Commiati

“Quando muore una persona amata, un familiare, un amico o un eroe, queste perdite hanno qualcosa in comune, anche se naturalmente la loro intensità varia (non posso dire della morte di un amante, che sembra essere qualcosa di diversa ancora – ma forse perfino lì, il tratto permane). Ecco che cos’hanno in comune: c’era quest’altra persona che ci aiutava in un modo particolare, e adesso se n’è andata, e l’aiuto che ci dava se n’è andato insieme a lei. Essere in lutto è non avere più, essere privato di. Nel cordoglio, oltre al dolore puro, c’è la perdita dell’aiuto.

Prima c’era una complicità, un lavoro (un lavoro emotivo, per esempio) che due individui realizzavano insieme. Adesso uno, il sopravvissuto, per quanto riluttante sia, deve farlo da solo. Ecco perché un aspetto della perdita è la sensazione di essere all’improvviso costretti a ‘crescere’.

A delineare il lutto non è solo il vuoto scavato dalla tristezza: è sapere che quel che si faceva in due, qualunque cosa fosse, che avesse un nome o no, che fosse reciproco o no (nel caso degli eroi lo è raramente), adesso bisogna farlo da soli.

Nella zona della tua complicità con la persona amata, familiare, amico o eroe, tu sei un bambino. Forse lì si è bambini insieme. La morte costringe a mettere via le cose da bambini, ed è sempre troppo presto”.

Teju Cole

Così Giovanni De Mauro dopo la morte del padre Tullio

Da Internazionale del 13/19 gennaio 2017 – N. 1187 – Anno 24

La morte è uno choc perché costringe a chiederci qual è il senso della vita e mette in dubbio che la vita abbia un senso. La morte è inoltre l’unico elemento della vita con cui non si può non fare i conti.

La morte coinvolge tutti gli aspetti della dimensione di ciò che possiamo definire umano, sia l’aspetto razionale che quello emotivo. Non si può affrontare la morte collocandola solo nella sua dimensione naturale e quindi razionalizzandola. Coì come non si può affrontare la morte solo da un punto di vista emotivo perché ne rimarremmo distrutti.

Per quanto riguarda il tentativo di guardare alla morte solo attraverso la finestra della razionalità, ci aveva già provato Epicuro con la bellissima lettera Sulla felicità indirizzata a Meneceo. Epicuro voleva utilizzare la ragione per esorcizzare la morte rendendola un fatto estraneo alla vita, alla dimensione emotiva che invece costituisce un elemento essenziale della vita.

Epicuro “Lettera a Meneceo” Sulla Felicità

“Poi abituati a pensare che la morte non costituisce nulla per noi, dal momento che il godere e il soffrire sono entrambi nel sentire, e la morte altro non è che la sua assenza. L’esatta coscienza che la morte non significa nulla per noi rende godibile la mortalità della vita, togliendo l’ingannevole desiderio dell’immortalità.
Non esiste nulla di terribile nella vita per chi davvero sappia che nulla c’è da temere nel non vivere più. Perciò è sciocco chi sostiene di aver paura della morte, non tanto perché il suo arrivo lo farà soffrire, ma in quanto l’affligge la sua continua attesa. Ciò che una volta presente non ci turba, stoltamente atteso ci fa impazzire. La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti non sono più. Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come requie ai mali che vive.
Il vero saggio, come non gli dispiace vivere, così non teme di non vivere più. La vita per lui non è un male, né è un male il non vivere. Ma come dei cibi sceglie i migliori, non la quantità, così non il tempo più lungo si gode, ma il più dolce. Chi ammonisce poi il giovane a vivere bene e il vecchio a ben morire è stolto non solo per la dolcezza che c’è sempre nella vita, anche da vecchi, ma perché una sola è l’arte del ben vivere e del ben morire. Ancora peggio chi va dicendo: bello non essere mai nato, ma, nato, al più presto varcare la porta dell’ Ade.”

Certo è possibile fare ciò, ma non è possibile farlo senza entrare in collisione con la dimensione umana legata al sentimento del dolore. Non è possibile morire e veder morire senza provare dolore a meno che non venga considerato chi muore una sorta di corpo estraneo. Non esiste una sola forma di dolore, ne esistono molte, forse tante quante sono le persone che lo vivono. Il dolore è qualcosa di assolutamente personale, incomunicabile, e di fronte al dolore della morte non c’è consolazione. Gli altri non possono consolare. Il superamento del dolore è un percorso individuale, magari compiuto insieme ad altri, ma non sostenuto dagli altri. L’altro è visibile solo quando gli occhi di chi prova dolore si aprono verso di lui. Tutto ciò non mette in secondo piano l’importanza degli altri superamento del dolore, ma semplicemente mette in primo piano fatto che il dolore è il mio dolore. Noi possiamo comunicare il nostro dolore solo perché condividiamo una forma di vita e solo perché in questa forma di vita talvolta ci troviamo di fronte a fortunate contingenze grazie alle quali la solitudine viene messa da parte.

La morte non può essere esorcizzata, occultata, camuffata come invece la società del nostro tempo vorrebbe fare. Oggi usiamo armi per esorcizzare la morte diverse da quelle di Epicuro, usiamo la scienza, la tecnologia per occultare la morte. Possiamo ridurre la morte a un semplice evento provocato da cause meccaniche o fisiologiche, possiamo cioè parlare della morte come di un evento naturale, come di una possibilità fra le tante, possiamo allontanare la morte inserendola in un sistema oggettivo in cui ogni fatto diventa un elemento calcolabile, un oggetto conoscibile attraverso statistiche, previsioni, spiegazioni. Tali sistemi di comprensione riconducono la vita a ciò che lo scrittore Robert Musil chiamava razioide, cioè “vedendo tutto organizzato in un sistema scientifico ridotto a leggi e a regole che spiegano i fatti in modo univoco”

Da R. Musil L’uomo senza qualità

“Come tutte le grandi città era un insieme di cose e circostanze irregolari, mutevoli, che scorrevano, non tenevano il passo, si scontravano, inframmezzate da immensi momenti di silenzio. Era una città fatta di strade regolari e zone impraticabili, attraversata da un battito ritmico, intenso, e dall’eterna scordatura e sfasamento di tutti i ritmi. Nel complesso assomigliava a una vescica messa a bollire in un recipiente fatto del materiale durevole delle case, delle leggi, dei regolamenti e delle tradizioni storiche. Le due persone che in questa città stavano percorrendo una strada ampia e movimentata non avevano naturalmente tale impressione. Appartenevano chiaramente a una classe sociale privilegiata, avevano un abbigliamento, un contegno e un modo di parlare distinto; portavano le iniziali del loro nome significativamente ricamate sulla biancheria, e allo stesso modo, ovvero senza farlo trapelare all’esterno, nella fine biancheria della coscienza. Sapevano chi erano e che una capitale e residenza di corte era il luogo adatto a loro. Ammesso che si chiamassero Arnheim ed Ermelinda Tuzzi, cosa che peraltro era errata, poiché ad agosto la signora Tuzzi si trovava a Bad Aussee1 in compagnia del marito e il dottor Arnheim a Costantinopoli, resta ancora il mistero di chi fossero in realtà. Le persone dotate di un’immaginazione vivace, quando sono per strada, si pongono molto spesso simili interrogativi e singolarmente li risolvono dimenticandoli, a meno che nei successivi cinquanta passi non si riesca a ricordare dove si erano già visti quei due. La coppia in questione si è ora fermata improvvisamente poiché ha notato davanti a sé un assembramento. Solo un attimo prima qualcosa era saltato fuori dalla propria corsia con una brusca sterzata e aveva girato su se stesso, finendo per mettersi di traverso: era un pesante autocarro che, dopo aver frenato di colpo – ora si poteva vedere – se ne stava bloccato con una ruota sul marciapiede. Come api intorno al buco dell’alveare, la gente aveva formato in un istante un capannello intorno a un piccolo spazio che aveva lasciato vuoto nel mezzo. Sceso dal veicolo, il conducente stava lì, grigio come carta da pacchi, e descriveva con gesti rozzi l’incidente. Gli sguardi di coloro che sopraggiungevano si posavano su di lui per poi calarsi con cautela nella profondità del buco, dove un uomo che sembrava morto era stato adagiato al bordo del marciapiede. Aveva subito quell’incidente per la propria sbadataggine, come fu riconosciuto da tutti. A turno la gente gli si inginocchiava accanto per dargli un qualche aiuto; gli sbottonarono la giacca e poi gliela riabbottonarono, cercarono di farlo alzare e poi lo distesero nuovamente. In realtà nessuno voleva far altro che occupare il tempo finché non fosse arrivato, con il pronto soccorso, un aiuto competente e autorizzato.
Anche la signora e il suo accompagnatore si erano avvicinati e avevano osservato l’uomo steso a terra al di sopra delle teste e delle schiene chinate. Quindi, esitanti, si ritrassero. La signora provava qualcosa di spiacevole nella zona cardio-epigastrica, e la ritenne, a ragione, compassione. Era un sentimento indeciso, paralizzante. Dopo qualche istante di silenzio il signore le disse: «Questi autocarri pesanti che circolano qui hanno uno spazio di frenatura troppo lungo». La signora se ne sentì sollevata e ringraziò con uno sguardo gentile. Aveva già sentito quella parola altre volte, ma non sapeva che cosa fosse uno spazio di frenata, né voleva saperlo. Le bastava mettere un qualche ordine a quell’orribile incidente e ricondurlo a un problema tecnico che non la riguardasse più direttamente. Si udì a questo punto anche il fischio acuto di un’ambulanza, e la tempestività del suo arrivo riempì di soddisfazione i presenti. Sono ammirevoli queste istituzioni sociali. Il ferito venne adagiato su una barella e caricato sull’ambulanza. Uomini in una specie di uniforme si presero cura di lui, e l’interno del veicolo, per quel che si poteva scorgere, appariva pulito e ordinato come una corsia d’ospedale. Se ne traeva la legittima impressione che l’operazione si fosse svolta in modo legale e regolare. «Secondo le statistiche americane», osservò il signore, «negli Stati Uniti muoiono ogni anno in incidenti stradali centonovanta mila persone e quattrocentocinquantamila rimangono ferite».”

Inoltre oggi, grazie alla tecnologia, possiamo infine allontanare chi sta per morire, rinchiuderlo negli ospedali, nelle case di riposo separare i morti dai vivi. Nonostante tutto ciò però in ogni caso l’esperienza della morte ritornerà a bussare alla nostra porta e ci troverà forse sempre più non solo impreparati ad affrontare la nostra morte ma anche quella degli altri, quella di chi ci sta vicino, quella dei nostri simili.

Non esiste un modo sicuro ed efficace per affrontare la morte, esiste soltanto una strada che ciascuno di noi deve tracciare, una strada da aprire nel groviglio delle nostre emozioni, dei nostri sentimenti e delle nostre capacità razionali. Sant’Agostino aveva ben descritto questa strada tortuosa nelle confessioni quando ancora giovane ha dovuto affrontare la morte di un amico.

Agostino “Le confessioni” 

[Un grande amico]

4.7. In quegli anni, in cui avevo cominciato a insegnare nella mia città natale, m’ero fatto un amico che gli studi comuni mi rendevano particolarmente caro, mio coetaneo e come me nel fiore della giovinezza. Da bambini eravamo cresciuti insieme, insieme eravamo andati a scuola e insieme avevamo sempre giocato. Ma così amici come allora non eravamo stati mai – un’amicizia, certo, che non era ancora quella vera, perché vera è solo quella che tu stringi fra persone unite a te dall’amore diffuso nei nostri cuori tramite lo Spirito Santo, che ci è stato dato. Eppure era così dolce, come fusa nel fuoco di studi tanto simili. Perché io lo avevo perfino distolto dalla vera fede, che professava da ragazzo benché senza profonda convinzione, per introdurlo a quelle favole ossessive e nefaste che facevano piangere mia madre. Ormai la mente di quella persona andava errando con me, e non poteva stare senza lui, il mio cuore. E all’improvviso tu c’eri alle spalle e la fuga era vana, Dio delle vendette e insieme fonte di accorate tenerezze, che ci converti a te per vie mirabili: e l’hai spazzato via da questa vita quando durava solo da un anno la nostra amicizia, dolce per me più di ogni altra dolce cosa di quegli anni.
– 8. Chi può contare da solo tutte le tue grazie che in sé solo ha provato? Dio mio, cosa facesti allora? Come è insondabile l’abisso dei tuoi giudizi! Bruciava di febbre, e restò a lungo incosciente in un sudore d’agonia: siccome non c’era più speranza lo si fece battezzare in stato di incoscienza. Io non me ne curai, nella presunzione che la sua anima avrebbe ritenuto quello che aveva appreso da me, piuttosto che un’operazione fatta sul suo corpo privo di sensi. Ma le cose stavano in tutt’altro modo. Infatti si riprese e sembrò fuori pericolo: e subito, appena potei parlargli – e fu molto presto, appena anche lui fu in grado di farlo, perché non mi allontanavo da lui, eravamo troppo legati – tentai, come se anche lui ne avesse voglia quanto me, di farlo ridere di quel battesimo che aveva ricevuto mentre era del tutto privo di sensi e di coscienza. Ma lui aveva già saputo di averlo ricevuto. E trasalendo inorridito come di fronte a un nemico, con una improvvisa libertà di giudizio in lui insospettabile mi avvertì che, se volevo rimanergli amico, dovevo smetterla di parlargli a quel modo. Da parte mia rimasi stupefatto e sconvolto, e trattenni per allora tutti i miei impulsi, per dargli il tempo di guarire e riacquistare le forze, e poi trattarlo come avessi voluto. Ma fu strappato alla mia demenza, per conservarsi in te a mia consolazione. Pochi giorni dopo, in mia assenza, è nuovamente assalito dalla febbre, e muore.
– 9. La tristezza calò buia sul cuore, e dovunque guardavo era la morte. E il mio paese divenne un patibolo, e la casa paterna m’era penosa e strana, e tutto quello che avevo condiviso con lui, senza di lui si convertiva in uno strazio enorme. I miei occhi lo cercavano invano dappertutto, e odiavo tutte le cose perché non lo tenevano fra loro e non potevano più dirmi “eccolo, viene”, come quando era in vita e mi mancava. Ero divenuto un enigma angoscioso a me stesso e chiedevo a quest’anima perché fosse triste e mi opprimesse tanto e lei non sapeva rispondermi. E se dicevo: “Spera in Dio” lei non ubbidiva, giustamente, perché quella persona concreta che le era tanto cara e che aveva perduta era migliore e più vera del fantasma in cui le si ordinava di sperare. Solo il pianto mi era gradito e aveva preso il posto del mio amico fra i piaceri dell’anima.

[Psicologia del lutto]

5.10. E ora, Signore, tutto questo è ormai passato e il tempo ha lenito la mia ferita. Posso sapere da te che sei la verità perché il pianto sia dolce a chi è infelice, posso accostare alla tua bocca l’orecchio del cuore, perché tu me lo dica? O forse tu, per quanto onnipresente, hai respinto lontano la nostra tristezza, e te ne resti in te stesso mentre noi rotoliamo di prova in prova? E tuttavia se non potessimo piangere alle tue orecchie, non resterebbe nulla della nostra speranza. Da dove viene questo frutto delicato dell’amaro di vivere, che si coglie nel pianto e nei sospiri, nei lamenti e nei gemiti? Forse è nella speranza che tu ci ascolti, la dolcezza? Nelle preghiere, è giusto che sia così, perché il desiderio che ti raggiungano ne è parte costitutiva. Ma nel dolore di una cosa perduta e nel lutto che allora mi opprimeva? Certo non speravo di farlo rivivere e non chiedevo questo fra le lacrime: mi limitavo al dolore e al pianto. Ero infelice e avevo perduto la mia gioia. Forse anche il pianto è cosa amara, e ci solleva solo in confronto alla nausea delle cose godute un tempo, e ora aborrite?
6.11. Ma perché dico questo? Non è tempo di indagini questo, ma di confessioni. Ero infelice, come è infelice ogni mente conquistata dall’amicizia di cose mortali, che è fatta a pezzi quando poi le perde. E solo allora sente tutta l’infelicità di cui soffriva anche prima di perderle. Così mi accadeva a quel tempo e molto amaro era il mio pianto e solo nell’amarezza trovavo pace. Ero così infelice, eppure più del mio amico avevo cara la mia stessa vita infelice. Certo, desideravo che mutasse, ma non di perderla in vece sua: non so se avrei accettato anche soltanto di morire per lui, come fecero a quanto si racconta Oreste e Pilade, che vollero – se non è solo una favola – morire almeno insieme, uno per l’altro, perché per tutt’e due peggiore della morte era il non poter vivere con l’altro. Ma in me era nato come un sentimento contrario a questo, e la noia di vivere m’era non meno opprimente della paura di morire. E quanto più lo amavo, credo, tanto più odiavo come nemica atroce la morte che me lo aveva rubato e la temevo e mi pareva sul punto di polverizzare all’improvviso ogni uomo, come aveva potuto far con quello. Sì, ero proprio in questo stato, ricordo. Tu vedi il mio cuore, mio Dio, lo vedi dentro: vedi come ricordo, speranza mia, che spazzi via questi miei sentimenti in ciò che hanno di impuro, dirigendo verso di te i miei occhi e liberando i miei piedi dal laccio. Ero stupito che vivessero ancora gli altri mortali, quando era morto lui che avevo amato come fosse immortale, e ancor più ero stupito di vivere io stesso, che ero un altro lui, quando lui era morto. Qualcuno ha detto bene del suo amico, che era metà dell’anima sua. Io sentivo infatti che la mia e la sua erano un’anima sola in due corpi: perciò la vita mi faceva orrore – io non volevo vivere a metà – e perciò mi faceva paura la morte, con cui sarebbe morto ormai del tutto anche lui, lui che avevo molto amato.
7.12. Che follia non saper amare gli uomini come uomini! E sciocco l’uomo che non ha misura, insofferente dei limiti umani. L’uomo che allora ero: tutto furori e sospiri e pianti e turbamenti, senza pace e senza equilibrio. E mi portavo dietro l’anima mutilata e sanguinante, che ormai non ne poteva più di farsi trascinare in giro, e non trovavo modo di metterla giù, da qualche parte. No, non trovava pace: non nella frescura dei boschi, negli svaghi e nei canti, non nei giardini profumati o nell’eleganza delle feste, non nei piaceri dell’amore e del sonno, neppure infine nei libri e nella poesia. Tutto mi faceva orrore, perfino la luce, e qualunque cosa non fosse lui era opprimente e odiosa oltre ogni sfogo di pianto: l’unica cosa in cui l’anima trovava un po’ di requie. Ma quando la si distoglieva da quello, subito mi schiacciava sotto il peso della tristezza. Verso di te, signore, avrei dovuto sollevarla per curarla: lo sapevo, ma non volevo e non ce la facevo, tanto più in quanto se pensavo a te non mi eri niente di solido e fermo. Perché non eri tu, era un vuoto fantasma, era il mio errore il mio Dio. E se tentavo di appoggiarla lì, l’anima, per farla riposare, scivolava nel vuoto e di nuovo mi crollava addosso, e per me io restavo un luogo gramo, dove non potevo stare e da cui non potevo allontanarmi. Dove, via dal mio cuore, poteva fuggire il mio cuore? Dove fuggire io, via da me stesso? Dove non esser braccato da me stesso? Dal mio paese sì, però, riuscii a fuggire. I miei occhi l’avrebbero cercato meno, dove non eran soliti vederlo: e così dal borgo di Tagaste me ne venni a Cartagine.

[Il dolore, il tempo, l’amicizia]

8.13. Non passa invano il tempo e non gira a vuoto sui nostri sentimenti: ha strani effetti sull’anima. E venivano i giorni e passavano uno dopo l’altro, e venendo e passando mi insinuavano dentro altre speranze, altri ricordi: e a poco a poco mi restituivano agli antichi piaceri, e a questi il mio dolore ormai cedeva il passo. Ma gli succedevano, se non altri dolori, altre cause di dolore. E del resto perché quello era penetrato in me tanto facilmente e tanto in profondità, se non perché avevo fondato l’anima sulla sabbia, affezionandomi a un uomo destinato a morte come se non dovesse mai morire. Soprattutto mi aiutava a riprendermi il conforto di altri amici: con loro amavo ciò che amavo in vece tua, cioè una sterminata favola e una lunga bugia, che con le sue lusinghe e seduzioni ci solleticava le orecchie e ci corrompeva la mente.46 E quella favola non mi moriva: era sopravvissuta alla morte di uno dei miei amici. Altre erano le cose che sempre più mi stringevano a loro: il riso e il conversare insieme, e le reciproche affettuose cortesie, e il fascino dei libri letti insieme, gli scherzi e i nobili svaghi comuni, e il dissentire a volte, ma senza rancore, come succede con se stessi, e con questi rarissimi dissensi fare più intenso il gusto dei molti consensi, e l’insegnare e l’imparare a turno, la nostalgia impaziente per chi manca, le festose accoglienze a chi ritorna: son questi o simili, i segni che dal cuore di chi ama ed è riamato giungono tramite il volto, la bocca, gli occhi e mille graziosissimi gesti, quasi ad alimentare il fuoco che divampa e fonde molte anime in una.

Certo lui ha trovato poi la sua strada quella dell’amore di Dio, come fonte inesauribile del senso della vita. Quella però è solo la sua strada.

Che cosa c’entra tutto ciò con la fotografia? La fotografia è forse lo strumento privilegiato con cui cerchiamo di lottare contro la morte. E certo uno strumento che alla fine deve cedere le armi, la fotografia conserva solo l’immagine delle persone non può sostituirsi ad esse. Eppure è forse lo strumento più efficace insieme, oggi, al video, al filmato. Di fronte a ciò che non c’è più, la vista è il senso che consente di trattenere ciò che il tempo porta via, più dell’olfatto, più del gusto, più del tatto forse solo in concorrenza con l’udito. La fotografia trattiene, sottrae le cose all’erosione del tempo. È una barriera esile, tanto più esile quanto più slegata dalla memoria, dai sentimenti, dalla presenza di chi ha vissuto accanto a quella persona. La fotografia ha come alleato la parola e grazie questa alleanza la lotta contro il potere divoratore di Kronos diventa entro certi limiti possibile. Non è un caso che nella città che i vivi costruiscono per i morti la parola e la fotografia costituiscano gli elementi essenziali. Cimiteri e fotografia hanno un po’ la stessa natura. Rimandano attraverso il visibile a qualcosa che non c’è più.

Chissà come vivevano il rapporto con i morti le culture che non avevano ideato strumenti materiali per ricordare, per frenare la fame inesauribile di Kronos? Forse i più fortunati si affidavano alla fama, alla gloria, alle grandi imprese, alla moltitudine rimaneva solo il ricordo di chi era ancora in vita, ricordo destinato a sparire a mano a mano che la morte ingoiava le generazioni. Ma niente può cancellare l’angoscia della morte e l’insensatezza della vita che inevitabilmente sfocia nella morte.

massimocec settembre 2015