Suor Patrizia abitava alla Rocca diocesana di Pietrasanta. La mattina prendeva la bicicletta e percorreva la via provinciale Vallecchia. Neanche dieci minuti di strada e arrivava all’Istituto Statale d’Arte Stagio Stagi, che aveva una Scuola media annessa, dove Suor Patrizia insegnava religione. Era una donna minuta, portava dei grandi occhiali e parlava con una voce flautata. Un giorno entrò in una classe con più di trenta alunni, c’era molta confusione e lei disse sorridendo: “Che profumo di umanità!”.
Ho avuto la fortuna di essere collega di Patrizia e di entrare con lei quel giorno di molti anni fa in quella nostra classe rumorosa. Avevamo pensato di attivare un progetto di educazione all’ascolto e di proporre una serie di attività finalizzate a migliorare la consapevolezza di cosa significa ascoltare. I ragazzi e le ragazze si misero in cerchio, a turno dissero come si sentivano in quel momento, qualcuno imbarazzato rideva, qualcun altro non sapeva cosa dire e allora fu invitato a esprimere il suo stato d’animo con un colore. Poi Patrizia creò dei piccoli gruppi di due alunni e ogni ragazzo doveva raccontare qualcosa di sé all’altro e chi si metteva in ascolto doveva prendere appunti di ciò che veniva raccontato e poi dovevano scambiarsi il ruolo tra chi racconta e chi ascolta. In un terzo momento si ricreava il cerchio con tutti gli alunni e, a turno, ogni ragazzo doveva raccontare l’esperienza ascoltata dal suo compagno. Alla fine suor Patrizia chiedeva come erano stati durante questa esperienza di ascolto reciproco e, chi in una maniera chi nell’altra, rispondevano allegramente che erano stati bene e che avevano provato piacere sia ad ascoltare che a raccontare ciò che avevano ascoltato. Quel progetto di educazione all’ascolto andò bene, io penso perché allora a scuola erano sporadici i momenti in cui gli studenti potevano parlare di loro e tra loro in modo organizzato.
L’esperienza dell’ascolto in cerchio in quegli anni l’avevo conosciuta al Ceis di Pisa, che frequentavo una volta a settimana per via di un ragazzo che si era un po’ perso e dava molte preoccupazioni alla sua famiglia. Dicevo che partecipavo per lui, per riagganciarlo, conquistare la sua fiducia e fare in modo che entrasse in comunità per ritrovare una strada sua. Poi piano piano cominciai a pensare che quella discussione e quel reciproco ascolto faceva bene a me e che non ci andavo più soltanto per quel mio amico, e quando mi chiedevano perché partecipavo rispondevo: vengo qui perché, invecchiando, non vorrei diventare una persona detestabile. In realtà a quel tempo non dicevo così, dicevo che volevo diventare un po’ meno stronzo, visto che la maggior parte degli umani non sono beati o farabutti, ma un po’ l’uno e un po’ l’altro. Di certo non sono diventato beato. Sono diventato un po’ meno stronzo? Chissà se in questo qualcosa abbia contribuito l’esperienza dell’ascolto in cerchio.
Senti, ti racconto anche questa. Mi è capitato, tanti anni fa, ero in montagna con una ragazza a cui avevo detto che amavo il mare e non la montagna. Lei mi guidava, strada facendo si fermava per farmi vedere genziane e stelle alpine, e poi mi portò in un posto isolato sopra i duemila metri. Ecco lì, nascosto fra le rocce, mi sono trovato nella condizione di vedere le marmotte. Sarei stato ore a guardare quei cuccioli giocare. A un certo punto però hanno percepito la nostra presenza, allora la marmotta sentinella fece dei fischi di allarme e tutte si rimpiattarono di corsa nelle loro tane. Io e quella ragazza sorridemmo, poi lei mi disse: “Hai mai sentito il silenzio?”. La guardai stupito. Lei si sdraiò sull’erba e anch’io mi sdraiai accanto. Dopo un po’ cominciammo a sentire dei piccoli rumori naturali che ero disabituato a sentire. Sopra di noi c’erano le nuvole, sentimmo il fruscio del vento fra i rami degli alberi, l’acqua del torrente che scorreva, la mia amica sapeva riconoscere i rapaci dai versi che sentivamo. Al ritorno passammo per il bosco in silenzio e camminando ascoltavamo il rumore dei nostri passi. Quando tornammo a casa lei mi guardò come per dirmi se avessi amato un po’ la montagna. Io le risposi: “Grazie per questa bella gita in montagna.” Lei fu felice e mi invitò a una prossima passeggiata lungo il fiume. Di quella passeggiata però non voglio dire niente, preferisco tenerla per me.
Vorrei dire solo che molti anni dopo, di fronte alla casa al mare sulle falesie che prendo in affitto ogni anno per il silenzio e per il panorama che ci trovo, spesso mi ritrovo ad ascoltare il silenzio che imparai a sentire in montagna con quella mia amica. Un silenzio fatto di mille piccoli impercettibili rumori, una sorgente di tanti suoni che non percepiamo perché sovrastati dal rumore di fondo che si incontra ovunque.
Ora vengo al punto. Ascolta, penso di essere andato fuori tema, perché mi avevi chiesto di introdurre con due parole la sezione Ascoltare del sito in cui ci sono due fotografie, la mia e la tua. Scusa se te lo dico: io sono in ascolto attento, tu mi sembri piuttosto annoiato. Allora vengo al punto. Nella sezione ci sono dei racconti di Tabucchi letti da artisti, attori, scrittori e amici. Sono otto racconti de Il gioco del rovescio. Poi c’è l’introduzione di Anna Dolfi. L’iniziativa è stata promossa dall’Associazione Culturale Antonio Tabucchi, che in realtà ha realizzato dei video in occasione dei quarant’anni dalla prima pubblicazione di questo piccolo e straordinario libro. Noi li abbiamo trasformati in file solo audio, da ascoltare senza mobilitare altri sensi che non siano le orecchie. Piccoli file poco ingombranti. Si ascoltano come se chi legge estraesse dal silenzio le parole, le facesse nascere, vivere e poi morire. Come un organismo biologico. Finito di parlare le frasi sono morte. Il racconto finito. Punto. Questa riflessione è di un noto linguista citato da Tabucchi stesso, che aggiungeva: con la parola noi nasciamo, viviamo e moriamo ogni volta. Tabucchi considerava la voce superiore alla scrittura. Nel corso di una conferenza tenuta a Migliarino nel 2011 citava il mito orfico, che è il più antico, e la storia della cicala e della formica in cui la cicala è la voce, che svanisce, e la formica diventa colei impegnata a trasmettere agli altri la voce della cicala, come fa uno scrittore.
Del resto l’incipit del vangelo è: “In principio era il verbo.” Tabucchi scrive: “In principio era il verbo, e i preti chissà cosa si sono creduti, ma il verbo è il fiato, ragazzino, nient’altro che respirazione…”.*
Qui non è la viva voce di chi legge, che è un evento unico e irripetibile, ma un suo surrogato, una copia qualcosa di registrato, comunque qualcosa da ascoltare.
Tabucchi era uno scrittore che sapeva ascoltare le voci esterne e anche quelle interne. A volte le sento anch’io le voci interne che mi vengono dal di dentro e non dalle orecchie, sento le voci di persone che ho conosciuto e che non ci sono più. Le senti anche tu? Purtroppo quelle voci ci sussurrano solo poche parole, poche rispetto alle storie vissute. Però le ascoltiamo e, per non dimenticarle, a volte ci viene voglia di scriverle su una pagina.
* Antonio Tabucchi, Tristano muore, Milano, Feltrinelli, 2004, pp. 40-41.
odellac, aprile 2021
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