THE FAMILY OF WOMAN
Donne, donne, donne! Finalmente protagoniste nella nostra società! Potevano non essere affrontate fotograficamente? Dovevamo farlo! Abbiamo scelto di non seguire un progetto strettamente tematico che, limitando la libertà individuale, poteva risultare poco gradito. Il titolo voleva richiamare alla mente l’omonima grande mostra di Steichen e abbiamo sostituito “man” con “woman” ma questa è stata solo un’idea ‘promozionale”. La stragrande maggioranza delle fotografie è stata realizzata in pochi mesi ed in luoghi vicini, quindi il titolo non riveste quel carattere di universalità che potrebbe far intendere il nome del lavoro, la cui esecuzione è stata, quindi, limitata nello spazio e nel tempo; tuttavia, in questa serie di immagini, sono molti gli aspetti della vita femminile che sono stati messi in codice da attenti e preparati autori. Certamente le loro opere non cambieranno il mondo femminile ma potranno contribuire a modificare le nostre idee su questo universo, ampliandone la conoscenza, perché la fotografia è una formidabile opportunità per plasmare i comportamenti di chi la osserva. Sono donne che hanno attraversato lo spazio percettivo dei fotografi e da questo sono stati estratti volti, posture, gestualità, superando, talvolta, l’imbarazzo che provano tutti coloro che puntando la macchina fotografica hanno la consapevolezza di compiere una violenza, invadendo lo spazio privato di un’altra persona.
Adesso è tutto passato, queste figure hanno raggiunto uno stato di quiete che ci permette di osservarle con tutta tranquillità e per tutto il tempo che vogliamo, senza reticenze, senza vergogna. E in quel rettangolo di carta che abbiamo davanti agli occhi possiamo riversare la nostra fantasia, i nostri pensieri, possiamo proiettarci il nostro vissuto, perché il significante fotografico è carico di elementi metaforici pronti a diventare espressione compiuta nell’immaginario individuale.
Non casualmente è stato preferito il bianco e nero, perché in esso si manifesta più chiaramente la natura propria della fotografia che è sicuramente rappresentazione ma, attraverso il monocromatismo, risulta più liberatoria e meglio ci proietta nel mondo dei concetti.
Queste fotografie sono sogni, i nostri sogni. Guardiamo e cerchiamo di viverli di nuovo!
Roberto Evangelisti
Le fotografie sono state realizzate dai partecipanti agli incontri di “Educazione all’Immagine Fotografica” organizzati dal C.R.D.U. – Università di Pisa e condotti da Roberto Evangelisti
Vorrei partire proprio dal titolo La famiglia della donna per sottolineare una differenza che si aggiunge a quella sottolineata da Bob nella premessa del catalogo, e cioè la limitata estensione spazio-temporale, una differenza che mi sembra anche più importante. La differenza consiste nel fatto che La famiglia dell’uomo aveva come scopo quello di sottolineare la dimensione universale dell’essere umano, ciò che è comune a tutti gli esseri umani indipendentemente dalla loro storia, dal contesto in cui vivono, e anche dall’appartenenza ad un genere. Le fotografia dovevano documentare ciò che era comune a tutti gli uomini.
Nell’introduzione del catalogo scritta da Sandburg, un poeta e scrittore statunitense vincitore di un premio Pulitzer, si legge:
C’è un solo uomo nel mondo e il suo nome è tutti gli uomini.
C’è una sola donna nel mondo e il suo nome è tutte le donne.
C’è un solo bambino del mondo e il nome del bambino è tutti bambini.
L’idea di partenza del lavoro che quest’anno Bob ha proposto ai suoi allievi è invece quella di cogliere attraverso il linguaggio della fotografia una differenza, una specificità, quella del femminile, quella delle donne che vivono nel nostro tempo.
La prima osservazione che mi sento di fare e quella che la donna è un soggetto costantemente presente nelle fotografie fin da quando la fotografia è nata e non poteva che essere così essendo le donne più della metà degli esseri umani viventi. C’è da dire però che le donne rappresentate sono quasi sempre donne ritratte da un uomo e ciò è ampiamente documentato ad esempio dal lavoro di storici come Goerges Duby e Michelle Perrot (Immagini delle donne, Bari, Laterza, 1992) per gran parte del patrimonio iconografico della società occidentale. Tale assunto vale anche per la fotografia in quanto essa non è un mezzo che duplica fedelmente la realtà ma la interpreta e contribuisce a crearla. Noi conosciamo la realtà non solo tramite i dati che essa ci invia ma anche e soprattutto mediante le nostre rappresentazioni e queste le costruiamo anche attraverso la sedimentazione delle immagini che vediamo e che influenzano la produzione di altre immagini, all’interno di una catena senza fine. Il dato reale, la traccia della luce che impressiona il sensore, è quindi solo una piccola parte della catena di informazioni mediante le quali leggiamo la realtà. Per quanto riguarda l’immagine della donna, nonostante la molteplicità dei ruoli (dee, madri, sacerdotesse, vergini, sante, regine, streghe, donne di casa, lavoratrici, figlie, sorelle, prostitute), essa nasce da una committenza e da una creatività maschile. Prevale quindi l’immagine filtrata dal rapporto con l’uomo anche quando tale rapporto non è quello suggerito dal desiderio o dalla fantasia erotica ma è quello dei sentimenti, dell’amore, dell’affetto.
Per ritornare al tema della mostra e al modo in cui la donna è stata trattata come soggetto della fotografia almeno fino a qualche anno fa, la prima foto che mi viene in mente è forse una delle più famose fotografie di Mario de Biasi, una foto del ‘54 in cui una modella allora sconosciuta, Moira Orfei, presa di spalle, si trova di fronte al muro degli sguardi di una fila di uomini schierati davanti all’ingresso della galleria di Milano. Se a quel gruppo di rappresentanti del sesso maschile sostituissimo una foto del gruppo dei fotografi magnum otterremmo lo stesso effetto. Da questo punto di vista però per quanto riguarda le fotografia della mostra è necessario tenere presente un dato interessante. Uomini e donne sono grosso modo sono pari tra gli allievi del corso. L’immagine della donna che viene fuori dalle foto del corso inserite nel catalogo è quindi quantomeno un’immagine non certa neutra ma almeno prodotta da punti di vista diversi equamente distribuiti.
Il tema, come è solito fare Bob, non è dei più semplici. Negli ultimi anni ha proposto “Puro e impuro”, “L’autoritratto”, “L’infinito istante”. Tutti temi difficili soprattutto dal punto di vista dell’individuazione del soggetto. Da una parte i temi proposti sembrano temi aperti, che consentono di fotografare abbastanza liberamente aspetti diversi della realtà, ma dall’altra sono temi di cui facilmente si può perdere il filo della ricerca della foto significativa. E in qualche caso mi sembra sia capitato anche questa volta, anche se più raramente che nei cataloghi degli anni precedenti. A mio parere c’è qualche foto riuscita dal punto di vista tecnico, estetico, della composizione ma non del tutto coerente rispetto al tema proposto, foto in cui ci si può chiedere se al posto di una donna fosse raffigurato un uomo cambierebbe il significato? Ma a parte queste poche fotografie, il catalogo e la mostra evidenziano una certa coerenza che è stata ottenuta, come vedremo, anche mediante una sorta di autolimitazione dei possibili punti di vista attraverso cui far emergere il femminile come dimensione specifica.
Prima di passare a parlare di ciò che ho visto in queste foto, di ciò che mi è più piaciuto o interessato, e premetto che ciò è del tutto personale e non ha nessun valore di giudizio da parte di un esperto né tantomeno di tipo professionale, vorrei provare a esprimere alcune riflessioni su come una tematica del genere è stata affrontata da fotografi professionisti. Penso che ciò sia utile soprattutto per cercare di elaborare una sorta di griglia di lettura delle foto che sono presenti nella mostra e nel catalogo.
Non penso a singole fotografie ma a veri e propri percorsi tematici come è quello contenuto nel libro di cui parliamo stasera. Lavori del genere sulla donna, a parte la moda, il nudo, l’erotico, il glamour in generale, posso dire che non ne ho trovati moltissimi. Quelli che ho trovato possono essere collocati in due o tre grandi contenitori dal punto di vista soprattutto della modalità di realizzazione.
Il primo contenitore è quello delle fotografie scattate per cercare di cogliere nella realtà, nel mondo che ci circonda, aspetti particolari del mondo femminile legati spesso al contesto culturale e storico, aspetti che mettono in luce quella differenza, quella specificità di cui parlavo all’inizio ma all’interno di un’ulteriore specificità, quella spazio – temporale e culturale. Il primo lavoro è una raccolta di fotografie di un fotografo italiano, Emilio Gentilini, che negli anni 70 ha fotografato le Donne di Trastevere (Roma, Palombi, 2006). Sono fotografie che potremmo chiamare di reportage, fotografie basate sulla filosofia che ha forse avuto maggior successo tra i fotografi di reportage, quella della foto come cattura di istanti che in qualche modo diventano significativi, unici, irripetibili, quegli istanti che Cartier Bresson ha chiamato decisivi. Sono fotografie che raffigurano donne colte in atteggiamenti di vita quotidiana, donne di tutte le età, lavandaie, mamme, nonne, bambine, ragazze, in gruppo, sole, intente a scherzare, appena alzate, intente a mangiare, a ricevere posta, a pulire ortaggi per strada, a stendere panni nel cortile o alla finestra, davanti a un bicchiere di vino, a rispondere mandando a quel paese, in processione, all’osteria, ma che hanno in comune il vivere nello stesso spazio, nel quartiere romano forse più popolare, l’esser donnain quel luogo e in quel tempo. L’aspetto più interessante di quelle foto e che riescono quasi a far rivivere quegli attimi, i gesti, le espressioni di queste donne, nello stesso tempo costruendo l’immagine della donna di Trastevere, non soltanto descrivendola.
Un altro libro un po’ diverso per tipo di fotografie, ma che in qualche modo può esser collocato nello stesso contenitore del precedente, è il libro fotografico Donne di questo mondo di Uliano Lucas e Michele Smargiassi (Reggio Emilia, Diabasis, 2003). È una sorta di indagine fotografica sulle donne che lavorano e che vivono in un’area del modenese, l’area di Sassuolo, Formigine, Maranello. Lucas anche in questo caso costruisce un reportage in cui vengono rappresentate soprattutto donne che lavorano e che hanno saldamente conquistato tale spazio sociale senza abbandonare quelli tradizionali della famiglia, della cura della famiglia e di se stesse, le donne che hanno raggiunto una sorta di autonomia al prezzo di due lavori da svolgere contemporaneamente. Rispetto al lavoro precedente sembra che il tentativo di cogliere istanti particolari, unici sia molto limitato. Prevale l’intento documentario e descrittivo talvolta anche con foto che non possono non essere il prodotto di un lavoro di costruzione della scena, di una messa in posa del soggetto che collabora con il fotografo.
Vorrei anche ricordare un altro lavoro che ha la donna al suo centro ed è un libro fotografico di Genovesi, Femina rea (Pontedera, Bandecchi & Vivaldi, 2006), un libro che parla, attraverso le fotografie, della donna in carcere. Anche questo libro presenta un forte impianto descrittivo e documentario che, oltre a documentare la vita in carcere, la dimensione della vita nella condizione di reclusione che in qualche modo può accomunare uomini e donne, riesce a cogliere ciò che di specifico, di differente c’è nella vita in carcere della donna rispetto a quella dell’uomo a partire dalla condizione di madre.
Il secondo contenitore potrebbe essere invece quello delle foto realizzate attraverso la messa in scena vera e propria senza alcun intento documentario, ma con la volontà di comunicare idee, di usare la trasformazione della realtà che poi diventa fotografia per cercare di evocare emozioni, sensazioni, stati d’animo, una vera e propria personale rappresentazione della realtà, in particolare quella interiore o anche quella sociale. Penso all’immagine della donna che viene fuori ad esempio dalle foto di una fotografa come Cindy Sherman, soprattutto nella prima fase della sua produzione, quando, attraverso il travestimento e la tecnica dell’autoritratto, ha rappresentato l’immagine femminile come veniva fuori dalle produzioni cinematografiche americane di livello più basso. Sparisce in queste fotografie l’idea che ciò che è importante per la fotografia sia catturare l’istante significativo. Sono fotografie pensate, prodotto di un lavoro di costruzione della realtà che poi diventa soggetto fotografico. E con queste foto che la Sherman parla della donna attraverso la fotografia, così come aveva fatto prima di lei Cauhn e, in modo assai diverso per contenuti e finalità, ma simile per modalità di lavoro, Francesca Woodman. Un’altra fotografa che può essere inserita in questo contenitore è Nan Goldin con le sue foto dedicate a illustrare il rapporto tra i sessi, il senso di alienazione e di solitudine che domina il rapporto tra i sessi, che arriva fino alla violenza descritta mediante un noto autoritratto del 1984. Anche la Goldin usa la messa in scena e l’autoritratto come elementi del proprio linguaggio espressivo oltre a utilizzare amici quasi come personaggi di una fiction.
Un terzo contenitore invece è quello che vede la donna non tanto come genere ma come singolo individuo, come singola persona. In questo caso è l’insieme delle fotografie che restituisce l’idea di donna che le accomuna. Penso ad esempio a un lavoro come quello di Franco Fontana Donne, una raccolta di ritratti di donne note. Parlo di queste fotografie perché Fontana è famoso non tanto per i suoi ritratti, ma soprattutto per l’uso che fa di soggetti fotografati, un uso che in qualche modo trasforma l’oggetto fotografato in un’altra cosa, in una struttura astratta in cui prevale l’elemento estetico. Lo fa con paesaggi ma lo fa anche con il corpo della donna. È per questo che il libro di Fontana mi ha sorpreso, perché sfogliandolo ho trovato soltanto ritratti. Ma quello che è interessante rispetto al tema della nostra mostra è l’uso delle immagini seriali, in questo caso dei volti di donne famose che diventano un emblema di un certo modo di vedere il femminile, la donna vista attraverso le celebrità.
Credo che scorrendo le foto della mostra si possono rintracciare molti se non tutti gli elementi di utilizzati da questi grandi fotografi per parlare, attraverso il linguaggio fotografico, della donna. Quello che però domina incontrastato è soprattutto il ritratto. Su circa 70 fotografie, una trentina sono ritratti. Le donne raffigurate sono donne di tutte le età: bambine, adulte, vecchie. Non so come interpretare questa prevalenza del ritratto, anche perché, conoscendo i meccanismi con cui vengono scelte foto da inserire nella mostra, è difficile che sia il frutto anche di un caso. Può darsi invece che di fronte al tema della donna la scelta di privilegiare il ritratto coincida con la scelta di privilegiare l’individualità, la personalità, la dimensione psicologica piuttosto che la generalità, che sia quindi una sorta di spia di un elemento culturale, quello della preferenza per l’individuo sulle categoria, della persona sulle astrazioni come in fondo sono quelle di genere.
Quasi assente è anche la tematica del rapporto tra i sessi, tranne forse che nella foto di Silvia Mariani di pag. 71, che rappresenta una coppia di ebrei con figlio in carrozzina, in cui sembra che la tradizione, in qualche modo incarnata dall’uomo, renda subalterna la donna anche per il gesto di questa che si sta mangiando le unghie; oppure, di segno opposto il rapporto suggerito in un’altra foto (pag. 85) di Michelucci in cui una ragazza con uno sguardo aggressivo in posizione centrale volge le spalle ai compagni, quasi come se fosse il leader del gruppetto. In questo caso ad essere subalterni sono i maschi messi in secondo piano, seduti e passivi. Oppure nella foto di Verica Ferrarini (pag. 37) del gruppo di donne intorno al tavolo di cucina che evoca quasi una sorta di autosufficienza e di esclusione dell’altro sesso evocato dall’assenza. Autosufficienza che traspare da altre foto come quelle di Marco Del Greco (pag. 19 e 21), o nelle foto di Luisella Mazzilli di pag. 77 e pag. 79 in cui sono ritratti solo corpi di donne in posizione rilassata che sembra si facciano compagnia, si rassicurino vicendevolmente. Totalmente assente è invece la tematica della violenza.
Per quanto riguarda invece il ritratto, mi sono piaciuti quelli (pagg. 143, 145, 147) di Alicia Wolos perché in qualche modo mi sembra che attraverso essi l’autrice compia una sorta di esplorazione della dimensione interiore attraverso il volto e il corpo della donna rappresentata che entrano in rapprto anche con lo spazio e gli oggetti (specchi, finestre) che sono in tale spazio. Qualcosa che mi ricorda vagamente le fotografie di Francesca Woodmann che cerca di esprimere la propria personalità attraverso il proprio corpo e la relazione costruita mediante la messa in scena tra corpo e oggetti collocati in particolari ambienti. Forse è proprio in alcuni di questi ritratti che si può intravedere non certo la violenza o l’alienazione, ma almeno una sorta di inquietudine, di disagio, in quei ritratti in cui lo sguardo è perso oltre i bordi della fotografia come nel caso dell’anziana signora della foto di Adriana Favati (pag. 27) e ancor più nella foto successiva in cui gli occhi della ragazza evocano anche una sensazione di assenza (pag. 29), o nella foto di Antonio Genua (pag . 21 ), o in quella di Martina Lazzerini (pag 51 ), o di Barbara Leoni (pag. 57), o di Luisella Mazzilli (pag. 73 e 79 ), o ancora di Valentina Ravaglia (pag 113 ). Collocherei gran queste fotografie nel contenitore delle foto prodotte attraverso la costruzione della scena, le foto pensate prima di essere scattate.
Altre foto possono essere invece collocate nel contenitore del reportage. Sono abbastanza poche. Una mi sembra che sia vicina alle foto di Emilio Gentilini delle Donne di Trastevere, non tanto per il contesto ma piuttosto per la capacità di afferrare l’attimo significativo, unico. È la foto di Carlo Vallati (pag 137) in cui due anziane signore parlano tra loro in quello che sembra un parco in un’atmosfera molto inglese.
Sono presenti anche alcuni accenni alla dimensione estetica del corpo femminile, in particolare nelle foto di Luisella Mazzilli (pagg 75 e pag. 77) e di Iacopo Vannozzi (pag. 139), con una riflessione anche sul rapporto tra bellezza e tempo che scorre , foto di Elena Pardi (pag. 97, 99 e 101). Molto interessanti anche le foto enigmatiche e forse volutamente in sequenza di Fabio Lazzerini (pag 45 e 47) che forse fanno pensare al ruolo dello specchio nella costruzione dell’immagine femminile.
Nel complesso mi sembra che siano stati utilizzati, anche se in proporzioni diverse, tutti gli elementi del linguaggio fotografico usati anche dai fotografi professionisti per affrontare la stessa tematica. Dal punto di vista dei contenuti, emerge una maggiore attenzione alla dimensione privata, intima, psicologica della femminilità, rispetto alle tematiche pubbliche e sociali.
massimocec agosto 2017
Comment
Salve sarei interessata a vedere tutte le foto della mostra, a scopi didattici, ma non riesco a trovare il catalogo online.