San Giuliano è il luogo in cui sono nato. Tutte le volte che debbo comunicare i miei dati anagrafici, alla domanda “Nato a…”segue questo breve stringa di parole che per molto tempo per me è stata solo questo, una successione di parole che, quasi automaticamente si materializzavano a seguito della fatidica richiesta. Non ricordo molto del periodo in cui ho vissuto a San Giuliano, anzi a Mezzana frazione di San Giuliano, un po’ perché ero molto piccolo, sono venuto via a sei anni, e un po’ perché quei luoghi sono rimasti per me indifferenti. Ricordo una casa sotto l’argine dell’Arno, qualche nottata trascorsa con la paura che la piena ci sommergesse. Quando l’Arno era in piena faceva paura. Mio padre passava la notte a controllare il fiume che era sopra le nostre teste. Nello stesso tempo, nelle serate d’estate il fiume ci consentiva di attraversarlo, cenare sulle sue spiagge improvvisate, assaporare l’aria rinfrescata dal contatto con le sue acque, giocare con i miei cugini sulle sue rive.
Ancora mi ricordo di mio padre che la domenica mattina andava in bicicletta, casa per casa, a diffondere il suo giornale, l’Unità. Mi ricordo anche di mia nonna, la nonna paterna, religiosissima, che mi portava la sera nella buia e antichissima chiesa del paese, come ce ne sono tante in quella zona, ma non sapevo perché. Dovevo stare seduto e aspettare, aspettare che mia nonna con le altre sue compagne terminasse quello che poi ho scoperto essere il rosario. Talvolta riuscivo ad allontanarmi, nel cortile dell’asilo, dove la sera invece che dei bambini incontravo i vecchi dell’ospizio. Ricordo anche le suore, le loro tonache da cui uscivano pesanti corone. Ricordo il giorno della morte del Papa Pio XII° e dell’imposizione di un raccoglimento che accettai per partecipazione emotiva senza però comprenderlo in quanto vedevo spesso morire i vecchietti dell’ospizio senza la stessa enfasi.
Mi ricordo una campagna che mi appariva sterminata e molte persone con un nome ma dal volto irriconoscibile. Non ricordo stati d’animo, paure, sensazioni, emozioni legate ai luoghi che invece sono rimaste nitide associate ad altri luoghi, in particolare alle estati passate in una libertà quasi anarchica in campagna da mia nonna, la mia nonna materna, in una casa cantoniera lungo la ferrovia Pisa – Cecina, vicino a Vicarello, un paesino sulla statale Emilia che collega appunto Pisa con Cecina. Di quei luoghi mi è rimasta l’immagine dello spazio vuoto, senza persone, la solitudine dei campi. Ma sono rimasti appunto solo i ricordi. La ferrovia è in disuso, la casa cantoniera è stata abbattuta e le persone disperse ciascuna con il suo destino ignoto a chi le ha conosciute in quel tempo. San Giuliano no. Per San Giuliano non è andata così, San Giuliano è rimasto un luogo vivo, presente.
Eppure per molti anni ho dimenticato San Giuliano e la mia casa. Poi ho conosciuto alcuni amici e ho scoperto che oltre i miei ricordi esisteva anche un’altra San Giuliano. Un paese fatto di persone, di storie, di altri luoghi che non conoscevo, come Molina di Quosa, o che vedevo solo come qualcosa di lontano, di completamente diverso come le Terme, il Cafè Haus, la casa del Polacco che mi sembrava un luogo misterioso che incuteva timore.
È stata non solo una scoperta di una umanità che stava accanto a me e per me silenziosa, ma anche una scoperta visiva di luoghi visti ma non guardati.
Grazie al mio amico Ovidio e ad altri amici sono piano piano entrato in questo mondo vicino ma sconosciuto. Non sempre occorre fare grandi viaggi per scoprire l’ignoto. Talvolta basta un legame e un po’ di curiosità. Occorre soprattutto non disprezzare ciò che ci sta intorno pensando che solo l’esotico possa offrirci la possibilità di entrare in contatto con il mondo, con la bellezza.
Non vivo questo rapporto con San Giuliano con nostalgia, quella stucchevole nostalgia che si trova in tanti libretti che in questo periodo stanno dilagando sulle memorie di un mondo che non esiste più, il mondo perduto della propria giovinezza, un mondo quasi sempre frutto della fantasia di vecchi che sognano un passato che non è mai esistito, che è il frutto di arbitrari tagli. Sono insopportabili come i complessi dei vecchi cantanti che continuano ad apparire in televisione senza capelli, con un corpo che a stento entra in abiti fuori moda. La nostalgia è pericolosa perché ingigantisce a dismisura il passato e uccide il presente e il futuro. Eppure, soprattutto giunti ad una certa età, la nostalgia esercita il suo fascino, come le sirene di omerica memoria. È un fascino da cui con difficoltà si riesce a sfuggire perché forse costituisce una via di fuga rispetto alla percezione di un tempo che inesorabilmente avanza. È un’attrazione piena di fascino che però si confonde con l’inganno, con il rifiuto patologico del presente. Bisogna coltivare la memoria e usare i ricordi facendo uso del senso del limite, del principio di realtà, il che vuol dire che occorre una sana inquietudine nel rapporto con il presente e non semplicemente il rifiuto. Se da un lato si può giocare con il tempo come fa Tabucchi in molti suoi racconti, se si può utilizzare il tempo come strumento per non farsi inghiottire dal potere invasivo del presente, non si deve neppure lasciare che il foro da cui sgorga la memoria venga dilatato dalla nostalgia fino ad sommergere il presente e il futuro.
Vivo il rapporto con il passato come scoperta, scoperta della possibilità di vivere in un luogo che era stato non solo dimenticato ma anche cancellato dal tuo passato. Scoperta delle tante possibilità di incontri che non ci sono stati, di vite parallele di cui non sapevi niente e che oggi si rivelano, una sorta di altra forma di conoscenza rispetto a quella altrettanto importante del relale che chiamiamo comunemente conoscenza scientifica. La fotografia gioca un ruolo importante per questa forma di conoscenza come l’arte e la letteratura. È un andare oltre la vita, un superare i confini della vita alla scoperta di luoghi di cui non sapevi niente anche se erano lì a due passi da dove stavi vivendo la tua vita. Del riscatto del banale quotidiano inosservato che non viene visto perché nascosto da altre luci, da miraggi creati dal fascino della luce solare che si dileguano però quando arrivano le luci della sera.
La fotografia è uno strumento per esplorare queste possibilità, Wim Wenders dice “Sparare fotografie. Quello del fotografare è un atto nel tempo, nel quale qualcosa viene strappato al suo momento e trasferito in una diversa forma di continuità. Si pensa sempre che ciò che viene strappato al tempo si trovi davanti alla macchina fotografica. Ma non è del tutto vero. Fotografare è un atto bidirezionale: in avanti e all’indietro. Certo, si procede anche all’indietro. Il paragone non è poi tanto stravagante. Come il cacciatore appoggia il suo fucile, mira alla selvaggina davanti a lui, preme il grilletto, e quando il parte il proiettile viene spinto indietro dal contraccolpo, così anche il fotografo viene risospinto verso se stesso premendo il dispositivo delle scatto.” (Wim Wenders “Una volta” Edizioni Socrates 1991 p. 20). E questo contraccolpo legato alla creazione di un oggetto che prima non c’era ed ora è lì davanti a te, un oggetto nato da una tua scelta, legata al fatto che in quel tratto del continuo spazio – temporale hai visto qualcosa che viene sottratto, conservato da te e per te.
massimocec agosto 2017
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