto dove la speculazione edilizia è arrivata per riprendersi tratti di terra e rientranze ove costruire orrendi omaggi al consumismo; uno di questi tratti è chiamato “the golden mile” per il lusso e la magnificenza delle case ivi costruite: a parte piscine e campi da tennis (cose ordinarie) ce n’è una costruita in marmo tiburtino importato dall’Italia e un’altra dispone di uno spiazzo adibito all’elicottero. Penso di aver reso l’idea e vado avanti ma non di tanto perché, tutto d’un tratto, il marciapiede asfaltato s’interrompe e lascia spazio a un sentiero sabbioso.
Sapevo che sulla destra avrei trovato la casa di Paul, così mi avevano detto che si chiamava, ma non lo avevo mai incontrato né intravisto tutte le volte che ero passato davanti a casa sua che si affaccia su questo sentiero aperto al pubblico. Percorro, come d’abitudine, quel tratto di marciapiede asfaltato che separa la spiaggia dalle case dei miliardari; come sempre, tengo gli occhi verso la spiaggia ma non posso ignorare il vocio di tanta gente che è adagiata contro il parapetto o sulla battigia e segue l’andamento della regata con potenti cannocchiali e con la radiolina accesa; già: Luna Rossa contro American Magic. Quello che mi sorprende maggiormente è la mancanza di entusiasmo, di tifo: l’atmosfera è molto pacata; non ci sono bandiere italiane o americane; penso, scherzosamente, di avvicinarmi a qualcuno che ha la radiolina accesa e chiedere in italiano l’andamento della gara ma mia moglie me lo sconsiglia. Poco dopo sento da una radiolina con il volume alzato al massimo che Luna Rossa aveva stravinto la terza gara e che gli americani erano handicappati dal malfunzionamento di uno strumento a bordo; inevitabile il quattro a zero e l’entrata in finale dell’imbarcazione italiana. Ma tutto questo non mi interessa; sto per arrivare alla baracca dove abita Paul ma non so nulla di lui; oggi spero di fare la sua conoscenza.
Non c’è cancello, non c’è nessun segnale che si stia arrivando a un’abitazione: abitazione? Quello che si vede è una casupola con una veranda, la porta aperta e tanti pezzi di legno sparsi nel giardino, anche una barchetta bucata. Paul è seduto su una balla di fieno, Bo – la sua fedele cagna – è accucciata ai suoi piedi. Ci presentiamo: Paul mi presenta a Bo e chiedo se è un cane o una cagna, se era “Beau”, nome usato spesso per i cani da queste parti; no, era una cagna, “Bo” ma non chiedo perché. Paul sta aggiustando alcuni vasi – il suo passatempo preferito: dal modo in cui la sua pelle è letteralmente bruciacchiata dal sole, si capisce che passa tanto tempo all’aperto e senza cappello: è praticamente nero.
Dopo le presentazioni mi scuso per aver interrotto quello che stava facendo in giardino e gli dico che stavo scrivendo un racconto sulla Coppa America, ma non una cronaca della regata in corso; e che avevo già scritto un racconto pubblicato su un blog italiano in cui mi distanziavo da questa Coppa perché non condividevo con i competitori le ingenti somme che erano state sborsate per farne una gara in cui prevaleva la tecnologia piuttosto che la capacità di usare la vela e di leggere i venti. Mi chiede di entrare e prendere dal tavolo un libricino dove scrive le sue poesie: è un poeta, per sua ammissione. Bo è molto protettiva dell’ambiente ma dopo alcune grattatine e leccate da parte sua, entro senza timore nell’unica stanza della casa: nel centro un grande tavolo, a sinistra un’alcova con il letto, a destra un cucinino e, di fronte, molti scaffali: spicca, per il colore celeste della copertina, un libro dal titolo “Mandela.”
Non so chi sia Paul: un recluso che abita in questa baracca da quand’è nato – così mi informa poco dopo – quanti anni fa: ottanta? Paul è Paul e basta; uno che combatte tutte le battaglie destinate ad essere perse come quella sugli alberi che vogliono tagliare all’asilo di una scuola non molto lontana di cui dà notizia sul cartellino all’ingresso del giardino. Allora ricordo che Paul era stato un firmatario di quella petizione a cui avevo aderito anch’io per impedire che un parco vicino alla spiaggia fosse venduto a speculatori che vi avrebbero costruito appartamenti a più piani. Ma almeno una battaglia l’aveva vinta: quella di non essere espropriato da questo fazzoletto di terra che varrà miliardi e che per anni ha fatto gola agli speculatori; basta vedere la veduta che si gode dal suo giardino. A questo punto Paul mi interrompe – naturalmente in modo molto gentile – per leggermi dal suo libro (sulla copertina un titolo in Maori e una bella foto del suo giardino) una poesia che aveva scritto proprio su questo argomento ma in un’altra occasione. Lo ascolto con attenzione e percepisco il suo interesse per le barche, le onde e il vento; a un certo punto colgo anche un riferimento classico: Zefiro, il vento dell’Ovest.
A questo punto non posso fare a meno di fare sfoggio della mia conoscenza di alcuni dei più meravigliosi versi della poesia del Quattrocento, quelli delle stanze del Poliziano e glieli traduco. A Paul fa piacere questo rifermento alla cultura italiana, riferimento che ci allontana dalla gara in corso: infatti Paul, chiedendomi di accomodarmi sull’unica balla di fieno, fa un gesto di disapprovazione verso le barche, come per dire: lascia stare; vuole sapere perché l’imbarcazione italiana si chiama “Luna Rossa”: gli dico che il nome non ha niente a che fare con la vela; che è il nome di una popolare canzone italiana che parla di una donna. Gli prometto di mandargli musica e testo e di lasciare a lui l’interpretazione del nesso. Ne avremmo parlato durante la mia prossima visita perché mi propongo, prima di salutarlo, visto il feeling che si era così velocemente sviluppato tra noi due, di tornare regolarmente a parlare con lui e ad accarezzare Bo che si era adagiata ai miei piedi comunicando, così, al suo padrone che ero persona grata.
Bruno Ferraro febbraio 2021
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