«Prendete per esempio la foto di copertina: i nostri giovani scooteristi stanno commettendo sicuramente una bella serie di reati, sono irresponsabili, pericolosi a sé e agli altri. Ma ci stanno simpatici un po’ perché stanno andando al mare, un po’ perché sono poveri, un po’ perché sono terroni. E soprattutto perché, essendo già in tre, si sono fatti carichi di imbarcare anche il quarto.
Una volta si faceva così, perlomeno a Napoli: “Fammi salire!”, “No, non vedi che non ci stiamo?”, “Ma io mi faccio picciriddo picciriddo”, “Ok, Sali!”» (E. Deaglio, Gli anni Sessanta, Feltrinelli, Milano 2023, p. 10).
La fotografia della copertina del libro Gli anni Sessanta di Enrico Deaglio e Ivan Carozzi è stata scattata sulla strada del “Foro” a San Giuliano Terme tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta. Quattro giovani vespisti sullo sfondo di una parete rocciosa, la parete della strada che porta alla galleria da poco inaugurata e che unisce Pisa a Lucca senza dover percorrere tutta la vallata del fiume Serchio.
L’originale di quella foto l’avevo tenuto in mano poco più di dieci anni fa. Ero insieme a un caro amico, Stefano Barbuti, stavamo guardando alcune sue vecchie immagini di San Giuliano Terme per pubblicarle su questo blog e vidi quella fotografia che mi colpì. Subito mi venne la voglia di scrivere un articolo sul giornale online La Voce del Serchio con quella foto inserita.
In precedenza la foto era stata pubblicata su Due ruote, una rivista motociclistica, e poi era anche passata su un programma Rai. La “bravata” dei quattro “ragazzacci su una Vespa” era però contestualizzata nei primi anni del dopoguerra, forse il quarantanove, veniva fatta passare come normale, “allor che si poteva”, si legge su Due ruote.
La fotografia raffigurava quattro ragazzi in vespa. Riconobbi quello che guida, il padre del mio amico. Poi anche gli altri, compresi quelli con i volti un po’ nascosti, ci divertimmo a ricordare anche i loro soprannomi. I primi tre si abbracciavano per sentirsi più sicuri, il quarto si teneva alla vespa. Quello che mi colpì non fu soltanto la bellezza del bianco e nero, ma quella tensione nei loro volti che dà forza all’immagine.
Dove staranno andando i quattro in vespa?
Verso il “Foro”, realizzato con i fondi stanziati nel 1922 da Carlo Barsotti, nato a Bagni di San Giuliano (il vecchio nome di San Giuliano Terme), emigrato in America dove si arricchì. La galleria fu finita prima che Barsotti morisse, nel 1927, ma fu completata e aperta al traffico nel 1949.
I quattro giovani in vespa si sarebbero fermati all’imbocco della galleria per l’inaugurazione e poi alla baracchina a sinistra per uno spuntino o si sarebbero infilati dentro il tunnel che passa sotto i Monti Pisani per andare a Lucca?
Meglio non farsi troppe domande e guardare quei quattro amici uniti su una vespa. In quella bella giornata d’estate, decisi di andare insieme da qualche parte. Forse semplicemente verso gli anni Sessanta, che la foto anticipa così bene tanto da poterne diventare un emblema.
Sarei curioso di sapere dove è stata trovata e come è nata l’idea di farne la foto di copertina. Ma l’importante è ciò che c’è sotto quella fotografia: un gran bel “libro illustrato” sugli Anni Sessanta.
odellac
“Due ruote”, n°. 83, marzo 2012 in cui fu pubblicata la fotografia dei giovani sangiulianesi
LA VESPA
L’anno di nascita della Vespa è il 1946, nel primo anno del secondo Dopoguerra Il suo ideatore è Corradino d’Ascanio. Si dice che ascoltando il ronzio del motore di uno dei primi esemplari, un motore da 98 cc, Enrico Piaggio disse: “Pare una vespa!”. E così fu battezzato il nuovo mezzo di locomozione destinato ad un successo inimmaginabile. Nel 1948 la Piaggio lanciò un nuovo modello con un motore da 125 cc. Poi venne il modello del ’51, molto simile al precedente, modello che divenne grazie al suo utilizzo per le strade di Roma nel film del 1953 con Audrey Hepburn e Gregory Peck Vacanze Romane.
Nel 1946 la guerra era finita e con essa era finito il fascismo. Si respira un’aria nuova e si può ricominciare a vivere. Comincia la fase della ricostruzione grazie anche agli aiuti del Piano Marshall. La gente è libera di muoversi ,a mancano i mezzi. È in questo clima che la Piaggio, industria che ha prodotto un po’ di tutto, dagli interni navali, al materiale ferroviario e infine produzioni aeronautiche lancia la Vespa. Il suo padre, Corradino Ascanio, era un ingegnere con il pallino dell’invenzione. Aveva ideato il primo prototipo di elicottero moderno. Non amava le motociclette, perché le riteneva scomode, difficili da guidare. Anche salir sopra tali veicoli era scomodo, senz’altro un mezzo non adatto a chi non era un amante di tale veicolo e a chi aveva poca esperienza della guida delle due ruote. Così pensò ad un mezzo nuovo, economico e facile da guidare. Il luogo di produzione è lo storico stabilimento di Pontedera, vicino a Pisa. A fianco della Vespa nasce in quegli stessi anni la storica Lambretta. Insieme i due mezzi di locomozione, prima dell’avvento delle utilitarie Fiat, hanno cambiato il modo di vivere degli italiani. Non solo, con la Vespa e la Lambretta prende avvio anche un nuovo modo di far pubblicità attraverso il cinema e i giornali, un modo che punta legare i due oggetti di consumo, perché questo diventeranno i due mezzi di locomozione, alle idee di libertà e di indipendenza, un modo che coglie pienamente alcuni dei bisogni degli italiani usciti da poco dalla guerra, il bisogno di sentirsi liberi, di muoversi, di “rinascere”. La Vespa costava 68.000 lire, non poco. Corrispondevano a diverse mensilità di un lavoratore. Ma un nuovo modo di pagare facilitò la possibilità di acquisto, il pagamento “a rate”. Era una forma di pagamento che esisteva già prima della guerra, ma che la crescita economica del dopoguerra rese accessibile ad una gran quantità di persone che prima ne erano escluse. Vespa e Lambretta costituirono quindi le prime avvisaglie della profonda rivoluzione nei modi di vita e nei costumi che avverrà negli anni Sessanta.
| Indice | C’era una volta in Italia | Gli anni Sessanta | Gli anni Settanta |
| 1960 | 1961 | 1962 | 1963 | 1964 | 1965 | 1966 | 1967 | 1968 | 1969 |
La foto di copertina. Un interessante anacronismo
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Un interessante anacronismo
Le osservazioni contenute in questa pagina sulla fotografia di copertina del libro di Deaglio e Carozzi relative alla rivelazione dell’anacronismo che sta dietro mi sembrano rivelatrici di alcune caratteristiche che ritengo essenziali del libro e anche del progetto al quale stiamo lavorando.
La fotografia della copertina è un esempio interessante di come la lettura dell’immagine può cambiare semplicemente cambiando il contesto. Deaglio e Carozzi hanno presentato la fotografia dei quattro giovani sulla vespa come una foto degli anni ’60, negli anni del boom. L’elemento che gli autori del libro sottolineano è quello della rottura con il sistema delle regole, una rottura che non si presenta ancora come scontro, uno scontro che si avrà alla fine degli anni ’60. Nel caso della fotografia, per come è stata letta, c’è uno scontro con le regole che in qualche modo è riassorbito all’interno del contesto: sono simpatici.
Mettendo in risalto l’anacronismo e spostando la datazione agli anni ’60 e primi anni ’50a il significato della fotografia cambia. Non siamo più negli anni del boom, ma in quelli del faticoso cammino per uscire dal disastro provocato dalla guerra. L’elemento centrale, che dopo la rivelazione dell’anacronismo, ora io leggo nella fotografia non è più la rottura delle regole, ma lo sforzo di quattro giovani per conquistare il primo, ridotto scampolo di libertà, di autonomia. Quei quattro giovani non sono quattro terroni che infrangono deliberatamente le regole senza infrangerle fino in fondo, ma quattro italiani, quattro ragazzi che si aggrappano al primo strumento del consumismo, un consumismo che ancora non ha dilagato, la vespa, un primo strumento che la società offre, prima dell’arrivo delle utilitarie, per uscire dalla claustrofobica chiusura prodotta dal fascismo e dalla guerra, per uscire dalla miseria.
È questa carica di ambiguità in fondo la caratteristica principale di qualsiasi immagine, l’ambiguità che è connaturata con la sua natura, che non è un elemento voluto ma inscritto nella natura di ogni oggetto iconico.
Un’analoga carica di ambiguità la troviamo anche negli oggetti della memoria. Diverse letture dello stesso elemento si possono ottenere anche cambiando il lettore, il soggetto che guarda la fotografia. L’oggetto rimane lo stesso ma nello stesso momento cui mantiene la sua identità, si mostra diverso perché colui che guarda vi vede cose diverse. La fotografia si comporta come gli oggetti che la memoria usa per rimanere viva, oggetti che sono spesso carichi di ambiguità sia perché la memoria funziona grazie a un gioco di permanenze e di oblio, sia perché in sé nessun oggetto è autosufficiente come elemento portatore di significato. L’anacronismo della foto quindi richiama l’elemento fondamentale del libro di Deaglio e Carozzi, il fatto che un libro del genere, una sorta di almanacco denso di oggetti stimolo, può funzionare solo attraverso una stretta cooperazione tra il testo e il lettore, una cooperazione che rende ciascun elemento recuperato nel libro e messo a disposizione della memoria, un elemento con una forte carica soggettiva sia da parte di chi l’ha selezionato ed inserito sia da parte di chi lo legge ed è chiamato a rielaborare i propri ricordi e a rimettere in moto la propria memoria. Il libro di Deaglio e Carozzi infatti non è un libro storiografico, anche se, come viene ricordato nella prefazione, tutti gli approfondimenti storici sono il frutto della consultazione dei lavori di storici di rilievo, ma un libro della memoria, della memoria storica, della memoria cioè che dialoga con la storia.
I singoli elementi che costituiscono i contenuti ricordati per ciascun anno, dagli elenchi che comprendono squadre che hanno vinto il campionato in quell’anno, alle canzoni che hanno vinto il festival di Sanremo, ai testi che presentano talvolta anche in modo ampio singoli eventi, alle immagini, sono utilizzabili come stimoli per la costruzione di una memoria corale e cooperativa che non si identifica con una memoria omologante in cui tutti arrivano a pensare la stessa cosa, ma che anzi si può descrivere come una memoria reticolare, simile alla mappa di una città in cui i vari quartieri collegati tra loro da strade coesistono mantenendo ciascuno la propria identità pur facendo parte della stessa entità geografica.