Intervista immaginaria ad un filosofo in parte reale e in parte immaginario. Alcune idee qui utilizzate sono le idee di Alfonso Iacono, il quale non ha però alcuna responsabilità della deformazione che le sue idee hanno subito in questa libera intervista immaginaria in cui l’intervistato è solo l’ombra da me intenzionalmente costruita del filosofo reale per poter eventualmente discutere con lui.
Come definirebbe la fotografia?
La prima cosa che mi viene in mente è che la fotografia è un racconto dei fatti ed è un atto intenzionale determinato dalla volontà del fotografo che decide di premere il pulsante. Però credo anche che l’aspetto intenzionale e quello fattuale non esauriscano tutto ciò che possiamo trovare nella fotografia. Ci sono almeno altri quattro elementi da tenere presenti che caratterizzano la fotografia. Il primo è la possibilità di riprendere l’imprevisto, la possibilità di scoprire dei dettagli che fotografo non aveva pre-visto e la possibilità di riprendere cose che non si vedono ad occhio nudo, elementi che rendono la fotografia un prodotto imprevedibile e nello stesso tempo quasi iperreale. Un secondo elemento che caratterizza la fotografia è la sua portabilità che consente una sorta di privatizzazione delle immagini, così come il libro ha consentito una privatizzazione della scrittura e nello stesso tempo la fa diventare oggetto di fruizione di massa. Un terzo elemento, quasi contrario del primo, è la natura soggettiva della fotografia, il suo esser prodotto di una scelta che pone dei limiti, che scarta, che costruisce un punto di vista. Infine un quarto elemento, la vaghezza, il suo evocare senza esplicitare. Sono caratteristiche che rendono la fotografia qualcosa di complesso, di molto complesso.
Prima ha parlato della portabilità della fotografia e del suo carattere innovativo sul piano sia della privatizzazione delle immagini sia della loro diffusione di massa. Pensa che l’avvento della fotografia abbia costituito una sorta di rivoluzione per l’immagine così come la stampa lo è stato per la scrittura?
Sì penso che l’avvento e della diffusione della fotografia rappresentino una rivoluzione nel mondo delle immagini, una rivoluzione che ha cancellato professioni, ha costretto o ha consentito alla pittura diventare qualcosa di diverso, ha creato un rapporto completamente nuovo tra immagine, cultura, conoscenza, senso comune. Sul piano artistico molto probabilmente la pittura delle avanguardie è debitrice alla fotografia della rottura del vincolo che costringeva la pittura nei limiti di quello che possiamo definire rappresentazione speculare della realtà. Come per ogni rivoluzione, è importante la gestione della novità. La violenza scaturisce non tanto dall’aspetto rivoluzionario ma da come viene gestita la novità. L’introduzione di nuove tecniche produttive non ha come conseguenza inevitabile il licenziamento di tutti i lavoratori. Tutto dipende da come viene gestita la novità. E questa è accaduto anche con la fotografia che non ha cancellato la pittura ma ha ridisegnato gli spazi a disposizione di ciascuna attività legata alla produzione delle immagini e al loro rapporto con gli altri ambiti della cultura.
Pensa quindi che in qualche modo l’avvento della fotografia abbia consentito una migliore capacità riproduttiva della realtà rispetto alla pittura?
No, non penso questo. Anche per la fotografia rimane importante il valore dell’imperfezione. Quando si parla di immagini, l’imperfezione è più importante della perfezione, della definizione. L’immagine non è mai specchio della realtà ma capacità di evocare il non detto attraverso il visibile. Nel film Blow-up il protagonista fotografo si imbatte, in un parco periferico di Londra, in due amanti e scatta loro delle foto, cercando di non farsi notare. La donna però lo vede e cerca a tutti i costi di impossessarsi delle foto. Il protagonista allora cerca di approfondire l’esame delle foto sviluppandole e ingrandendole (appunto applicando il Blow-Up). Grazie a queste operazioni il protagonista si accorge che le immagini rivelano un assassinio, pur non risultando chiara la situazione rappresentata. Thomas, il fotografo protagonista, continua ad indagare ma non riesce a scoprire quello che era successo. La verità evocata dalle fotografie resta inafferrabile, non è possibile stabilire la dimensione reale che sta dietro quelle immagini. A tale conclusione rimanda la scena finale del film in cui si vede una partita di tennis giocata senza palle né racchette il protagonista segue con gli occhi la traiettoria dell’invisibile pallina e sente il tipico rumore della racchetta che colpisce la palla ma non riesce a stabilire il confine tra illusione realtà. Rimane il dubbio di aver immaginato tutto. Anche la fotografia non è lo strumento per riprodurre fedelmente la realtà, anche se rispetto alla pittura ha caratteristiche completamente diverse. La fotografia ha una sorta di legame con la realtà simile a quello che ha l’essere con la conoscenza. A partire da Nietzsche, molti filosofi hanno preso sul serio l’idea che tutta la conoscenza sia interpretazione, in assenza dell’essere. Umberto Eco ricorda invece che esiste qualcosa che chiamiamo essere e questo è caratterizzato da un massimo di estensione e un minimo pari a zero di intensione, qualcosa cioè che comprende tutto ciò che esiste ma che non può essere definito in alcun modo perché non ha alcuna caratteristica specifica. Il rapporto tra l’essere e la conoscenza è un rapporto negativo nel senso che non è possibile conoscere l’essere poiché esso si rivela sempre e solo mettendo in crisi le nostre conoscenze, le nostre interpretazioni rivelandone la parzialità. La fotografia in qualche modo ha con la realtà un legame impossibile da eliminare ma nello stesso tempo non ha con essa un rapporto speculare. La pittura invece può benissimo non avere alcun rapporto con la realtà. Nasce o può nascere direttamente dalla mente del pittore.
Per tali motivi penso non sia applicabile la dicotomia vero – falso alla fotografia. Sono invece importanti la dimensione della differenza, quella della gradualità e quella della contestualizzazione. Il fattuale, la verità della fotografia può emergere soltanto grazie alla cooperazione dell’oggetto fotografia con chi la guarda che riesce, grazie a tutta una serie di altri elementi, non esclusa la parola, a costruire un’interpretazione che non è in ogni caso arbitraria. Come ogni interpretazione, non è l’unica possibile ma non tutte le interpretazioni sono possibili.
Non le sembra un po’ debole il legame che lei ha visto tra fotografia e realtà?
La questione rimanda a che cosa è il realismo e all’idea che in qualche modo ci sia un percorso compiuto dall’uomo verso una maggiore precisione nella riproduzione della realtà, un percorso che passa ad esempio attraverso l’invenzione della prospettiva e arriva alla fotografia. D’altra parte la fotografia non è altro che l’invenzione della possibilità di fare automaticamente ciò che i pittori facevano con la camera oscura già fin dal Cinquecento. La prospettiva non è altro che l’invenzione di una grammatica della rappresentazione, una grammatica che si basa sull’idea che esiste un punto di osservazione privilegiato dal quale è possibile tracciare delle linee e all’interno di tali linee è possibile rappresentare la realtà, una rappresentazione che comunque rimane bidimensionale rispetto ad un mondo che è quanto meno tridimensionale, se non si considera la dimensione del tempo. Possiamo chiederci allora se la rappresentazione della realtà grazie alla prospettiva sia una rappresentazione più o meno realistica di altri modi di rappresentare. Io dico che tutto dipende dal contesto e dal motivo per cui io voglio rappresentare quella realtà. Tutto dipende da quale gioco stiamo giocando per dirla con Wittgenstein. La rappresentazione fotografica è un po’ come la parete della caverna di cui parla Platone nella Repubblica, una parete sulla quale vengono proiettate delle ombre e che gli schiavi incatenati all’interno della caverna, non potendo vedere nient’altro che quella, pensano che sia la realtà. L’essere incatenato non è però l’unica condizione possibile per l’essere umano.
Lei pensa quindi che sia possibile mettere in relazione l’idea della conoscenza che emerge dal mito della caverna con la fotografia e con la libertà?
Possiamo pensare al mito della caverna come ad una sorta di anticipazione della fotografia. La fotografia è un po’ come le ombre che gli schiavi vedono proiettate sulla parete. Gli schiavi sono come coloro che vedono nella fotografia non una proiezione della realtà ma come la realtà perché non possono accedere ad altri mondi. È però da tener presente che lo schiavo che riesce a liberarsi non è colui che scopre l’autentica realtà, ma è colui che può mettere in relazione il mondo con la caverna con un altro mondo, quello esterno fuori dalla caverna, quello proiettato sulla parete della caverna. Lo schiavo che si libera non è lo schiavo che scopre la verità, l’autenticità del mondo reale ma colui che diventa autonomo in quanto in grado di mettere in relazione i due mondi. Anche lo schiavo che si è liberato vede una rappresentazione della realtà collocandosi in un particolare punto di vista, grazie ad un gioco di luci ed ombre che è una delle tante possibilità. Le immagini prodotte sulla parete della caverna non sono il prodotto di un inganno ma di una manifestazione fenomenica della realtà. Potrebbero essere anche una finzione, una rappresentazione illusoria della realtà se fossero prodotte volontariamente da qualcuno per trarre in inganno chi è costretto a guardare solo quelle ombre. Allora sarebbero una rappresentazione illusoria della realtà che, se associata alla consapevolezza della natura illusoria di essa, sarebbe una finzione come lo è il teatro o il cinema, altrimenti sarebbe un inganno. Lo schiavo liberato sarebbe allora lo spettatore consapevole che è in grado di farsi coinvolgere nell’illusione mantenendo con la coda dell’occhio il legame con l’altro mondo, quello della realtà. Ingannati sono gli schiavi incatenati in quanto manca loro la libertà di muoversi tra i diversi mondi e quindi la possibilità di diventare autonomi. Inganno c’è anche quando si nascondono i legami tra i diversi mondi e si mostra uno di essi come l’unico mondo possibile.
C’è da dire però che la relazione tra due mondi è un tipo particolare di relazione, non è una relazione biunivoca ma una relazione univoca in quanto il mondo esterno non può essere prodotto dal mondo delle ombre proiettate sulla parete della caverna. Quello che non può accadere è che la rappresentazione sulla parete della caverna produca direttamente, senza alcuna mediazione, la realtà esterna. E qui sta il limite di tutte quelle teorie che riducono ogni forma di conoscenza all’interpretazione. Certo, attraverso gli spettatori che sono anche attori potenziali, la rappresentazione può modificare la realtà nel senso che anche le rappresentazioni – finzione possono determinare la trasformazione della realtà mediante il lavoro e la progettazione, la tecnica. La conoscenza come la fotografia sono importanti perché, se ben utilizzate, consentono di guardare ad un altrove, di mettere in relazione diversi mondi, diverse possibilità. Ma i rapporti tra i diversi mondi non sono immediatamente intercambiabili.
La ricchezza che rende lo schiavo liberato superiore agli altri è quella dell’esperienza di un altro mondo ma non la scoperta della verità. Lo schiavo liberato grazie alla sua conquista diventa più autonomo rispetto agli altri incatenati. La ricchezza dello schiavo non è né la libertà né il possesso della verità ma l’autonomia conquistata attraverso la libertà. Chi crede di essere nella verità è spesso un soggetto pericoloso, possibile preda del fanatismo. E alla base del fanatismo ci sta l’illusione che consiste nel pensare la propria immagine della realtà sia l’unica possibile, l’unica vera. La libertà in sé porta a scontrarsi con un altro pericolo, quello dell’interpretazione senza limiti, della cancellazione illusoria della presenza dell’essere. E questo è il relativismo assoluto, l’idea che il legame tra rappresentazione e grammatica attraverso cui si costruisce la rappresentazione sia un legame chiuso. Ciascuno diventa schiavo del proprio tempo e della propria cultura come suggerisce un certo storicismo.
Se la verità quindi non è l’elemento più importante della fotografia, che cosa ritiene allora sia importante in essa?
Io credo che il gioco di luce e di ombra e quindi la vaghezza siano elementi più importanti della precisione e quindi della verosimiglianza. La fotografia è anche il prodotto del senso del limite, del saper scegliere, del saper eliminare. Scrivere e fotografare hanno in comune la capacità di porsi dei limiti, la capacità di tagliare, di scegliere, di saper scegliere che cosa è importante. Attraverso la scelta si educa anche il gusto e quindi si contribuisce a costruire l’idea di bellezza. Non credo che la bellezza sia una qualità primaria della fotografia ma credo che la bellezza sia il prodotto della fotografia come ricerca, come autonomia del soggetto che fotografa e come autonomia del soggetto che guarda la fotografia, come capacità di percepire un altrove attraverso il qui e ora della fotografia rimanendo ancorati all’essere, alla realtà che produce la fotografia come scrittura di luce che diventa scrittura con la luce per dirla un po’ con le parole di Scianna.
Certo mi rendo conto che questa lettura è una libera interpretazione del mito della caverna, con il quale forse Platone voleva prendere le distanze dalla conoscenza troppo ancorata al sensibile, alle ombre che i sensi proiettano sulla mente che invece deve liberarsi dal loro dominio per raggiungere l’idea. La fotografia accetta il potere delle ombre, non lo nega, ma non ne subisce il dominio. Il sensibile, ciò che si vede, oggetto della fotografia, è l’humus sul quale noi costruiamo ciò che sappiamo e anche ciò che immaginiamo, non certo come suggerivano gli empiristi, ma comunque come “stipite contro cui bisogna sbattere” anche quando siamo in cerca del possibile.
massimocec agosto 2015
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